1. Revolve.
Jimmy Novak aveva da
poco compiuto venti anni. Non c’erano stati però
festeggiamenti particolari per quella nuova decade ottenuta: qualche
chiamata, certo, e un regalo ricevuto pochi giorni dopo tramite
corriere, un libro, a voler essere precisi, da parte del suo migliore
amico. Che era anche l’unico.
Vedendolo da una decina di passi di distanza, non era evidente nessuno
motivo per la quale il ragazzo fosse poco avvicinabile, anzi: Jimmy
aveva un bell’aspetto, composto da una fisionomia regolare un
viso squadrato dove i colori –il blu acceso degli occhi, il
castano scuro dei capelli e il leggero rossore delle labbra- si
accostavano l’uno all’altro con una perfezione resa
ruvida dalla barba che corta gli cresceva sulla mascella, creando su
quel volto un’ombra un poco scura.
Certo, il suo non era una carattere che si potesse definire socievole;
tutt’altro, Jimmy era chiuso e chiuse erano anche le sue
labbra, guidate da una voce che era capace di non farsi sentire per ore
e ore, forse anche per un giorno intero. Non era neanche avvezzo al
ridere e neppure al sorriso, che esso fosse sarcastico o semplicemente
soddisfatto. A chi se lo ritrovava di fronte e decideva di osservarlo,
poteva apparire come un ragazzo più vecchio del dovuto,
tanta era la serietà che gli costringeva il volto e
aggrottava le sopracciglia scure, facendo risaltare ancora di
più gli occhi grandi, da bambino.
Il problema di Jimmy viveva proprio lì, in quelle iridi di
cielo. Ma questo nessuno che lo incrociasse lo poteva intuire,
immaginare, pensare.
Lo sapevano solo lui, due sue conoscenze fidate e chi era come la
ragazza che adesso sedeva davanti a lui, intorno al tavolo da pranzo.
« Allora.. puoi dirmi di nuovo come ti chiami?»
Lei abbassò lo sguardo sporco di lacrime secche. Dimostrava
diciassette anni, forse sedici, e ogni cosa nel suo essere appariva
come dissonante dal comune: i capelli spettinati, appiccicati ai lati
del viso, le labbra tremanti e bluastre, il trucco colato e i vestiti
rovinati, vecchi, o meglio… gocciolanti. Erano infatti le
gocce quelle che scorrevano giù lungo la sua gamba sinistra,
correndo fino alla caviglia e attraversando il collo nudo del piede,
ciò che la giovane stava osservando.
« Per favore.» Ripeté Jimmy, con un tono
profondo e calmo. « Serve che tu me lo dica.»
« Helena. »
Sussurrò lei, lasciando uscire fuori quelle poche lettere
macinate dai denti che non avevano smesso di battere con violenza per
un solo attimo. Jimmy la osservò ancora un altro
po’, passando in rassegna tutti gli elementi di quel
corpicino scosso, fino a fermare la sua attenzione sui segni rossi che,
come una collana, giravano attorno al suo collo,
nell’impronta malevola di due mani.
« Chi è stato a farti questo? »
Helena non rispose, ma tremò ancor più forte, gli
occhi arrossati ricolmi di puro terrore. Jimmy, allora,
batté piano l’indice sul quotidiano che stava in
mezzo a loro, aperto sul tavolo.
« E’ come si dice qui? E’ stato tuo
padre, Helena?»
« S.. S…» Non riuscì a finire
di parlare, abbattuta da un singhiozzo che le fece saltare il petto
verso l’alto e tossire via acqua sporca. A seguire non si
pulì il viso, ma rimase con le mani premute sul petto, lo
sguardo vuoto e impaurito.
« Te ne prego.» Pianse, alzando finalmente lo
sguardo su Jimmy. « Hanno detto che puoi aiutarmi. Fallo, te
ne prego! Io- io non ho fatto nulla!»
« So che sei innocente.» Disse il ragazzo,
guardandola negli occhi intensamente. « Sei solo una
vittima.»
L’adolescente ebbe al sentire quelle parole un sussulto di
sorpresa, primo dopo una lunga serie di spaventi e tossi.
« D… Davvero?»
« Davvero, Helena.» Si fermò un attimo a
prendere un respiro profondo. « Hai una seconda
possibilità.»
Le labbra cerulee di lei si piegarono in un sorriso entusiasta a cui
lui non rispose; poi un leggero soffio di vento irruppe ed
eruppe nella stanza.
