Scinti
N.d.A.: a
seconda della
lunghezza dei capitoli originari, ne metterò uno o più nella
classificazione che ne fa questo sito. Ah, è una storia bella lunga.
Per cui, se siete patiti delle flashfic... non so se vi conviene
addentrarvi. Però potreste provarci, perchè no? Buona lettura!
LA SCINTILLA
L’amore ha denti e artigli
che sanno lacerare a
sangue
e causare ferite
che non rimarginano mai
CAP. 1
Vicenza, 1987
Non so ancora bene come cominciò il tutto.
E’ sempre così, ogni cosa pare avere una fine, un epilogo chiaro,
netto.
Il chiudersi di una storia d’amore, la conclusione di un rapporto di
lavoro. Ma al contrario è ben difficile dire quando le cose hanno
inizio. Di solito ce ne si trova in mezzo e si tenta inutilmente di
andare indietro con la memoria, senza trovarne capo. Andare per gradi,
forse, può essere utile per ricordare meglio. Il mio nome è Giulia, per
cominciare, e sono una ragazza di venticinque anni. Una ragazza come
tante è la definizione più veritiera che potrei affibbiarmi senza tema
di imbarazzo. L’essermi da sempre appassionata di computer mi ha
agevolato non poco nel trovare un impiego, nonostante lo scetticismo di
mio padre, fin dai tempi ingenui e nebulosi post-diploma delle
superiori. A differenza delle mie coetanee, dibattute tra il restare a
casa a sfogliare riviste zeppe di pettegolezzi su attori e cantanti
famosi o noiosi impieghi di commesse.In genere in negozi di
abbigliamento giovane, pulsanti di musica techno e luci allucinate.
Precarie attività commerciali che, a seconda delle mode e delle imposte
da pagare, sbocciavano e appassivano come effimeri fiori lungo le vie
del centro cittadino.
E fu proprio mio padre l’artefice involontario della mia futura
professione,
quel Natale di ormai sette anni orsono.
Quando sotto il tradizionale albero carico di decorazioni e dolciumi mi
fece trovare, avvolto nella classica carta dorata, uno dei primi
esemplari di Commodore 64. E’ un computer, per chi non se lo ricorda o
non ne ha mai sentito parlare. Un computer della prima generazione, si
suol dire oggi, ed effettivamente lo era, con tutti i limiti che questo
voleva significare. A quel tempo comunque era come se un uomo delle
caverne si ritrovasse tra le mani all’improvviso un’arma da fuoco, o
anche solo arco e frecce. Adesso fa un po’
sorridere scorgere gli stessi modelli di computer far bella
mostra
sulle bancarelle di qualche fiera di modernariato, a fianco di panciuti
frigoriferi rossi della Coca-Cola e buffi omini Michelin, resi goffi e
obsoleti dal galoppare della tecnologia e del design. Vestigia di un
passato non così remoto da aver suggerito di conservarli (in fondo
siamo sempre figli dei figli del boom economico del ‘60) ma tali da
costare ormai un occhio della testa al fine di rientrarne in possesso,
al pari di sedie Luigi XV e statuine in gesso di Lenci. Così, dopo i
primi preistorici videogame sul C 64 (chi non ricorda il mitico “Space
Invaders”, con improbabili astronavi seghettate che rovesciavano sulle
basi semoventi una pioggia di “trattini” letali?) passai alla grafica
psichedelica degli Amiga, prima di approdare a proposte di pc sempre
più economici e potenti. I miei interventi sulla macchina non avevano
alcunché di geniale o di creativo, ben s’intende, ero solo
l’equivalente elettronico di una buona analista contabile o, al
massimo, di un ragioniere. Metodo e calcolo, in due parole. In ogni
caso fui allettata, dopo un paio di impieghi di transizione, dalla
proposta della Biblioteca Civica di passare (cominciare
a passare, ad essere sinceri) su archivio elettronico anni, decenni,
forse secoli di archiviazione manuale. Nel tentativo di sostituire (gradualmente,
mai parola fu più auspicata e azzeccata) l’oceano di schedule vergate
con mano tremante e svolazzante da una legione di segretari, ormai
defunti a parte il nostro signor Pesavento, attuale burbero
responsabile di tutto ciò che entra e soprattutto esce dalla
biblioteca. Anche se gli altri addetti alla gestione dell’istituzione
libraria pongono spesso spiritosi dubbi sul fatto che anche il vetusto
Pesavento non sia già passato a miglior vita da tempo, e che sia il suo
improbo attaccamento al lavoro a portarlo ogni santo giorno a
presentarsi puntuale alle 8,00. Con l'mmancabile completo grigio e i
gilè di lana scura.
