Contest
di Scrittura indetto dal gruppo facebook A Panda piace fare le bolle di
assenzio
Pacchetto GRIGIO - Onirico, Angst, Introspettivo
Prompt: MASCHERE
Risultato: PRIMA CLASSIFICATA
Bottoni
e tulipani
Siamo soli, tu ed io, Tez, seduti al centro esatto di un
nulla rosso e
bianco.
- Perché ci troviamo qui?
Ti volti sorridendo, con i tuoi occhi grandi e verdi, il
volto pallido e un po’ smunto e la dentatura imperfetta. Non
so perché, ma mi rendo conto di aver appena fatto una
domanda stupida.
- Veniamo qui ogni giorno, Rack – rispondi un po’
sorpresa, dandomi una leggera pacca sulla spalla – Non ti
piace più?
- No, non intendevo questo – sussurro, abbassando lo sguardo
– Solo… mi sembra un po’
strano… perché non c’è
niente, oltre al terreno rosso e al cielo bianco?
Mi osservi con aria divertita, le tue labbra sottili e
chiarissime si allargano ulteriormente, mettendo in mostra i canini
sporgenti: - Cosa vorresti ci fosse, allora?
Sparo la prima cosa che mi viene in mente: - Un campo di
tulipani.
Come per magia, la terra rossa ed inconsistente scompare,
lasciando il posto ad un ampio prato costellato di tulipani cremisi.
Il tuo sguardo si illumina: sono i tuoi fiori preferiti.
Forse il mio desiderio non è stato del tutto casuale.
Io farei di tutto per renderti felice.
- Facciamo il Gioco delle Maschere, Rack? – domandi
all’improvviso, accendendo d’entusiasmo il tuo
volto innocente e sincero.
Ti scompiglio, con un sorriso, i capelli chiarissimi e
appuntiti che ti sei tagliata il giorno del tuo diciottesimo compleanno
per far dispetto a tua madre: - Non pensi che io sia troppo vecchio per
giocare?
Sai che sto cercando di stuzzicarti, infatti, con un
risolino, prendi qualcosa da dietro la schiena, per poi nasconderci
dentro il viso.
- Quante volte devo dirtelo? Otto anni di differenza non sono
tanti, Rack. Forza, dimmi: chi sono?
Ti osservo per un po’, poi provo a sondare
cautamente il terreno: - Sei un tulipano… la tua maschera
è a forma di tulipano.
So che non è mai facile indovinare con te, la tua
fantasia è davvero sconfinata.
Ti sporgi verso di me, il volto ancora celato dalla maschera
rossa: - E poi?
- E poi… - provo a pensarci su – Sei un tulipano
molto grazioso, tutti gli altri tulipani fanno la fila per
corteggiarti.
- Può darsi – rispondi ridacchiando – Ma
poi scappano perché si rendono conto che sono un tulipano
pazzo…
- … perché non guardi gli altri tulipani ma le
rose – aggiungo, cercando di trovare i dettagli assurdi che
ti piacciono tanto – Perché sei convinto di essere
una rosa tu stesso.
- In realtà, sono convinto di essere una margherita
– mi correggi – Ma ci sei andato vicino. Comunque,
hai scordato la cosa più importante, Rack.
- E cioè?
Ti sfili la maschera, mostrandomi il sorriso che tanto amo: -
Sono un tulipano felice.
Continuiamo ad incontrarci ogni pomeriggio al campo di
tulipani e, puntualmente, dal nulla, tiri fuori delle strane maschere,
chiedendomi di indovinarne la storia.
Non potrei mai stancarmi di osservarti mentre ridi della mia
scarsa fantasia e cerchi di aiutarmi ad uscire dai miei schemi mentali
troppo rigidi.
Non riesci a capacitarti che la mia mente sia così
poco aperta rispetto alla tua.
Cerco di prepararmi delle storie assurde per la prossima
maschera, quando, all’improvviso, mi rendo conto di essere
solo.