Jimmy Novak fu di nuovo solo.
Restò in quell’esatta posizione, lo sguardo fisso
sulla sedia di paglia intrecciata sui cui era stata seduta la ragazza,
per qualche minuto, fino a quando un lungo sospiro non gli
abbassò le spalle di una buona dose di centimetri
e tutto sé si abbandonò sullo schienale
scomodo.
“E’ fatta”, pensò, e quel
pensiero parve infondergli la forza necessaria per alzarsi e dirigersi
verso il tavolo. Le mani raccolsero il giornale, appartenuto a tre
giorni prima, e sfilarono la pagina sulla quale era stato
lasciato aperto. C’era, stampata molto in grande, la foto di
una ragazza, presa da un ritratto in casa o forse dal profilo di
facebook. Aveva i capelli puliti e ricci, lì, e il trucco
era perfetto, ma nessuno avrebbe potuto negare che non si trattasse di
colei che fino a poco prima era seduta nel salotto
dell’appartamento di Jimmy.
Sopra di essa torreggiava, in caratteri scuri e evidenti, il titolo
dell’articolo:
“ Padre affoga figlia
adolescente.”
La notizia di cronaca nera urbana, poi, dava ulteriori dettagli di
quell’episodio raccapricciante: l’uomo,
quarantanove anni, divorziato, nel primo pomeriggio aveva fatto
irruzione nel bagno, dove la figlia diciassettenne, Helena, quel giorno
sotto la sua supervisione, si stava pettinando i
capelli. Colto non da un raptus d’ira, ma dalla
ragione di un agire programmato ormai da tempo, aveva prima tentato di
strangolarla usando le proprie mani e poi, dopo averla indebolita,
proceduto chiudendole la testa in un sacchetto di plastica e
affogandola nel wc.
Ad attirare l’attenzione dei vicini –che a seguire
riportavano sgomente e incredule testimonianze- erano state le urla
della giovane e il suono ripetuto dello scarico.
Quali erano state le colpe di Helena? Essere figlia di un uomo che in
realtà non era il suo vero padre biologico, certo, e altre
mille piccoli, stupidi motivi per cui non meritava la fine che aveva
avuto.
Jimmy piegò con cura la pagina e si diresse verso
la camera da letto, una piccola stanza adiacente al bagno che ospitava
un armadio, un letto da una piazza e mezzo e una scrivania.
Il primo cassetto, quello che aprì, era ricolmo di mille
simili dell’articolo che teneva tra le dita, articoli vecchi,
altri recentissimi.
Venivano da lui da sempre.
Il primo spirito era venuto a parlargli quando aveva circa cinque anni;
allora Jimmy non l’aveva identificato come tale, per lui era
solo il signore strano che lo seguiva ovunque e che gli altri, per
strane ragioni, non potevano vedere. Ne erano venuti anche altri, uno
dopo l’altro, tutti volti e nomi diversi che in comune
avevano due fatti: essere invisibili a tutti, fuorché lui, e
chiamarlo con un altro nome. Castiel.
Raccontare la cosa ai genitori era servito a poco. Urlare e avere
reazioni esagerate, invece, lo aveva fatto sedere sul primo divanetto
dello studio di uno psichiatra infantile e, subito dopo, in ospedale.
Ma da nessuno dei test risultava che il piccolo Jimmy era autistico,
così come nessuna di quel milione di pillole colorate che
doveva prendere aveva fatto andare via i signori invisibili.
L’unica cosa che funzionava, per quello, era dire loro che
potevano andare via.
Jimmy l’aveva scoperto quando, a sette anni, un uomo con un
foro rosso in mezzo alla fronte lo aveva seguito dalle prime ore del
mattino a quelle inoltrate della notte, in cui il bambino gli aveva
urlato, esasperato, di andare via.
“ Posso?” era stata la risposta. Il Jimmy di allora
l’aveva guardato con aria confusa e l’uomo aveva
quindi spiegato: “Se sei tu a dirmelo, io posso andare via.
E’ quello che voglio, andare via. Non voglio più
stare qui. Ma solo tu puoi decidere”.
Da lì la situazione si era evoluta: ogni volta che uno
spirito gli appariva davanti, Jimmy puntava il dito verso la finestra e
con tono imperioso diceva “Puoi andare via!”, e lui
se ne andava. Le cose erano migliorate: aveva fatto credere ai suoi
genitori che non vedeva più nulla e tutto era passato,
così le medicine erano diminuite e diminuite fino a cessare.