Ma queste, come ripeto, sono le tipiche
spiritosaggini comuni ad ogni ambiente di lavoro, quando la convivenza
tra individui eterogenei porta i più dotati di ironia (o forse di
cinismo) a dispensare battute non sempre azzeccate su questo o quel
collega. Ce ne sono, di persone, in una biblioteca come la nostra. Non
tante come in una grande azienda od in un istituto scolastico,
immagino, ma comunque abbastanza da formare una piccolo drappello
vociante quando ci si riunisce tutti insieme, magari in occasione di
qualche rara cena di lavoro. Occasione aborrita dai più, e appunto per
questo rara, visto che non si riesce mai a “obbligare” tutti alla
presenza. C’è sempre qualcuno che ha un impegno dell’ultimo minuto
(inderogabile) o l’allenamento di chissà quale sport (fatalità) proprio
nel giorno fissato per la cena. C’è da capirli, è ovvio, se
nell’ambiente di lavoro non sboccia spontaneo anche un legame di
amicizia (ed è un po’ arduo che nasca in tutti contemporaneamente con
la medesima intensità) è soprattutto una rottura di scatole rubare una
sera alla famiglia, agli amici o anche solo al telequiz del giovedì
sera per passare altre tre, quattro ore a parlare della biblioteca, del
Consiglio che rilascia permessi col contagocce e dei cronici problemi
dei magazzini. Sì, perché nonostante ad intervalli regolari tra gli
antipasti e il caffè qualcuno salti fuori con la classica frase: “oh beh, ragazzi, adesso basta
parlare di lavoro!..”, alla fine gira e rigira sempre
lì si ricade.
Ci
si ritrova al completo solo in queste poche occasioni, dicevo, mentre
durante il giorno si ha l’occasione di vedere la maggior parte dei
colleghi solo singolarmente o a coppie. O a piccoli gruppi mentre
tentano di entrare tutti insieme in quella che qualche ottimista ha
battezzato “stanza-caffè” (vano
caffè
sarebbe stato più appropriato, visto che tra macchina del caffè, il
ronzante frigorifero per le bibite estive, rigorosamente portate da
casa e di conseguenza siglate per il riconoscimento, e scatoloni di
filtri del caffè e bustine di zucchero e bicchierini, in due ci si
intralcia e in tre ci si blocca). Come in tutte le stanze o vani o
angoli caffè di tutto il mondo è sempre affollato di uomini che
discutono dell’ultima partita di campionato e donne che commentano la
precedente serata televisiva, ed è molto raro, quasi improbabile
trovarlo deserto a lungo (e questa è una prima cosa da tenersi a mente
per il proseguo del racconto).
Tutto questo preambolo (lo so, sono
prolissa, se te lo fanno notare i tuoi fratelli prima e poi le tue
compagne di scuola qualcosa di vero ci deve essere) per dire che dopo
un mese buono di lavoro non sapevo bene quali e quante persone erano
impiegate nella biblioteca, né tantomeno i loro nomi o le loro
qualifiche. Sì, avevo parlato con le signore della segreteria, la
Amalia e la Luigina, così piccole e rotondette e iperattive che era
facile confonderle, e la segaligna Maria Luisa, sempre burbera al punto
giusto, come se la piega verso il basso della bocca le fosse stata
tatuata alla nascita. Poi il già citato signor Pesavento, che da una
vita immemorabile incatenava la sua vecchia bicicletta alle fioriere
che delimitavano l’ingresso, salvo poi fare il diavolo a quattro quando
gli studenti frequentatori della biblioteca parcheggiavano le loro
decine di ciclomotori e vespe. Tra gli addetti alle sale c’era la mia
amica Sara, con cui spesso e volentieri uscivo nella pausa pranzo,
anche se lei era perennemente assillata dalle diete e dai chili
(chili?... grammi in più!) e quindi il più delle volte finivamo a
guardare le vetrine dei negozi del Corso (chiusi) o sedute, nella bella
stagione, sui gradini della piazza a parlare dei fidanzati o dei
fidanzati o dei fidanzati (chiaro, no?). Il mio sacrificio nel non
pranzare era dettato soprattutto dalla solidarietà verso un’amica
ossessionata, più che da un vero e proprio bisogno di mantenere la
linea, e comunque Sara mi avrebbe rinfacciato fino alla nausea il mio
egoismo se solo avessi pensato di divorarmi qualche succulento panino
mentre lei si sorbiva il suo yogurt quotidiano. Yogurt magro,
ovviamente.
