PROLOGO
P R E M E S S A
Questa è una
strana e alquanto bizzarra storia.
All’inizio non ci troverete niente
di quello che ci si aspetta – nessun dio, nessun mondo
sconosciuto,
niente regni e battaglie – e alcunché del film, ma
è tutta apparenza.
Lasciate scorrere un po’ il testo e troverete ciò
che sembra non
esserci, perché è
solo un trucco.
▬
C A P I T O
L O U
N I C O
▬
“ Riflessi di un'altra vita „
La
montatura degli occhiali era di quelle uscite da un cassetto di
trent’anni prima, ritrovate per caso e appoggiati sul naso
altrettanto casualmente, senza una vera ragione, giusto per vedere
l’effetto che avrebbe fatto indossare un contorno ai propri
occhi. Per tale ragione li aveva inforcati la prima volta, per
curiosità, e si era ritrovato a fissare il viso allungato e
spigoloso da dietro due lenti inesistenti costruite attorno a una
struttura marrone – con crepe più scure a
Intessere una
fantasia tartarugata. I suoi occhi di un verde irreale ricambiavano
lo sguardo circospetto – ed erano iridi solcate da un velo
scuro,
foglie di alberi intrappolati negli strati inferiori della foresta a
non prendere mai abbastanza luce per divenire di uno scintillante
colore esuberante, estivo e invitante.
Loïc Odilon non possedeva lo stesso fascino smagliante dei
suoi
coetanei più ammirati della scuola, ma ne aveva uno
totalmente
suo, coltivato lentamente e con estrema cautela per non rovinarlo con
l’eccessiva fretta. Era meticoloso, preciso e paziente, non
importava quanto tempo gli sarebbe occorso, ma avrebbe ottenuto
ciò che desiderava pagando i prezzi adeguati. La sua era
l’attrattiva del mistero, dell’eleganza algida,
dell’intelligenza sarcastica e cinica, della padronanza di se
stessi in ogni circostanza che ammaliava ed insieme spaventava per la
propria freddezza. Nell’immagine che aveva costruito di
sé, gli occhiali avrebbero dato un tocco maggiore al proprio
personaggio, rifinendo dettagli sui quali lavorava con precisione per
calibrarli in un quadro dove teatralità e inganno sortivano
ruoli fondamentali.
Si sorrise – un ghigno al proprio riflesso -, prima di
prendere
la tracolla e scendere in strada per poter affrettarsi ad andare a
scuola. Passo regolare, calcolato per apparire tranquillo nonostante il
lieve ritardo, imponendosi un’andatura sostenuta senza farla
trapelare come tale e aggiungendo l’abilità della
fluidità necessaria per passare in mezzo alla folla
mattutina
senza essere rallentato.
«Buongiorno, Loïc», la voce soffusa di
Séline
arrivò come ogni giorno puntuale a catturarlo in mezzo alla
fiumana, raggiungendolo prima che fossero i chiari boccoli della
ragazza a irrompere nel suo campo visivo. Sarebbe potuta essere tutto
ciò che desiderava nonostante fosse una studentessa
all’inizio del secondo anno, eppure preferiva il ruolo
dell’eccentrica in cui vestiva i propri panni con la
destrezza di
una guerriera amazzone, impregnata della nobiltà della sua
famiglia nella quale era nata per poi essere cresciuta dai suoi stessi
servitori. Delicata unicamente in apparenza, pungente più di
qualsiasi spinta, era in qualche modo lei la responsabile
dell’itinerario giornaliero che Loïc aveva deciso di
intraprendere dall’anno precedente.
«Anche a te» rispose tranquillamente, concedendole
uno
sguardo fugace di rimando, lasciando imperturbata la propria aria di
distacco e senza la necessità di sottolineare il nuovo
dettaglio
ad adornare il proprio volto. «Nuova lettura oggi»,
difficile capire se quella di Loïc fosse una domanda o una
semplice costatazione nel rivolgere la propria attenzione al libro
stretto tra le affusolate dita della ragazza; stava di fatto che non
gli era sfuggito come fosse un diverso volume rispetto ai giorni
precedenti.