Peccato solo che una bugia come quella, tenuta da un bambino, non
potesse durare più di molto.
Nel preciso momento in cui il cassetto venne richiuso con uno scatto,
la tasca dei pantaloni di Jimmy iniziò a vibrare con enfasi.
Il telefono venne recuperato in fretta e sempre in fretta
lanciò uno sguardo al nome dell’emittente della
chiamata, riconoscendo proprio ciò che si aspettava.
« Balthazar.»
« Oh, Cassie.
Allora?»
Jimmy Novak, altresì Castiel, non batté ciglio
sentendosi chiamare così. Piuttosto lanciò uno
sguardo all’orologio sopra la sua testa e strinse i denti.
« Sono in ritardo.»
« Okay, ma non
è questo che ti ho chiesto. Devo dire tutta la domanda o non
è già facilmente intuibile?»
« Ho lezione tra dieci minuti. Devo scappare.»
Non diede tempo al suo interlocutore di ribattere e chiuse la chiamata,
correndo verso la tracolla e la giacca. Mentre s’infilava
quest’ultima, un trenchcoat che certo aveva visto giorni
migliori, passò di fronte al lungo specchio inchiodato al
muro del corridoio e davanti a esso si fermò qualche attimo.
Gli occhi scivolarono sulla sua figura, dalla testa fino ai piedi, per
poi risalire; la scrutarono con attenzione e si fermarono ad esplorare
quelle stesse pupille e la pelle del volto che le circondava.
Nello specchio si rifletté l’amarezza che gli
strinse le labbra un momento prima di fuggire via dal vetro e
dall’appartamento.
Jimmy corse giù per tutti e quattro i piani di scale,
evitando la vecchia ringhiera traballante, raggiungendo in un batter di
ciglia il portone. Ma proprio mentre stava per aprirlo,
l’istinto gli disse di voltarsi.
Timidamente affacciata dalla ringhiera, in piedi sul mezzo piano che
aveva appena superato, c’era una bambina di circa sei anni,
dalla pelle scura ed occhi grandi che lo erano altrettanto. Il petto
infante e piatto era nudo, coperto solo dai capelli d’ebano e
un collana che forse lei stessa aveva fatto, intrecciando piume e
qualche piccolo ossicino d’animale; intorno alla vita aveva
un gonnellino cucito con pelle animale e con una stoffa
semplice e ruvida. Era scalza e tendeva continuamente le caviglie nude
in alto, alzandosi sulle punte.
Jimmy le sorrise, muovendo la mano nella sua direzione.
« Buongiorno, » la salutò, parlando a
voce bassissima. « ancora qui, mh? »
La piccola pellerossa non rispose e si voltò, scappando via.
I suoi passi non fecero il minimo rumore.
Atteso qualche minuto, Jimmy poté finalmente uscire.
Le strade di Knightscore City erano quasi sempre piene. I
turisti le affollavano in ogni stagione e ad ogni ora, camminando in
gruppo dietro guide che sventolavano ombrelli o bacchette ricolme di
fiocchi colorati, oppure avventurandosi di loro spontanea iniziativa e
trasformandosi in più paia di gambe che muovevano passi
incerti dietro enormi cartine geografiche. Andavano alla caccia dei
più angoli storici, che, meravigliando chi non sapeva,
spuntavano in mezzo ad edifici del ventesimo o del ventunesimo secolo,
di giardini verdeggianti nella quale vivevano bianche statue di marmo e
che si nascondevano dietro i grattacieli.
Più di molte altre città, Knightscore era stata
resa dai suoi conquistatori una curata riproduzione
dell’Europa. I francesi che ai tempi
l’avevano occupata avevano provveduto a spandere in ogni
angolo possibile la loro cultura, portando però numerosi
–e mai rivelati per orgoglio- tratti e
caratteristiche da quella della loro invidiata vicina Italia. Quando il
luogo era passato in mano agli inglesi, l’avevano trovato un
posto talmente piacevole che non avevano avuto voglia di cambiare
nient’altro se non il nome.
Così i viaggiatori che la visitavano, potevano ora vedere
una cattedrale le cui decorazioni erano indubbiamente
all’italiana, ora una chiesa dove si affacciavano, rabbiosi,
gargouille francesi e non mancava chi, puntiglioso, si fermava a
dibattere se certe guglie fossero una copia di un palazzo fiorentino o
di uno parigino.