Colleghi di Sara nell’accogliere, accudire e soprattutto
sorvegliare gli studenti (che come tutti gli studenti del mondo avevano
sempre volumi di voce e voglia di scherzare ben superiori a quanto i
muri vetusti di una biblioteca possano sopportare) erano il gioviale
Walter, un venticinquenne paffutello e riccioluto. Sempre intento a
sgranocchiare qualche snack al cioccolato che teneva in tutte le tasche
possibili (perenne diavolo tentatore del precario equilibrio alimentare
di Sara, che lo cacciava, urlando per quanto sia possibile in una sala
di biblioteca, dandogli del senza cuore e dell’insensibile). E
l’antipaticissimo (questo andrebbe scritto tutto in maiuscolo) Ugo
Maniero, un viscido e anonimo quarantenne con la detestabile abitudine
di soffermare un po’ troppo le sue mani affusolate (e per questo
ripugnanti) sulle braccia o sulla schiena di qualche occasionale
interlocutrice del gentil sesso. Qualunque
interlocutrice, pareva, essendo di gusti abbastanza ampi. Il suo tocco
non era mai troppo prolungato o troppo esplicito da giustificare una
reazione irritata o risentita, ma dava comunque molto fastidio. Forse
anche questa era una sua squallida abilità. Ne parlavamo a lungo, con
Sara e le studentesse, e il senso di ripugnanza era comune. Non
parliamo poi di come era lesto ad alzare lo sguardo se qualche ragazza
in gonne saliva la rampa di scale che lui stava discendendo, o di come
si soffermava (fingendo di riordinare libri) nel punto migliore per una
visuale panoramica dell’interno di qualche camicetta sbottonata per il
caldo estivo. E vi assicuro che da giugno in poi, specie nelle sale ai
piani più alti, l’afa è decisamente insopportabile.
Degni compari
del Maniero c’erano poi quelli dei magazzini, un’accozzaglia (a parte
qualche eccezione) di rozzi sempre pronti alle battute più salaci
(rigorosamente a sfondo sessuale) quando per qualche ricerca
particolare ci si doveva addentrare nei poco luminosi sotterranei della
biblioteca, dov’era situato il magazzino, ormai al limite del collasso
per problemi di spazio. Per quanto poco impressionabili si possa
essere, davano comunque un brivido alla schiena quei polverosi e
silenziosi scaffali di libri, sempre troppo in penombra.
Poi c’erano
i lettori, e gli esterni, e i ragazzi del tirocinio, e i ragionieri
dell’amministrazione. Insomma, non mi sembrò per nulla strano non aver
mai visto quel ragazzo
(Andrea...)
prima di quel caldo mattino di fine giugno.
- Credo che tu debba ridare le impostazioni di stampa -
Alzai
lo sguardo. Sulla porta del minuscolo ufficio che divido solitamente
con Sara, c’era un ragazzo. Aveva un’età indefinibile. Un folto ciuffo
di capelli neri gli ricadeva sulla fronte. Portava un buffo gilè di
velluto su una camicia bianca di stoffa indiana lavorata. I suoi occhi
avevano...un’espressione smarrita, quasi dispiaciuta, come se invece di
un consiglio d’informatica avesse dovuto comunicare, che so?, di avermi
versato il caffè sul vestito. Non mi stava guardando. Fissava invece il
monitor del computer che avevo poco dietro di me.
- Prego? - riuscii a dire, colta di sorpresa.
-
Il computer... - indicò - non stampa. Devi aprire Scelta Risorse e
reimpostare la stampante. Lo fa, a volte, è uno dei misteri dei
computer. Forse succede quando lo spegni in un dato modo...o forse
quando si sveglia male... -
Un velo di divertimento attraversò per un attimo il suo sguardo, che
tornò subito quasi malinconico.
