Odio
Come stai 2.0 perché era questo il titolo originale. Ho scritto Come stai
cinque anni fa (l'ho trovate su EFP), recentemente l'ho ritrovato e ho deciso di riscriverlo.
E' sostanzialmente identico, ho deciso solo di migliorare la qualità
della scrittura.
Buona lettura; non è autobiografico.
Odio
Odio dover stare seduta
a questo banco. Odio sentire dietro di me sussurri e cellulari che vibrano
contro il banco – è un rumore insopportabile.
La matita mi è colata
dagli occhi. A volte mi sforzo di piangere per rovinare il mio trucco. Il mio
trucco perfetto, quello nessuno lo nota. Il trucco rovinato, la domanda «hai
pianto?», ma neanche quella arriva.
La campanella è suonata
e io mi sono sfregata l’occhio col dito. Le lacrime prudono, anche quelle finte
– anzi, credo che quelle finte siano quelle che danno più fastidio.
L’umiliazione, la frustrazione, neanche la soddisfazione di far vedere loro che
piango.
Mi alzo ed esco
dall’aula, a testa china.
Vorrei che mi
chiedessero come sto qualche volta. Non ha senso perché io risponderei bene,
anche se è male. Come la fa maggior parte delle persone, perché la maggior
parte delle persone è questo che vuole sentirsi dire. Lo chiede – come stai? – ma non è davvero
interessata – dimmi che stai bene.
E allora, d’accordo, siamo
tutti educati e stiamo tutti bene.
Odio chi ha una risata
rumorosa. Odio sentire che tutti ridono quando qualcuno fa una battuta. Odio
dover ridere anch’io. Odio la mia risata, perché è timida e titubante, e perché il mio
sorriso non lo vede mai nessuno. Odio le ore buche. Gli altri hanno giocato a
carte e io cercavo di fare altro. Ho provato a scrivere qualcosa, ma tanto non
so scrivere. Ho provato a disegnare, ma tanto non so disegnare.
Gli altri si
divertivano e di sicuro pensavano che io mi stessi annoiando, perché lo sanno
che non so fare niente. Mi avranno disprezzata. Loro odiano me e io odio loro.
Eppure non mi va bene
neanche così.
Odio i giochi stupidi, odio sentirmi in imbarazzo.
Oggi c'è stata un'altra
ora buca, la professoressa è ammalata.
Avevo deciso che oggi
mi sarei divertita insieme cogli altri. Ma loro non hanno giocato a carte, si
sono messi a fare il gioco della bottiglia.
Io non volevo e sono
rimasta al mio banco. Li guardavo e, come un marionetta ammaestrata, spalancavo
la bocca quando lo facevano gli altri, ridevo, con la mia fioca risata, quando
mi sentivo in dovere di farlo.
Odio essere così.
Accumulo i rimpianti –
li posso contare – per il terrore dei rimorsi.
Odio le formalità, ma
oggi ho chiesto «come stai?» a un mio compagno. Lui è sempre allegro e quando
mi ha risposto con una scrollata di spalle e con un presuntuoso «si tira
avanti», l’ho odiato.
Poi ho pensato che lui,
forse, non era poi così diverso da me e ho odiato questo pensiero.
E se fosse così? E se
fossimo tutti infelici, mascherati con dei come
stai che non vogliono realmente una risposta e con dei bene
che non volevano realmente una domanda?
L’ho pensato, che odio
un po’ troppe cose.
Credo di odiare troppo,
per riuscire ad essere amata.
Credo di essere troppo
concentrata su me stessa, per riuscire ad avere degli amici.
Odio i compleanni
perché tutti si fanno gli auguri, anche chi non si vuole bene, anche chi non si
sopporta.
Odio questa giornata
perché è il mio compleanno, e nessuno mi ha fatto gli auguri.
Mi odio perché sono un’ipocrita.
Tornando a casa, ho pianto davvero.
Le mie lacrime, quelle
vere, si erano cristallizzate da qualche parte e si sciolsero nel calore
dell’odio profondo. Scorrevano impetuose, pungenti, e ho pensato che preferivo
quelle finte.
Mi sono buttata in mezzo alla strada, con la speranza che mi investissero.
Volevo farmi male.
Forse se mi fossi fatta male sul serio qualcuno si sarebbe preoccupato per me.
Forse con la mia assenza si sarebbero accorti della mia esistenza.
Però, lo giuro, non volevo morire.
Ho riaperto gli occhi dopo una settimana.
Parlano di tentato suicidio, io non ricordo nulla.
Ci sono due mie
compagne di classe di fianco al mio letto, mi chiedono come sto. Non le odio,
perché hanno gli occhi arrossati. Hanno gli occhi arrossati perché hanno pianto
per me, io sono stupida e contenta.
Loro se ne vanno ed
entra mia madre – anche lei piange – seguita da un dottore.
Ma perché piangi,
mamma, non lo vedi che sono viva? Non lo vedi che sto bene e che finalmente
sorrido?
Ma il dottore ha
un'aria seria e comincia a parlare.
La notizia mi raggela il sangue nelle vene e improvvisamente ricordo tutto. L'auto
che arrivava. Io che non mi fermavo. Quel giorno compivo quattordici anni.
Mamma mi abbraccia mentre comincio a piangere.
Ecco il mio primo rimorso.
Un grosso rimorso che ogni giorno mi logora lentamente, dall'interno.
Mi chiamo Valentina, ho
quattordici anni e sono su una sedia a rotelle.
Non cammino da due mesi e probabilmente non potrò mai più camminare.
Ogni giorno a scuola tutti mi chiedono come sto e mi sembra di avere tanti
amici.
Forse ora sono più
interessante, ma non sono felice.
Avrei potuto trovare altri mille modi per risultare più interessante ma ero
troppo concentrata su me stessa, e l’unica soluzione che ho saputo trovare è
stata la mia distruzione.
Credo che Dio mi abbia risvegliata da quel coma per farmi capire questo - e per
punirmi.
Non passa giorno senza che io lo ringrazi, non passa notte senza che io lo odi.
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