Aggrotto la fronte confuso, facendo correre lo sguardo per
ogni angolo del rosso deserto fiorito, il petto attanagliato da
un’ansia opprimente.
Dove sei, Tez? Perché mi hai lasciato qui da solo?
Non ti diverti più a giocare con me? Ti sei stancata della
mia poca fantasia? Ti prego, Tez, non farmi questo! Mi sto impegnando,
te lo giuro! Non puoi lasciarmi così… ho faticato
tanto ad inventarmi delle strane storie! Non vuoi sentirne nemmeno una?
Il cielo si tinge di nero, la pioggia comincia a cadere.
Gocce gelide ed incolore colpiscono la mia pelle come frammenti di
ghiaccio.
Ho bisogno di un riparo… ho bisogno di
coprirmi…
In un battito di ciglia, mi ritrovo al coperto, sotto le fronde di un
grande salice, avvolto nella mia vecchia giacca grigia, quella con i
bottoni bianchi, che non ricordavo nemmeno di avere.
Da quanto tempo non indossavo questa giacca?
Perché è comparsa così
all’improvviso?
Non ricordo nemmeno mi piacesse tanto come in questo momento.
Sì, penso che riprenderò ad indossarla, mi fa
sentire bene. Quasi vorrei non toglierla più.
La pioggia continua a cadere.
- Tez!
Ti vedo arrivare verso di me, sorridendo. Sembri
più in carne rispetto l'ultima volta che ci siamo visti.
Ho passato nove giorni rintanato sotto il salice, avvolto
nella mia giacca grigia. Non mi sono nemmeno reso conto che il cielo ha
cambiato colore ed è tornato bianco.
- Tez dove sei stata? Perché mi hai lasciato solo tutto
questo tempo?
Ti getti tra le mie braccia ridendo, incurante del mio tono
brusco e dell’ansia che mi sta divorando.
Credevo di averti persa, credevo ti fossi stancata di me.
- Guarda! – strilli con entusiasmo, mostrandomi una bambola
di pezza così realistica da far quasi impressione.
- Prendila, Rack! Prendila in braccio! – insisti –
Forza, prendila!
Non ricordavo ti piacessero tanto le bambole, ma
l’ultima cosa che vorrei è spegnere il tuo
entusiasmo, così serro le mani attorno alla vita del
giocattolo, affondando le dita nelle morbide pieghe del vestitino a
quadri.
Gli occhi della bambola sono grandi come i tuoi, anche se il
colore dell’iride, azzurro pallido, ricorda tanto quello dei
miei. Il volto paffuto è incorniciato da una massa lanosa di
capelli scuri.
- Si chiama Pauline – m’informi raggiante
– Non è bellissima? Guarda, ha molto di noi: i
tuoi capelli, il mio sguardo, il tuoi occhi, il mio pallore…
ha anche il mio sorriso, ma sono sicura che se aprisse la bocca avrebbe
i denti come i tuoi…
- Hai ragione – concordo sorridendo – E
giocherà anche lei al Gioco delle Maschere?
Scuoti la testa con vigore, giocherellando distrattamente con
i capelli di Pauline: - Lei è troppo piccola. Ma quando
crescerà glielo insegneremo.
- Certo.
Improvvisamente, aggrotti la fronte, osservandomi in modo
strano: - Quella giacca è nuova?
- No – rispondo, sfiorando uno dei bottoni con
l’indice – Non la usavo da tempo…
- Me la fai provare?
Un brivido mi corre lungo la schiena, anche se non riesco a
comprendere il motivo del mio disagio.
Indossi la giacca, decisamente troppo grande per te, e
sorridi, pavoneggiandoti.
Ed io mi sento in colpa.
Quella giacca non ti sta bene, Tez. Non ti fa stare bene.
Continui a ripetermi che è solo
un’impressione, ma è evidente che da quando ha
cominciato ad indossarla appari sempre più smunta e
gracilina.