La zona in cui abitava Jimmy era stata tirata su di sana pianta agli
inizi dell’Ottocento. Attraversata solo da chi la popolava
–per lo più studenti o vecchi signori che vi
abitavano da chissà quanto- e turisti che avevano perso la
strada, si trovava nella traversa di una grande via che, se seguita,
portava dritta nel cuore del centro storico. Si trattava di un posto
tranquillo, dove se qualcuno faceva rumore, era certo che fosse il bar
a metà strada, oppure il gruppo di studenti un po’
troppo festaioli che stavano al terzo piano del palazzo di fronte a
quello in cui viveva Jimmy.
Non negava di aver avuto un gran fortuna ( una delle poche capitategli,
ma lasciamo perdere) a scovare l’appartamento che ora era
suo: luogo calmo, vicino ai servizi indispensabili –un
supermercato ed una farmacia-, al centro e al suo polo universitario.
Certo, il prezzo dell’affitto era un po’ troppo
alto se pagato da solo, ma non era che avesse un’altra
scelta. Non lui, per cui ciò che aveva appena passato era
all’ordine della quotidianità tanto quanto
camminare verso il dipartimento di Lettere Antiche con un passo deciso
e la cintura dell’impermeabile che batteva continuamente
contro i jeans, o quanto fermarsi per attraversare la strada e veder
passare, nel mentre, un uomo in bicicletta.
Succedeva ogni giorno; esattamente intorno a quell’ora,
dall’angolo della strada arrivava quel tipo. Jimmy non aveva
mai fatto caso al suo volto, perché quando lo vedeva passare
era ormai già di spalle, ma ogni volta si soffermava a
notare il bambino di pochi anni che stava seduto dietro di lui, in un
piccolo seggiolino di plastica azzurra e a cui il guidatore, a gran
voce, raccontava storie o canzoni. L’ultima volta che aveva
sentito uno stralcio del loro discorso, l’uomo stava
inventando una specie di storiella che altro non era che il testo di
“Immigrant song”. Il bambino era troppo piccolo per
capire, ma stava attento, attratto dalla voce
dell’altro. Davanti a quella scena, Jimmy si
ritrovava ogni volta a sorridere e a perdere minuti preziosi che
avrebbe dovuto recuperare camminando ancor più velocemente.
Erano ormai sette mesi che frequentava
l’università locale e quindi sette mesi che non
faceva ritorno alla sua vera casa. Sette mesi in cui aveva superato
esami e visto arrivare nell’aula che il suo corso di laurea
era solito occupare con più frequenza diversi professori.
Erano cambiate le materie e gli insegnamenti, ma a parte ciò
per Jimmy la lezione di quel giorno era stata identica a quella del
primo. Si era seduto tra le prime file, dove i posti occupati
scarseggiavano e aveva annotato sul block-notes le spiegazioni e le
nozioni impartite, senza mai distogliere lo sguardo dalle
pagine. Durante l’intervallo, quando i suoi
compagni fuggivano dalle aule e si ricolmavano la stanza di risate e
chiacchiere e odore di caffè, lui rimaneva seduto,
limitandosi a buttare uno sguardo al telefono.
Tutti, bene o male, avevano stretto più amicizie, formando
gruppi più o meno vasti; tutti tranne Jimmy. Era capitato
che qualcuno gli venisse a parlare, certo; spesso si era trattato di
una qualche ragazza, che, preso coraggio, si era avvicinata e gli aveva
chiesto il suo nome, osservata a distanza da un coretto di amiche.
Jimmy in quei casi rispondeva, annuiva quando lei si presentava e, da
lì a poco, la conversazione finiva col cadere e la poveretta
col sentirsi a disagio.
L’ultima volta che era accaduto la ragazza si
chiamava Annie e dopo qualche minuto aveva iniziato a
passarsi le mani tra i capelli, chiedendo poi, con voce imbarazzata, se
tra di essi vi fosse qualcosa, visto che Jimmy non faceva che fissarli
con aria seria. Il ventenne aveva distolto lo sguardo e risposto in
fretta che no, non c’era assolutamente nulla, abbandonando al
silenzio la biondina.
In realtà qualcosa vi era eccome, ma non si trattava affatto
di una foglia o un piccolo insetto: erano numeri, disposti in gruppi da
due e separati da un punto.
Una data.
Jimmy le vedeva aleggiare sopra la testa di chiunque fosse
lì dentro, sulla testa delle persone che incrociava per
strada, su quella dei suoi vicini. Alcune riportavano anni molto
futuri, altre erano terribilmente vicine e gli facevano raggelare il
sangue. Era per colpa di queste che Jimmy restava in
solitudine o non aveva invitato Annie a sedersi accanto a lui.