Leggeva molto, Séline, e Loïc Odilon voleva avere
la presunzione che fosse un proprio merito.
L’aveva conosciuta durante il primo mese del primo anno del
liceo
di lei, sotto il manto delle foglie laminate di rosse fiamme del
giardino molto francese della loro scuola privata, dove la tassa per
l’iscrizione era alta per far dare un tono alle famiglie che
potevano permettersela e non era indice di un’educazione
più raffinata. Si era limitato a osservarla in
quell’occasione, incuriosito dalla lingua lunga con cui aveva
replicato pacata solo nel tono a chi l’aveva infastidita,
ignorando deliberatamente che si trattava del figlio di qualcuno di
importante del quale non le interessava. L’avevano
minacciata,
non si era scomposta di mezzo millimetro lasciando intessuto sulle
propria labbra carnose un sorriso deliziosamente menefreghista,
rimarcando la propria posizione non incline a sottomissione. Il suo
aguzzino accompagnato dalla banda di leccapiedi avevano provato ad
alzare le mani e Séline si era dimostrata più
scaltra,
alzando la voce per attirare in un’affermazione fuori
contesto,
ma talmente ambigua da attirare l’attenzione di chiunque
fosse
nei dintorni che fino a quel momento avevano ignorato le loro frasi
pronunciate sottotono.
Quando le avevano dato della bugiarda, tirando i nervi delle braccia
fino a far conficcare nei propri palmi le unghie per la rabbia e
digrignando i denti come belve messe dietro le sbarre,
Séline
aveva marcato il proprio sorriso con una dolcezza rinnovata prima di
concludere la propria recita. «Non ha importanza se sia la
verità o meno, ma che sia credibile. Tra voi, un gruppetto
di
arroganti e villani figli di papà, e me, una ragazza
giudiziosa
dotata di un curriculum impeccabile, a chi darebbero retta? È tutta una questione
di apparenza, alla fin fine.»
L’aveva seguita, aveva scoperto dove abitava e aveva cambiato
la
sua strada per carpire altro dal manto di luce eccessivamente accecante
che emanava – troppo
brillante per essere vera, troppo candida per essere possibile.
L’aveva conosciuta di persona poco alla volta, quando
Séline aveva cominciato a salutarlo durante il tragitto
verso la
scuola, stufa di rimanere in silenzio a osservarlo di sottecchi
camminare a pochi passi da lei ogni giorno. Loïc Odilon aveva
compiuto il resto, d’altronde aveva atteso unicamente di non
essere lui a protrarsi in ulteriori manovre sottili di avvicinamento
alla sua figura.
Era stato fatto tutto per curiosità e per uno strano senso
di
déjà vu che lei insinuava sotto la sua pelle,
come
rimembranze di qualcosa andato perduto di cui avvertiva solo gli echi
moribondi. Poca importanza possedeva, tuttavia, una simile impressione
e più ne aveva quella che Séline gli aveva
realmente
lasciato impresso, dimostrandosi una giovane ragazza decisamente al di
là delle aspettative, all’altezza del livello
assai
elevato che Loïc si proponeva avessero gli appartenenti a una
cerchia stretta di amici. Per tale ragione aveva preso a prestarle i
propri libri, perché lei poteva meritarsi quello che per lui
era
un totale atto di fede e considerazione – cedere a qualcun
altro
i propri volumi era qualcosa che mai aveva provato a compiere, nemmeno
a sua sorella minore aveva concesso un simile privilegio tanta cura ne
aveva.
«Mitologia, ho deciso di incrementare la mia conoscenza al
riguardo» rispose Séline allungando il braccio in
avanti
per mostrare la copertina del volume antico. «Quella norrena
per
la precisione. Sai, ho fatto uno strano sogno al riguardo e allora mi
sono messa a cercare qualcosa spinta dalla
curiosità»,
arricciò il naso nel ricordare le immagini di ciò
che le
aveva animato la notte durante il sonno, ormai sfuocate rispetto a
qualche ora prima, ma ancora impresse nella retina a tenerle vivo
l’interesse per approfondire l’argomento. I nomi
degli dei
che avevano preso vita nel mondo onirico le si erano impresse a fuoco,
rimanendo a risuonare come echi di onde nelle sue orecchie per poterle
permettere di essere precisa nelle sue ricerche.