- E’ solo una giacca, Rack! – sbotti
all’improvviso un giorno, mentre rigiri nervosamente tra le
dita lo stelo reciso di un tulipano – Non può mica
farmi ammalare!
- Quando la indossi sei diversa – provo a giustificarmi,
senza alzare lo sguardo – Hai un aspetto diverso…
- Io mi sento bene invece – ribatti mettendo il broncio
– Mi dà sollievo…
Non mi sembra di averti mai vista così di cattivo umore.
Forse è il caso che la smetta di farmi prendere dalla
paranoia…
Noto improvvisamente un dettaglio piuttosto rilevante: -
Dov’è Pauline?
Capisco di aver toccato un tasto dolente non appena il tuo
volto si fa scuro.
- Me la vogliono portare via – sibili rabbiosa –
Hanno detto che non posso più tenerla.
- Chi l’ha detto?
Dai un’alzata di spalle e, cambiando
improvvisamente umore, ti copri il viso con un candido velo di tulle,
simile a quello delle spose: - Chi sono?
Un po’ titubante, scosto il velo afferrandone i
lembi con le dita… e trattengo a stento un grido.
La maschera che indossi è diversa dalle altre:
raffigura il tuo volto, sì, ma ancora più pallido
e scavato, le occhiaie sono tanto scure da apparire quasi nere. E le
labbra… Dio, che orrore quelle labbra! Violacee e rigide,
sembrano due lividi sovrapposti.
- Perché? – ansimo sconvolto, rifiutando la
visione di quel volto cadaverico, la tua maschera di morte.
Come se nulla fosse, scoppi a ridere e ti getti tra le mie
braccia, fragile e pallida come un uccellino privo di piume precipitato
dal nido.
- Perché mi hai mostrato una cosa simile? – sibilo
infastidito – Come hai potuto? Non hai proprio idea di quanto
tenga a te, Tez?
- Sei arrabbiato? – domandi, scostandoti appena dal mio petto
e guardandomi dritto negli occhi con fare impertinente.
- Certo che lo sono! – rispondo duramente, ignorando le tue
espressioni irrisorie – E’ stato uno scherzo di
pessimo gusto!
- Sei noioso. Sembri mia madre…
- Forse perché ho davvero qualcosa in comune con lei
– ribatto, compiacendomi della curiosità che
illumina improvvisamente il tuo sguardo.
- Cos’avete in comune? – domandi con un ghigno
– Siete entrambi privi di fantasia e senso
dell’umorismo?
-No, Tez – replico in tono fermo, evitando di pensare alle
conseguenze di una simile confessione – Entrambi ti amiamo,
anche in modo diverso.
L’espressione di sorpresa stampata sul tuo volto un
po’ mi aiuta a sbollire il nervosismo, anche se presto un
nuovo fuoco esplode all’interno del mio petto, alimentato
dalla consapevolezza di aver infranto un proposito che mi ero imposto,
quello di non confessarti mai apertamente il mio amore.
- Tu mi ami, Rackham?
Ormai hai disciolto l’abbraccio e mi fissi seria,
inginocchiata sul prato cremisi, i pugni stretti in grembo. Mi sento
avvampare.
- Io… ti amo, Tez.
La frittata è fatta, tanto vale prendere coraggio
e andare fino in fondo. Anche se so benissimo che potrebbe essere una
sicura via per perderti per sempre.
Non rispondi. Non batti ciglio. Semplicemente, ti getti di
nuovo tra le mie braccia ed afferri con forza le mie labbra con le tue.
A quel punto, il tempo comincia a bloccarsi, accelerare,
rallentare… tutto di seguito e al contempo tutto in una
volta, mentre sento le tue dita ossute serrarsi sui miei capelli
arruffati ed il tuo corpo scheletrico muoversi contro il mio.
Vorrei riuscire ad essere delicato, ho come
l’impressione che le tue fragili membra potrebbero
sbriciolarsi al semplice tocco delle mie mani robuste e nodose, ma la
mia mente ormai è un turbinio di pensieri ed emozioni, mi
impedisce di controllare qualsiasi movimento.