Mi
girai verso lo schermo, muovendo automaticamente il mouse. Sì,
effettivamente avevo dato l’ordine di stampare l’elenco degli autori in
ordine cronologico dal 1975 al 1977, e poi mi ero riimmersa subito
nelle carte sparse sulla mia scrivania. Non avevo fatto assolutamente
caso al fatto che la macchina non aveva sputato nessun foglio di carta,
né bianco né stampato, dopo un po’ ci si fa l’abitudine ai rumori e
alle elaborazioni del computer, a volte si crede
che abbia stampato salvo poi constatare che non l’ha fatto. Quello che
mi lasciava perplessa era che sullo schermo non era apparso nessun
messaggio che confermasse l’impossibilità a stampare, dal quale si
potesse dedurre che era un problema di Scelta Risorse. E la mancanza di
qualsiasi comunicazione da parte del computer impediva appunto che si
potesse pensare ad un errore di stampa. Potevo semplicemente aver
lasciata aperta la lista degli autori per consultarla, o per
modificarla, senza nessuna esigenza di stamparla. Voglio dire, per
quello che si vedeva sullo schermo solo io potevo sapere se avevo
mandato in stampa il documento o no. O almeno così credevo. D’altra
parte non sono così ferrata sulla parte hardware o software o come
cacchio si chiama per sapere se qualcuno più esperto di me potesse
trarre comunque informazioni sullo stato di quel complicato scatolone
futuribile. Fin che funziona lo uso, digito, apro e chiudo programmi,
magari perdo un pò di tempo con qualche stupido giochino, ma se per
qualche misterioso motivo il tutto dovesse andare in tilt (o in bomba,
come insegna il gergo) beh... chiamo aiuto.
Aprii Scelta Risorse reimpostando la stampante e, dopo un breve attimo
di riflessione, il computer mi diede l’ok a stampare.
-...g-grazie... - mormorai girando la testa verso il ragazzo - ma come
hai fatto a...-
La stanza era vuota. Il ragazzo non c’era più, come se non fosse mai
esistito.
Dalla soglia fece capolino Sara, con un pacco di libri tra le braccia.
Indicai il corridoio dietro di lei:
- ...quel ragazzo... sai chi è ? -
Lei fece un passo indietro scrutando a destra e sinistra:
- Di quale ragazzo parli ? - rispose con un’espressione perplessa sul
volto - in corridoio non c’è nessuno... -
CAP. 2
Quella
notte feci un sogno. Ero in una strada di una città sconosciuta, sotto
una bufera di neve turbinante e gelida. Vagavo senza sapere dove
andare, ed ad ogni angolo mi sembrava che qualcuno mi seguisse, solo
che non appena voltavo lo sguardo indietro l’impressione spariva. Come
se la presenza misteriosa si ritraesse appena un attimo prima di essere
scorta. All’improvviso scorsi Sara ferma davanti a me, immobile, che mi
dava le spalle. Mi avvicinai senza riuscire a chiamarla, e mentre
alzavo un braccio verso le sue spalle fui presa da un’angoscia
terrorizzante. La mia mano si avvicinava inesorabilmente alla mia amica
ma tutto il mio essere era spaventato dall’idea di vederla girare e
guardarla in faccia. La toccai e lei si voltò: era proprio Sara. Stavo
per dirle qualcosa quando la sua faccia... vibrò...per un istante...
tramutandosi poi nel volto del ragazzo apparso improvvisamente
nel
mio
ufficio, e misteriosamente scomparso. I suoi occhi avevano sempre
quell’espressione a metà tra lo smarrito e il rattristato:
- Non puoi stampare senza di me...io sono il sogno...- disse con un
lieve sorriso -...e tu sei una persona speciale...-
Poi
i suoi occhi, fissi nei miei, cominciarono ad ingrandirsi, sempre di
più, sempre di più, fino a che il mondo intero ne fu pieno e...
Mi
svegliai di scatto, con un lamento, e rimasi immobile, tra le lenzuola
intrise di sudore, ad ascoltare il ticchettìo di un temporale estivo
sui vetri della finestra.