«Ti fai troppo coinvolgere dalle storie dei supereroi che
dilagano sui notiziari, se ti ritrovi a sognare di guerre tra
divinità» la prese in giro Loïc,
sventolandole sotto
il naso il quotidiano odierno sulla cui prima pagina vi era la foto dei
combattimenti avvenuti a New York il giorno precedente – una nuova minaccia e vecchi esiti,
grazie all’intervento combinato di diversi supereroi. Scontri
ormai entrati nei calcoli quotidiani, non destavano più
grandi
perplessità quanto in passato, ma continuavano ad incutere
un
certo grado di preoccupazione per chi abitava nelle zone a maggior
rischio – e almeno su quel punto, Loïc poteva tirare
un
sospiro di sollievo dato che Parigi non era nelle mete preferite delle
minacce terrestri o cosmiche.
«Più pezzi delle loro vite, soprattutto di un paio
di
loro. Mi sono sembrate così vivide nella mia mente, come
fosse
un film in cui ero finita. Quando mi sono svegliata dovevo
leggere di loro e così mi sono messa a spulciare nella
libreria
di mio padre fino a quando non ho trovato questo»
ignorò
deliberatamente la provocazione di Loïc, preferendo continuare
nel
proprio discorso piuttosto che dargliela vinta, così fece
tamburellare le dita della mano che non sorreggeva il libro sulla
copertina illustrata, rovinata dal tempo – scolorita, ma
ancora
chiara nei contorni della figura protagonista.
«Quello che dio sarebbe?» chiese assecondandola,
ghignando
nel notare con quanta delicatezza riuscisse a ignorarlo quando non
apprezzava le sue uscite costruite apposta per indispettirla. Era adorabile Séline
nel suo essere esente da passioni tumultuose, bilanciava le proprie,
metteva equilibrio nella sua anima scombussolata riportando alla quiete
un mare tartassato da tempeste perenni. Lei, inaspettatamente,
sembrava essere stata creata per collocarsi perfettamente al proprio
fianco come se fossero stati due pezzi completamenti –
incastrati
senza lasciare alcuna sbavatura.
«Loki, Dio del Caos e del Male, che impugna la spada forgiata
da
se stesso, la Lævatein, con la quale porterà il
Ragnarok» spiegò con una venatura di entusiasmo
brillante
in contrasto con il soggetto a cui si riferiva, ma Loïc aveva
smesso di chiedersi come potesse avere tante contraddizioni per una
persona sola e aveva semplicemente preso a collezionarle in un albo
immaginario quanto segreto.
«Sei decisamente
bizzarra» osservò senza voler aggiungere altro
– e
anche se avesse voluto, ormai erano giunti alla struttura scolastica
talmente puntualmente da aver appena il tempo di un fugace saluto prima
di dirigersi entrambi nelle rispettive classi.
Per quanto l’avesse velatamente presa in giro per essersi
svegliata con divinità norrene nella mente, la mitologia era
uno
dei campi letterali preferiti di Loïc. Le religioni pagane
erano
ricche di rappresentazioni, di episodi e di figure che per quanto
divine erano macchiate di così tanti peccati da sembrare
più umani degli stessi umani, sontuosamente legati a
passioni
troppo intense per poter essere represse e da desideri rancorosi
incrostanti in profondità nelle loro anime per essere
dimenticati. In un certo senso era persino soddisfatto che anche
Séline si fosse avvicinata ad essa, ma dall’altra
parte
provava un moto di fastidio ridicolo nel pensare che fosse giunta addirittura
a sognarli da quanto ne era rimasta affascinata – troppe
chiacchiere, d’altronde si facevano attorno ai super uomini che
salvavano la Terra da super
cattivi
creati da loro stessi, che ciclicamente tornavano. Negli anni
precedenti alla loro nascita, Loïc sapeva che vi era stato
anche
un eroe a protezione della Terra che era proprio quel dio norreno del
tuono – o almeno così si credeva e
d’altronde non
c’era nessuno a poter smentire. Era scomparso, come gli altri
dei
al suo seguito, improvvisamente – dietro di sé vi
erano le
onde d’urto di una guerra combattuta in un qualche Regno
lontano,
reflussi di un male troppo intenso per poter essere semplicemente
sconfitto e che su di loro era giunto in miasmi malevoli. Poi, più nulla.