E’ come se, goffo ed impacciato, provassi a
maneggiare un sottile calice di vetro. E proprio come il vetro, ti
distruggi all’improvviso, svanendo in tante minuscole schegge
trasparenti.
E’ tutto diverso, Tez. Tutto sbagliato.
Che senso ha incontrarci ogni giorno, se ogni volta che provo
ad avvicinarmi a te mi scontro con un freddo muro invisibile?
Come possiamo giocare al Gioco delle Maschere, se parli
sempre più di rado? Cosa sta succedendo? Ti sei spaventata
per la mia dichiarazione? E allora perché mi hai baciato?
Di tanto in tanto indossi qualche strana ed inquietante
maschera, ma non sembri intenzionata a giocare. Sembra più
un nuovo modo tutto tuo per comunicare con un invisibile interlocutore.
Interlocutore di cui, scontato dirlo, mi riscopro tremendamente geloso.
- Lui ha forse più fantasia di me? – domando un
giorno, visibilmente scocciato. Prenderei a pugni il muro di vetro che
ci divide se soltanto servisse a qualcosa.
Mi degni appena di uno sguardo, il volto coperto dal una
stranissima maschera colorata di viola e verde. Non rappresenta nulla,
l’unica cosa che la caratterizza sono i due colori.
Non indossi più la mia giacca, al momento le tue
fragili nudità sono celate da un singolo velo bianco,
avvolto attorno al corpo. Non saprei dire se sia più pallido
il velo o il colore della tua pelle.
- Tez! Ti prego, Tez, parlami! Perché mi eviti
così? Non mi ami? Non mi vuoi più bene?
- Io ti starei evitando? – sfili la maschera con un movimento
lento e fluido – No, Rack, io ti amo e vorrei tanto poter
stare con te. Ma adesso non è possibile. Almeno per
ora…
- Che significa? – ansimo sconvolto, i palmi schiacciati
contro il nostro invisibile divisorio – Perché
parli così?
Ti limiti a sorridere, dando un’alzata di spalle.
Sembri quasi più adulta, più matura.
- Non è colpa di nessuno, Rack, a volte succede. Mi spiace
solo che dovrai aspettare ancora un bel po’, prima di
rivedermi…
-Aspettare quanto? – ormai la mia voce è ridotta
ad un rantolo disperato – Io non capisco…
Poggi la tua mano candida e ossuta contro il vetro, facendola
coincidere con la mia: - Non è ancora il momento, Rack. Non
avere fretta, prima o poi mi rivedrai, te lo prometto. Ma non adesso.
Non vorrai lasciare Pauline da sola, no?
- Tez, ti prego…
Il paesaggio attorno a noi comincia a farsi scuro, il cielo bianco
assume una tonalità livida e grigiastra, riversando su di
noi gelide gocce di pioggia. Gocce che, sotto i miei occhi inorriditi,
trafiggono la tua pelle delicata, sciogliendola come neve al sole.
- Tez!
Per l’ultima volta, le tue labbra si piegano in un
sorriso: - Non avere paura, Rack…
- Tez!
- Ti amo.
Il muro di vetro scompare all’improvviso, facendomi
cadere in ginocchio nel punto in cui, fino ad un secondo prima,
c’era una piccola pozzanghera bianca, tutto ciò
che restava di te.
I tulipani spariscono, mi ritrovo immerso in un terrificante
oblio nero pece.
Urlo, piango, provo addirittura a strapparmi i capelli, senza
risultato.
Nemmeno la giacca grigia, che di solito mi dava sollievo, mi
aiuta a sentirmi meglio. Nulla può farmi sentire meglio.
Con un grido di rabbia, sfilo bruscamente
l’indumento e lo scaglio lontano, lasciando che un vortice
scuro lo inghiotta nella frazione di un secondo.