CAP. 3
- Un ragazzo con dei lunghi capelli scuri... e poi che altro? -
Con
un’espressione divertita e incuriosita Sara si protese attraverso la
marea di carte che ingombrava la mia scrivania. Io scossi le spalle,
lottando disperatamente con la memoria alla ricerca di qualche
particolare ulteriore. Era una sensazione assolutamente spiacevole,
nella mia mente vedevo il ragazzo misterioso in piedi sulla porta
dell’ufficio, vedevo i suoi capelli neri e folti, vedevo naturalmente
il suo sguardo smarrito...ma poi basta, come se un difetto di vista, un
alone di luce m’impedisse di scorgere altro.
- Non lunghi... più che altro un gran ciuffo...- risposi a disagio - e
poi... e poi... uno sguardo triste...-
La fronte di Sara si corrucciò in un moto di disappunto:
-
Oh bè, non mi sembra gran che, come indizio...possibile che sia tutto
qui quello che ricordi? Voglio dire, è un bel manzo, o è uno sgorbio,
ha la barba, o qualcosa di particolare? -
Scrollai nuovamente le
spalle. Non riuscivo a capire perché non ero in grado di ricordare
altro e, soprattutto, perché ci tenessi così tanto a scoprire
l’identità del ragazzo. In fondo era uno qualsiasi, impiegato o
addirittura studente, che si era fermato un attimo per un piccolo
aiuto. Una gentilezza senza importanza. Eppure qualcosa mi rendeva
inquieta, come una spina fastidiosa nell’anima...
Alle spalle di
Sara comparve Maria Luisa, la responsabile dell’amministrazione, grigia
e anonima nel suo cardigan, il solito crocchio di capelli a morderle la
nuca. Il taglio della bocca era un arco rovesciato, come sempre.
-
Giulia, dovresti fare un salto giù...- disse mentre ci scrutava con
fare
indagatorio, certa che avessimo impiegato parte del
Sacro Orario di Lavoro per chiacchierare delle nostre faccende private.
Beh, a dire il vero, un po’ era così... - ha chiamato Portogruaro... la
dottoressa Artico... hanno confermato i titoli della lista inviataci
lunedì via fax... ci sarebbe da organizzare la spedizione, far
preparare il pacco, sentire il corriere... le solite cose, puoi
occupartene tu? -
Le sorrisi senza alcuna speranza di ammorbidirne il cipiglio:
-
Certo, signora, me ne occupo immediatamente...- feci un cenno di saluto
a Sara e afferrai la borsetta. Uscii dalla stanza lasciando la mia
giovane amica a sorbirsi la solita predica della tizia sulle
responsabilità che si hanno in una struttura del genere e via di
seguito e imboccai la scala verso l’uscita (il nostro cubicolo-ufficio,
come quello di tutti i novellini, è situato all’ultimo piano: più nuovi
si è più scale, e fatica, si fa...). Salutai distrattamente un paio di
ragazze delle medie, colorate e vocianti, poi lo vidi. Era un paio di
rampe sotto di me, e mi fissava. Le sue mani si muovevano velocemente,
con piccoli gesti concentrici, come se stesse torcendo un minuscolo
pezzo di carta. Accelerai il passo come per raggiungerlo (stupendomi di
questa reazione, non certo da me) quando dalla sala lettura sbucarono
cinque o sei ragazzi, in jeans tagliati al ginocchio e t-shirt dei più
violenti gruppi heavy-metal, intenti a spintonarsi e sghignazzare.