Immaginava l’acre odore di terra bruciata, macerie e carne
arsa
da fiamme implacabili, ramisti al metallico sapore del sangue con un
retrogusto eccessivamente dolciastro – da voltastomaco. E non
gli
era difficile, nella noia dell’ora di greco, figurarsi anche
quante altre battaglie prima della più oscura di tutte
fossero
state combattute e di quante il Dio del Caos e del Male fosse il
responsabile più o meno indirettamente. Nemmeno gli era
difficile ricreare con la fantasia le innumerevoli volte in cui le dita
di sua moglie si fossero dovute adoperare per curare ogni lacerazione,
sporcandosi ancora più del liquido vermiglio fuoriuscente da
esse di quanto già non ne fosse ricoperta per la sola colpa
di
amare una persona da un cuore tanto nefando.
Nella pioggia di raggi d’argento, celati nella loro dimora
lontana da tutti e retta in una terra in cui erano le ombre a dominare
ogni angolo, relegando la luce limpida a eccezioni rare, Lady Sigyn
svestiva gli abiti della guerriera per potersi cimentare nella cura
delle ferite di Loki. Il dio aveva smesso di lamentarsi
dell’inutilità di un simile spreco di tempo secoli
prima,
vinto dalla testardaggine cocciuta dalla donna e insieme per lasciarle
prendere famigliarità, ogni volta, che era tornato vivo
ancora,
da lei – per lei.
«Ti dedichi alle mie cure con infaticabile
dedizione»,
pronunciò tale frase con le dita a scivolare tra le ciocche
pallide, sfuggite all’intreccio della treccia a contornarle
il
viso, per poterle sollevare il mento in modo da incrociare le iridi di
tetre ombre di Sigyn. Le rughe d’espressione formate dalla
contrazione dei lineamenti erano di rabbia e preoccupazione, un
miscuglio in cui l’amara tristezza rimaneva in sottofondo, ma
che
non sfuggì all’attenzione di Loki.
«Avete mai pensato che non mi piaccia affatto vedervi
ricoperto
di tutte queste ferite?» domandò Sigyn, mai stanca
di
essere al suo fianco, eternamente fedele in qualsiasi circostanza, ma
non per questo esente dall’avere il cuore afflitto dalla
sofferenza ogni volta che si ritrovava a dovergli rimarginare
squarciature nella sua carne e sciacquare via le scie scarlatte. E
anche se Loki faceva altrettanto con lei, non vi era molta consolazione
se non quella di vivere nel medesimo dolore – insieme.
«So che ti strazia dover sopportare la vista di tutto questo
sangue ricoprirmi, ma sarebbe maggiormente tale sentimento se non fossi
l’uomo che sono fino in fondo e ciò comporta non
essere
sempre nella mia forma migliore» asserì ricercando
e
trovando le labbra della moglie, nel tentativo di sciacquare via parte
di quel silente rimprovero che gli stava muovendo più per
egoismo che per reale recriminazione.
Sigyn, come aveva imparato a comprendere secoli prima, era una creatura
che galleggiava sul mondo senza appigli ad esso, incurante delle sue
sorti e con unicamente lui, Loki, a tenerla legata a qualcosa di
importante a un’esistenza che altrimenti avrebbe bruciato via
nell’esercito meramente per mostrare una forza priva di
scopo.
Per tale ragione, di tanto in tanto, i suoi occhi si incupivano nella
comprensione dell’evidenza che la loro felicità
era
dettata esclusivamente dal poter condividere sorti infauste e non da
una quotidianità regolare – non che in
realtà a
Sigyn importasse il modo, ma era l’afflizione angosciata che
scorgeva in lui a renderla vittima di pensieri cupi.