Dove sei, Tez? Che cosa significa questa oscurità?
Che cosa significa questo senso di vuoto che provo?
Una fitta lancinante allo stomaco mi costringe ad accasciarmi
al suolo, mentre, con un rantolo, mi porto la mano davanti alla bocca e
sputo qualcosa di piccolo e bianco. Un bottone.
Il panico mi assale, mentre mi accorgo di essere ancora
avvolto nella dannata giacca grigia, che sembra ormai un
tutt’uno con la mia pelle.
Vorrei provare a strapparla via, ma sono troppo occupato a
sputare altri bottoni, fino a ritrovarmi una candida montagnola stretta
tra le mani tremanti.
Mi gira la testa, ho paura, non capisco cosa stia succedendo.
Spalanco la bocca per gridare, ma non fuoriesce alcun suono.
Il nero che mi avvolge comincia a turbinare, un vento caldo,
quasi bruciante, sferza il mio corpo inerme senza pietà.
Mille lampi di luce viola mi feriscono gli occhi, costringendomi ad
abbassare lo sguardo suoi bottoni che ho sputato, i quali,
all’improvviso, si tingono di rosso.
Un ultimo pensiero attraversa la mia mente, prima che una
morsa nera si chiuda attorno a me.
E’ il tuo sorriso, Tez.
Passano i secondi, i minuti, le ore. Continuo ad aspettare un
dolore che non arriva.
Finalmente, trovo il coraggio di aprire gli occhi, guardando
le mie mani chiuse attorno ai bottoni rossi, che si restringono
velocemente fino a formare un’unica macchiolina cremisi.
No, un momento, non è una semplice macchia, ha un
lungo gambo verde che attraversa tutto il mio palmo: il gambo di un
tulipano.
Sono un po’ disorientato: il nero oblio
è sparito del tutto, lasciando il posto ad un luogo strano
ma in qualche modo famigliare.
Non mi trovo nel campo di tulipani: il cielo è
azzurro, non bianco, mentre il suolo non è costellato di
tanti piccoli fiori rossi, quanto più ricoperto da fitti
ciuffi d’erba smeraldina.
Sono adagiato su una sedia a rotelle, proprio di fronte ad
una candida lapide di marmo adornata con incisioni dorate che, al
momento, non riesco a decifrare.
Ci sono altri tulipani posti ai piedi della pietra
rettangolare, dove due bambini piccoli – il maggiore dei due
avrà massimo cinque anni –stanno giocherellando
coi fiori con le manine grassocce, ridacchiando e commentando con frasi
incomprensibili.
Alzo lo sguardo confuso e… per un attimo mi si
blocca il respiro.
Tez! Eccoti finalmente!
-Dove sei… - comincio a balbettare, quando mi accorgo che,
in realtà, non sto guardando per davvero il tuo volto, ma la
tua foto. Incastonata nel marmo bianco della lapide.
E, all’improvviso, tutto si fa più
chiaro, tanto che non mi sorprendo nel vedere le mie grosse mani
coperte di pelle rugosa, non mi sorprendo nel vedere il volto della
donna che mi sorride benevola.
Dimostra circa una trentina d’anni, il volto
pallido è incorniciato da una massa voluminosa di capelli
castani ed suoi occhi sono belli e grandi. Grandi come i tuoi, Tez, ma
con le iridi celesti uguali alle mie.
Mi aiuta ad avvicinarmi alla lapide, in modo che possa
adagiare il tulipano in mezzo agli altri, tra le occhiate curiose dei
due bambini.
Il bianco del marmo, il rosso dei fiori. I colori del luogo del mio sogno
ad occhi aperti.
Riesco a leggere la prima riga incisa sulla pietra, anche se ormai la
conosco a memoria: “Tessa Banks in Taylor - Amata
moglie e madre”
Ti conobbi in una clinica per tossici quando avevi solo diciotto anni.