Cercando per di più di farlo silenziosamente, e proprio per questo
riuscendovi alquanto poco. Mi presero in mezzo e le risate idiote e gli
ammiccamenti si fecero più marcati. Fulminai i più scapestrati con
un’occhiataccia, cercando di sgusciarne fuori, e ripresi la discesa,
convinta che il misterioso ragazzo fosse altrettanto misteriosamente
scomparso. Invece era fermo nello stesso punto dove l’avevo visto, e
sembrava proprio che stesse aspettandomi. Improvvisamente,
assolutamente inatteso e con una violenza che mi strappò una smorfia,
lo stomaco mi si strizzò. Annaspai mentre il cuore partiva a mille, nel
tentativo di uscirmi dal petto. Il ragazzo sembrò non accorgersi di
niente, ed esibì un ampio sorriso:
- Devo esserti sembrato molto
maleducato a sparire così, ieri... - la sua voce era tranquilla ed
avvolgente, quasi ipnotica - ma mi sono ricordato che avevo lasciato un
tizio in attesa, al telefono... - il sorriso si fece ancora più
divertito. Solo il sorriso, però, i suoi occhi mi fissavano appena un
po’ tristi - ...difatti aveva riattaccato. Ciao, io mi chiamo Andrea...-
Con
la testa confusa ed ovattata (ero veramente allibita di quella mia
reazione, tanto che metà del mio cervello si stava chiedendo
quali
fossero i sintomi di un ictus o di un colpo apoplettico, e l’altra che
figura avrei fatto a crollare al suolo come un sacco di patate
di
fronte a quell’estraneo) strinsi la sua mano tesa con la mia che
sentivo (e probabilmente avevo) di ghiaccio. Mi sentii mormorare a
fatica il mio nome, qualcosa che assomigliava ad un “i-iace-re,
iulia...”. Lui non sembrava fare assolutamente caso al mio
comportamento e continuò:
- Immagino che anche tu sia nuova, qui. Io
non ho ancora ben capito com’è strutturato questo edificio, e mi sto
orientando a poco a poco. Beh, penso che non mancherà occasione di
incontrarci e di scambiare qualche parola, prossimamente. Ora devo
correre, quelli giù del magazzino mi hanno preparato alcuni volumi che
mi sono stati richiesti, ed è meglio liberare il montacarichi...- di
nuovo il caldo sorriso -...piacere, Giulia, e non farti scrupoli a
chiamarmi se il tuo computer dovesse fare le bizze. In fondo
(sei una persona speciale)
L’ultima
parte della frase fu coperta dal singhiozzare del clacson di un tram
nella via sottostante, ma fui percorsa come da una scarica elettrica.
Mi era sembrato di capire che avesse detto proprio così.
- P-prego?!? - balbettai. Lui fece ruotare gli occhi spazientito:
-
Questo traffico cittadino...- commentò - ...è davvero una croce. Niente
di speciale, ho detto che a me fa piacere aiutare le persone. Tutto
qua, ok? Adesso vado, ci vediamo...-
Si allontanò nel corridoio che
si apriva sul pianerottolo, e sparì alla vista. Poi notai quella
piccola cosa sulla balaustra della scala. Vicino a dov’era fermo Andrea
era posato un piccolo cigno fatto di carta leggerissima, bianca. Ecco
cos’era quel movimento delle mani... una minuscola creazione di carta,
un origami. Lo presi fra le dita, osservando la maestrìa con cui era
piegata la carta, e me lo infilai in una tasca della borsetta, senza
pensarci. Poi rimasi immobile mentre lo sfarfallìo nello stomaco e il
tambureggiare del cuore diminuivano gradualmente. Mi sentivo la faccia
in fiamme.
Ero spaventata, e preoccupata, da quella strana
sintomatologia. Man mano che tornavo alla normalità non riuscivo a far
altro che star lì a rimuginare su quella frase coperta dal clacson.
“Sei una persona speciale” non assomigliava neanche lontanamente a “mi
piace aiutare la gente... o le persone”. Come aveva detto?
Ripresi
lentamente a scendere le scale, poco sicura della stabilità delle mie
gambe, cercando di associare a qualche tipo di malessere quello che mi
era successo (indigestione? sbalzo di pressione?) ma l’unica cosa a
cui poteva avvicinarsi era... E’ così assurdo, ma sembrava la reazione
che avevo quando prendevo una forte cotta per qualche ragazzo.
A quindici anni. Alle scuole medie.
CAP. 4
La
sera, era un venerdì, tornai a casa stanca ed ancora un po’ scossa
dallo strano episodio. Entrai nel piccolo appartamento in
cui abito da sola da ormai tre anni, boccheggiando per la rovente
temperatura che la giornata afosa aveva accumulato, nonostante mi
fossi premurata di chiudere tutte le imposte. Accesi la lampada sul
mobile in entrata e mi accorsi subito che la segreteria telefonica
lampeggiava ritmicamente: messaggi in arrivo. Il numero rosso indicava
il numero 3. Tre
chiamate?, pensai mentre sistemavo l’agenda e i
giornali sul mobile d’entrata, mia
madre, Ricky e chi altro? Sara,
forse.