La sua anima mai era stata preda della frustrazione di cui invece era
quella di Loki, mai avrebbe potuto provare l'insoddisfazione al quale
era stato sottoposto il proprio spirito – tortura lenta,
lacerazioni inferte con mano invisibile e ferma, ad alimentare un
malcontento incapace di placarsi, abbeverata da un rancore il cui nero
rendeva più chiari anche i remoti angoli della galassia.
Sigyn
non era fatta per macerare nei propri tormenti, aveva la tempra di chi
non si perde nelle proprie passioni – tranne in quella per
lui
– ed era proprio per tale sua abilità che era in
grado di
lenire il dolore di ferite astratte con le mani ad accompagnare i baci
di cui lo ricopriva.
E quando sprofondava con lei, anche quando ogni suo piano era andato in
frantumi e la sorte si era nuovamente rivoltata contro di lui, bastava
perdersi nel profumo dei capelli color delle stelle e nelle curve del
suo corpo per dimenticare almeno per un po’ il buco nero che
portava nel petto. La sua umanità, tutto ciò che
di puro
rimaneva nella sua vita, era squisitamente merito suo e per questo la
venerava silenziosamente, a gesti e sussurri appena udibili mormorati
davanti alle sue orecchie, come
la regina che sarebbe dovuta essere al proprio fianco
– al fianco
di un re, del più grande di tutti.
Non l’avrebbe mai ingannata affermando che ciò che
desiderava raggiungere era per lei, sarebbe stata una menzogna alla
quale non avrebbe mai creduto, ma una parte di lui – piccola
e
misera – ambiva a vederla ricoperta degli onori che meritava
con
febbrile impazienza. Sarebbe potuta essere la regina più
splendida di tutti i Nove Regni, meravigliosa portatrice di
beltà come lo era di morte sul campo di battaglia, e al suo
fianco sarebbe perpetuamente rimasta l’unica di essere alla
propria altezza. L’aveva scelta per ciò,
d’altronde,
perché era la sola degna di lui stesso e ne era geloso,
egoista
e possessivo – un amore distorto, malato e contorto, ma pur
comunque amore.
«Lo so, ma ciò non implica conseguentemente che
dovrebbe
piacermi ugualmente» pronunciò con le labbra a
sfiorare
ancora quelle del marito e la fronte ad appoggiarsi sulla sua, occhi
chiusi ad assaporarne il contatto, il profumo, il respiro a mischiarsi
al proprio.
«Cercavo di alleviare le tue pene, mia sposa, e di strapparti
via l’aria cruciata che ti affligge.»
«Come sempre, cercate semplicemente ciò che vi
farebbe
star meglio» mormorò Sigyn sorridendo, priva di
qualsiasi
forma di rimprovero, in una semplice considerazione dolce nelle sue
pieghe – non importava come, l’amore
che le donava Loki era l’unico del quale voleva abbeverarsi,
anche se avrebbe saputo eternamente del sangue più scarlatto.
Cremisi era il colore sgargiante dell’insegna del nuovo pub
aperto sulla strada vicino a una delle poche librerie ancora aperte, in
cui si recavano solitamente Loïc e Séline. Il
sapore dei
libri stampati su carta non era possibile da essere ricreato
digitalmente, quindi per quanto non importasse il come si leggevano
storie, avendo soldi a disposizione non si facevano mancare rilegature
vintage da collezionare, per sfogliare con cura e adorare ogni piccola
lettera d’inchiostro vero. La loro preferita aveva una porta
d’ingresso tanto piccola da lasciar quasi pensare si potesse
trattare di un appartamento e un’insegna talmente scolorita
che
si capiva solo per chi già conosceva il significato delle
parole, e al suo interno era un ammasso di scaffali su cui i volumi
erano stati accatastati come i loro contenitori. Spirali di legno in
cui la luce giungeva fioca da vecchie lampade i cui vetri non venivano
spolverati da ormai diversi anni, permeando l’intera libreria
in
una penombra perpetua – un crepuscolo immortale.