Non poteva fare amicizia con lei quando sapeva che esattamente tra
quarantuno anni, tre giorni e otto ore spaccate sarebbe morta e che
lui, oltre a non fare nulla per evitarlo, non avrebbe neanche potuto
avvertirla.
« Per vostra fortuna, » disse con un tono
più alto il professore, facendo fermare penne e
bocche, « la docente di storia antica non potrà
essere presente. Le due ore di lezione successive a queste sono
annullate.»
Si sollevò un coro di commenti festosi e sorrisi, mentre
tutti gli studenti, rallegrati da quella bella notizia, si mettevano i
giacchetti e raccoglievano in fretta e furia penne e quaderni, parlando
quasi tutti di cosa andare a fare in quelle due ore libere in una
giornata dal clima meravigliosamente soleggiato, una specie di preludio
all’estate. Jimmy si limitò ad alzarsi e andare
via, senza neanche rimettersi il trenchcoat, che mai si era tolto di
dosso.
Facendosi docilmente spazio in una folla di persone, fumo di sigarette
e numeri, raggiunse l’uscita, ma proprio quando il suo piede
toccò l’ultimo gradino delle larghe scale in
marmo, sentì una voce chiamarlo:
« Castiel! »
Riconoscendola dalla prima sillaba, si voltò immediatamente,
rivolgendo un sorriso non troppo pronunciato alla ragazza dai capelli
rossi e la carnagione lattea che gli si stava velocemente avvicinando,
saltando due a due i gradini.
« Anna.» La salutò, rilassando i muscoli
delle spalle quando gli fu accanto. Anna Milton era una delle due
uniche persone di cui Jimmy –Castiel- si fidava;
non l’aveva mai fatto apertamente, ma non c’era
dubbio che lei fosse la sua migliore amica. Si conoscevano dai tempi
del liceo e insieme si erano trasferiti dalla cittadina di provincia in
cui abitavano a Knightscore. Anna si era inscritta al corso
di laurea di Letterature Comparate e i momenti in cui la incrociava per
i corridoi erano senza dubbio i suoi preferiti
all’università.
« Come va?» Chiese, infilando la mano nella tasca
dei jeans chiari che fasciavano le gambe sottili. « Balthe mi
ha detto che stamattina avevi visite. »
« E’ raro che non ne abbia. »
commentò Jimmy, lasciando vagare un poco gli occhi per poi
tornare a lei. « Comunque si è tutto risolto.
Digli che mi spiace di avergli attaccato in faccia. »
« Posso anche farlo, ma lo sai che continuerà a
fare lo spocchioso e borbottare in francese fino a quando non sarai tu
di persona a scusarti! »
Risero un poco entrambi su quella perfetta e veritiera immagine, Anna
in modo divertito e Jimmy più pazientemente.
« A proposito!» Esclamò lei tutto ad un
tratto, andando immediatamente a cercare qualcosa nella borsa capiente.
La mano sinistra ne uscì dopo qualche minuto: stringeva un
oggetto di pochi centimetri, dalla quale penzolavano due auricolari. Un
mp3.
« Questo è da parte mia e di Balthe, per il tuo
compleanno.»
Jimmy rimase qualche attimo con la mascella leggermente calata e
dovette sbattere gli occhi un paio di volte prima di riprendersi dalla
sorpresa.
« Non… non dovevate. » Riuscì
a tirare fuori, la lingua accartocciata dall’imbarazzo.
« Balthazar mi ha già fatto un libro e-»
« Sh, zitto! » Lo zittì Anna, mettendo
il regalo nelle sue mani e una cuffia nel suo orecchio. «
Quello serviva solo per farti avere qualcosa nel giorno del tuo
compleanno. Ci abbiamo messo delle ere a scegliere che canzoni
caricarci sopra.»
Jimmy sollevò l’angolo sinistro delle labbra in un
mezzo sorriso. Conoscendo i due amici, poteva solo immaginare quanto
tempo avessero passato a bisticciare su quali canzoni inserire e quali
no, accusandosi a vicenda di scegliere secondo i loro gusti musicali e
non quelli di Jimmy.
« Grazie.»
« Di nulla!» Rispose Anna, felice di vedere che il
dono era stato accettato. « Ora devo scappare a lezione. Per
la riunione facciamo come al solito?»