Pigiai il tasto per riavvolgere il nastro e far partire
automaticamente le registrazioni dirigendomi verso il bagno, tanto il
volume della segreteria mi avrebbe consentito di ascoltarla sin da lì.
La prima voce era quella prevista e titubante di mia madre, da sempre
in imbarazzo ad interagire con una macchina, che mi chiedeva come
stavo, mi informava sull’esito di alcuni esami clinici di sua sorella e
infine mi mandava i saluti suoi e di mio padre. Feci scorrere l’acqua
fredda dal rubinetto e mi bagnai il viso, assaporando quel sollievo.
Dopo il secondo fischio per l’appartamento si sparse la voce allegra e
sonante del mio lui. Sto da due anni con Enrico, Ricky per tutti. Come
potrei descriverlo? Apparentemente è tutto il contrario del ragazzo
con cui starei (incoraggiante come inizio, no?). Non fraintendetemi,
sto bene, molto bene con lui, e credo di non mentire a me stessa se
aggiungo che lo amo. Ma è comunque diverso dai canoni che pensavo mi
attirassero in un uomo, alla luce delle mie esigenze e delle storie
passate. E’ un pezzo di ragazzo notevole, per dirla con la mia amica
Sara, e a prima vista dà la classica impressione del tutto muscoli e
niente cervello. Impressione che ha avuto per un po’ anche la
sottoscritta, quando l’ho conosciuto durante una settimana bianca
sull’Altopiano, e impressione che penso permanga ancora adesso in molte
persone che conosco, non ultime un paio di mie amiche. Naturalmente è
uno sportivo iperattivo, e mi tocca dividerlo con il tennis, le
arrampicate in roccia, gli allenamenti del calcio il martedì e il
giovedì sera (sereno, diluvio universale o tormenta di neve va bene lo
stesso), le piste di sci e le escursioni della domenica mattina in
mountain byke. Come disse la mia amica Silvana, in una di quelle sere
rigorosamente-senza-uomini in cui si sparla un po’ di tutto e si
esagera con i grappini (sì, fra donne si fanno anche queste cose, a
volte), meglio dividerlo con il tennis che con le partite di calcio in
tv tre sere alla settimana. O, peggio, con la commessa del negozio di
abbigliamento del centro. Convengo.
Io in quanto a sport, a parte
delle goffissime discese a spazzaneve tre o quattro volte l’anno, poco
o niente. Anzi niente. Sono la classica tipa che grida istericamente
agitando le mani quando la palla arriva un po’ troppo forte durante
un’improvvisata partita di pallavolo sulla spiaggia. Oh beh, ognuno ha
i suoi gusti. Tornando a Ricky, lui è sempre molto attivo, sempre molto
abbronzato, sempre molto pettinato, sempre molto sicuro di sé. E lo
descrivo così continuando a non trovarci nulla di male. Anche perché
dopo averlo conosciuto meglio, nonostante numerose resistenze da parte
mia a rivederci in città, diffidente primo per una mia storia
precedente finita male e secondo perché mi dava l’impressione del tipo
tutto muscoli e niente... ci siamo capiti... mi sono resa conto a poco
a poco che in realtà lui sembra
essere molte cose. Sembra
ma non è. La
sua passione per lo sport può farlo sembrare un manzo privo di
sensibilità, ma è dolce, e si prende cura di me, ed è bello parlare con
lui, anche se i nostri punti di vista sono spesso diversi. E forse è un
bene, in fondo non c’è controprova che un partner perennemente
sintonizzato sui tuoi gusti sia tutto rose e viole. Questo significa
che a turno io devo ascoltare le potenti frequenze tachicardiche della
musica techno che si spara in macchina e lui sorbirsi i cd di
cantautori italiani le sere che passa a casa mia, per esempio. Oppure
qualche volta io devo barattare l’ultimo film d’azione tutto cazzotti e
sparatorie per gustarmi la volta seguente un bel filmone romantico che
mi faccia uscire dal cinema con le guance rigate di lacrime.