Eri seduta nel vecchio cortile, quello sul retro, che nessuno curava da
anni ed era ormai ridotto ad un ammasso di erbacce e sterpaglie.
Avevi i capelli corti e appuntiti, sì, ma non li
avevi tagliati per fare dispetto a tua madre, quella donna tanto
gentile e paziente che adesso riposa accanto a te: erano stati gli
effetti della droga a farti prendere le forbici in mano e distruggere
la tua bella chioma bionda.
Non mi ci volle molto per affezionarmi a te.
Ci incontravamo spesso in quel giardinetto abbandonato, dove
ti divertivi a mostrarmi le Tavole di Rorschach che avevi rubato alla
psicologa della clinica, costringendomi ad inventare una storia basata
sulle immagini che vedevo.
Fummo entrambi dimessi un paio d’anni dopo il
nostro primo incontro, apparentemente guariti, apparentemente pronti ad
incominciare una nuova vita insieme.
Il giorno del nostro matrimonio pensai che nulla avrebbe
potuto intaccare la nostra felicità, ma mi sbagliavo:
bastò un maledetto periodo di depressione ad innescare un
lento processo distruttivo che portò entrambi alla rovina.
Nemmeno la nascita della nostra bambina riuscì a
migliorare le cose, anzi: dopo aver saputo che entrambi avevamo
ricominciato a drogarci, il tuo medico informò gli
assistenti sociali, che cercarono immediatamente di portarcela via.
Fu una fortuna se tuo padre riuscì ad ottenerne
l’affidamento… a proposito di lui, mi ha chiesto
di scusarlo per non esser passato a farti visita, oggi: la schiena
dolorante l’ha costretto a letto tutto il giorno.
Ancora mi domando perché non siamo riusciti ad
essere forti come lui, Tez.
Eravamo davvero così fragili? Così
disperati da identificare nuovamente la droga come un appiglio, un
sollievo, una bella giacca che ti tiene al caldo durante i freddi
giorni di pioggia?
Ci rendemmo conto troppo tardi di aver fatto per la seconda
volta una grandissima stronzata. O meglio, me ne resi conto soltanto
io, quando, in preda ad uno dei miei soliti deliri, precipitai dalle
scale di casa, restando paralizzato agli arti inferiori.
Tu, purtroppo, non avesti mai il tempo di comprendere il tuo
errore: ti trovammo riversa sul divano del salotto, gli occhi sbarrati,
le dita ossute ermeticamente serrate attorno ad una boccetta di pillole
ormai vuota.
Avevi trentotto anni, ma ricordo che, in quel momento, mi
venne spontaneo ripensare alla ragazzina che, vent’anni
prima, avevo incontrato nel vecchio giardino.
E poi arrivarono il dolore, la disperazione, il vuoto.
Arrivarono per non andarsene mai.
Per fortuna riuscii a trovare sollievo in qualcosa di buono,
qualcosa di sano…
- E’ ora di andare, papà.
Pauline serra le dita attorno ai manici della carrozzella,
mentre i suoi bambini, Alex e Danny, cinguettano un “Ciao
nonna”, per poi alzarsi e cominciare a rincorrersi lungo il
viale che porta all’uscita del camposanto. Un sorriso affiora
spontaneo sulle mie labbra.
Mi manchi molto Tez, farei qualsiasi cosa per poterti stare
accanto, ma hai ragione: non è ancora il momento.
Pauline aveva appena quindici anni quando ci lasciasti, fu il
suo pensiero ad aiutarmi a trovare la forza per andare avanti.
Ora mi basta guardare il suo sorriso per capire che, forse,
sono davvero riuscito a combinare qualcosa di buono nella mia
incasinatissima vita.
Ci rivedremo, Tez, lo so, ma sono in attesa di quel giorno da
una quindicina d’anni: credo di poter aspettare ancora un
po’…
Angolo dell'Autrice: In realtà questa volta non ho molto da dire. Grazie a tutti per aver letto! :)
Tinkerbell92
|