« Domani sera alle otto e mezza a casa di
Balthazar?»
Domandò a sua volta. Anna annuì e
buttò un occhio ai corridoi, riconoscendo alcuni dei suoi
compagni rientrare.
« Scappo.» Avvisò, sventolando la mano e
salendo di sbieco un paio di gradini, gli occhi sempre puntati su
Jimmy. « Tu ascolta un po’ di musica mentre torni a
casa! Tieni la testa occupata! Ciao!»
Jimmy ricambiò il saluto e seguì con lo sguardo
la schiena dell’amica fin quando non sparì dietro
l’angolo. Ancora con l’auricolare messo esattamente
come l’aveva lasciato Anna, uscì
dall’università e s’incamminò
verso casa. Curioso di sentire cosa avevano preparato per lui, decise
di seguire il monito lanciatogli e accese l’mp3,
già impostato su riproduzione casuale. Un accordo di basso
girò nelle sue orecchie.
Quella canzone l’aveva sentita l’ultimo giorno di
liceo; era seduto nel chiosco di un bar, insieme a Balthazar e Anna,
che era andata a comprare del gelato.
“ Si chiama
Revolve” aveva detto l’amico, notando
che aveva teso le orecchie in ascolto. “ E’ vecchia
di qualche anno, non di più. Il gruppo ha fatto molto
successo ultimamente.”
Jimmy mise tutta la sua attenzione sulle parole della prima strofa,
attento e curioso, attirato.
" A revolution has begun
today for me inside
The ultimate defence is
to pretend
Revolve around yourself
just like an ordinary man
The only other option is
to forget "
Non fece in tempo a formulare un qualche pensiero personale su quelle
prime parole, che la sua attenzione fu nuovamente colta da qualcosa.
L’uomo con la bicicletta gli era appena passato a fianco.
Non l’aveva mai incrociato due volte nello stesso giorno;
forse perché mentre lui tornava dalla passeggiata, Jimmy era
a lezione. Avrebbe voluto sorridere davanti a quell’immagine
come faceva ogni volta, ma ad attirarlo fu ben altro.
Le date dell’uomo e del bambino stavano cambiando. I numeri
vorticavano e vorticavano.
Quando si fermarono, con loro si fermò anche il cuore di
Jimmy.
I due orologi segnavano un minuto e cinque secondi.
Prima ancora che la sua mente potesse reagire e i suoi occhi vedere il
camion che arrivava alle loro spalle, le gambe di Jimmy scattarono in
una corsa disperata.
―――
" The evolution is coming,
a Revolution has just begun. "
____________________________________________________________________________________________________________________
Note dell'autrice.
Perché io sono furba e ovviamente inizio una long durante il
periodo d'esami. Claps me.
Tralasciando la presentazione idiota, che dire? In questo primo
capitolo ho voluto concentrarmi su Cas, anche se ho lasciato moltissime
cose solo in una leggera sfumatura; non voglio svelare tutto e subito,
proprio no! Per chi si appassionerà -spero che
succeda- ci sarà un po' da penare.
Ho intenzione di dare ad ogni capitolo il nome di una canzone: in
questo caso si è trattato di quella che è per me
la chara-song di Castiel in questa mia au: "Revolve" dei 30 seconds to
mars ( sono una echelon, mea culpa! )
Anche il titolo della fanfic stesso riprende una canzone degli U2,
"Vertigo" che trovo adattissima con tutta la storia. ♥
Come penso si sia capito, la città in cui si svolge la
storia è inventata di sana pianta, ma è
totalmente ripresa da Firenze, nella quale al momento sto vivendo per
via dell'università ( yeeeeeah, vita da fuorisede )!
Un ringraziamento speciale va al signore con la sua bicicletta che mi
passa davanti ogni mattina e che racconta episodi di storia toscana, un
po' boccacceschi e un po' danteschi, al suo bel bambino. Sappi che
tutto questo è merito tuo e che tuo figlio è
adorabile!
Infine, non so quando aggiornerò; come ho detto ho gli esami
e per questo non sarò per nulla regolare fino a luglio e me
ne dispiace-! C'è di buono che ho già tutta la
storia delineata in testa e quindi non dovrei avere momenti morti,
ahahaha!
Che dire? Spero di aver incuriosito qualcuno al punto di portarlo a
commentare, preferire, ricordare o seguire questa cosetta partorita in
un pomeriggio fiorentino e in un viaggio di tre ore in treno.
Un bacio-!
See-Ya!
_lucy
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