E’ poi
è onesto, e ha dei valori (e di questo parleremo un po’ più avanti). In
fondo è una bella persona e, anche se a parole sembrerebbe riduttivo
descrivere così l’uomo che si dice di amare, io credo che essere belle
persone non sia cosa da poco, tutt’altro. L’amore vero, quello che deve
durare tutta una vita, non può essere solo ardenti fiammate di
passione, perché è risaputo che non possono bruciare a lungo. E che
consumano le persone. L’amore vero è un caldo, continuo tepore che
scalda il cuore quel tanto che basta a farti sentire il profumo della
vita. Riuscendo a far sbiadire le paure (forse non riesce a farle
sparire, ma neanche la passione lo fa) e facendoti sentire, nonostante
tutto, in equilibrio col mondo. Almeno, così è come la vedo io.
La
sua sicurezza e il suo modo di fare estroverso, poi, lo fanno sembrare
un po’, come dire... un po’ fanfarone. Ma anche questa è una sensazione
superficiale, perché non l’ho mai sentito vantarsi di nulla
(dimenticavo, viene da una famiglia piena di soldi) se non di qualche
performance sportiva, con gli amici in pizzeria. E nonostante io cerchi
periodicamente di spiegare tutto ciò alle persone che mi stanno vicine,
non sempre sortisco l’effetto desiderato. Solo per Sara io dovrei
portarmelo immediatamente all’altare. Mio padre invece non vede di
buonissimo occhio le sue incursioni in casa, quando scherza ad alta
voce con mia madre, o ingaggia furibonde lotte sul divano con il mio
fratellino minore (che stravede per lui) o pontifica scherzosamente a
tavola su questo e quel politico. Naturalmente lo “scherzosamente” pare
riesca a vederlo sempre e solo io. Mah...
Tornando al messaggio
lasciato dal mio lui, mi dava appuntamento verso le otto e mezzo
(questo voleva dire tra poco più di mezz’ora, quindi un tempo
infinitamente breve per una donna che si sente da buttare dopo
un’afosissima giornata di lavoro) per raggiungere la compagnia alla
solita pizzeria e poi decidere dove finire la serata.
Innervosita
dal breve tempo a mia disposizione decisi di volare di nuovo in bagno
per una doccia ed un restauro indispensabili, quando la segreteria
lanciò il suo terzo (ed ultimo) fischio. Subito dopo, il nulla. Nessuna
voce, nessun rumore. Mi bloccai al centro del salotto, a disagio.
“Qualcuno che ha trovato
la segreteria inserita e ha preferito
riagganciare”, avrei pensato in qualunque altra sera. Ma
non quella
sera. La segreteria scattò, dopo aver esaurito il suo muto messaggio, e
il rumore amplificato dal silenzio della casa mi fece trasalire. Con i
battiti che acceleravano (inspiegabilmente) nel petto, riavvolsi il
nastro, feci avanzare velocemente i messaggi di mia madre e di Ricky e
mi chinai con l’orecchio sull’apparecchio. Il silenzio ripartì e non
era un silenzio. Non una mancanza di suono, per capirsi, ma il “rumore”
del silenzio. Corrucciai la fronte per aguzzare... l’udito e quasi alla
fine del nastro mi sembrò di sentire... un mormorìo, impercettibile e
confuso. Guardai di lato: il volume della segreteria era al massimo.
Riavvolsi il nastro e riascoltai, ancora e poi ancora. Non riuscivo a
decifrare niente, poteva trattarsi addirittura di un difetto della
cassetta. Il cuore mi rimbombava nelle orecchie.
Poi mi venne
un’idea: feci sputare fuori la cassetta e la infilai, con mani non
troppo ferme, nel piccolo rack stereo sul mobile in cucina. Rovistai
freneticamente nei cassetti di casa fino a che non trovai le cuffie con
cui, quando ero studentessa, ascoltavo i corsi di inglese. Le infilai e
feci ripartire per l’ennesima volta la registrazione (senza troppo
chiedermi cosa diavolo stessi facendo) alzando più possibile il volume:
il fruscio del messaggio vuoto mi riempì la testa, poi, proprio alla
fine, all’improvviso una voce sussurrò
il mio nome.
Il nastro si
fermò (con un TLAC assordante) e proprio in quel momento, mentre
cominciavo a tremare senza riuscire a controllarmi, il campanello suonò
due volte.
Era Ricky. Avevo ascoltato e riascoltato la segreteria per ben 35
minuti.
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