«Hai programmi per il fine settimana?»
domandò
Loïc con noncuranza, prestando volutamente la propria
attenzione
maggiormente alla copertina del libro tra le proprie lunghe dita
– falangi sottili, affusolate, curate per produrre movimenti
ammalianti –, piuttosto che a lei.
«Non ne ho mai se non con te» rispose
Séline
tranquillamente, giocando la partita al contrario rispetto a lui. Se
Loïc prediligeva non enfatizzare i propri sentimenti,
lasciandoli
tra le righe in modo che fosse lei sola a coglierli, tradurli e
trattenerli a sé, al contrario Séline li serviva
senza
infiocchettature, con la normalità placida della
costatazione
fine a se stessa. Non esaltava, ma non nascondeva – mostrava
priva di malizia, di eccessi e di esaltazioni.
«Però mi
sarebbe piaciuto andare al cinema, è uscito un nuovo film
che mi
piacerebbe vedere.»
«Basta che non sia di supereroi e
divinità»
acconsentì con sprezzante battuta, posizionandosi dietro di
lei
per poterle passare il libro che cercava di raggiungere sugli scaffali
più in alto. Erano una ventina i centimetri di differenza
tra
loro – arrotondando per difetto – e non erano
strettamente
dovuti unicamente alla differenza di tre anni
d’età,
probabilmente sarebbero rimasti tali anche con gli anni successivi.
Aveva ancora la fanciullezza attaccata alla pelle, Séline, e
l’adolescenza risplendeva di una luce vivida, ma vi erano
tracce
marcate di una maturità incredibilmente sviluppata, una
profondità a cui pochi giungevano con la cresciuta e che
Loïc adorava studiare nei suoi mutamenti.
Per quanto nessuno dei due ne avesse mai discusso, non vi era alcun
dubbio per entrambi che anche con l’inizio
dell’università di lui l’anno successivo
la loro
relazione non avrebbe subito alcun problema, perché
Séline era scevra da gelosie ed egoismi mentre Loïc
aveva
poco interesse a disposizione per l’umanità e
l’aveva riversato tutto su di lei.
«Ti hanno fatto un torto così grande?»
scherzò, ringraziandolo con un cenno del capo.
«Monopolizzano le nostre conversazioni da un
po’.»
«In realtà ne ho parlato solo ieri, oggi sei tu ad
aver tirato fuori il discorso.»
«Allora rimettiamolo via. Ti passo a prendere alle venti in
punto, sii puntuale. Ti porto fuori a cena prima del cinema»,
suonava molto più simile a un ordine rispetto a una
proposta, e
quando se ne avvide decise che una rifinitura meno dura non avrebbe in
alcun modo compromesso la sua posizione sempre tanto distaccata
–
anche nelle manifestazioni d’affetto, ricoperte di uno strato
di
gelida brina perenne. «Se è di tuo gradimento
uscire,
ovviamente.»
«Con te lo
è a prescindere»
rispose con gli occhi troppo impegnai a mangiarsi via le parole delle
pagine in suo possesso per badagli anche con la vista.
Non le sarebbe bastata una vita per ringraziare Loïc di averla
portata in quella libreria all’inizio del suo primo anno di
liceo, troppe storie aveva scoperto lì dentro. La libreria
di
suo padre era per la maggior parte costituita da trattati, da testi
storici, da saggi e riduceva veramente troppo pochi ripiani ai romanzi
verso i quali Séline era maggiormente attratta –
anche se
doveva ringraziare la completezza di quella raccolta per aver avuto
modo di trovare i testi riguardante la mitologia. Da quando aveva
iniziato a frequentare Loïc, aveva una libreria tutta per
sé, nella propria camera, e che aveva incredibilmente
già
riempito abbondantemente, con una dovizia e una voracità
incredibile – e anche se comprava più libri di
quanti mai
ne avrebbe potuti leggere, poco importava, guardarli era già
una
soddisfazione nel pensare che un giorno finalmente le propria dita
avrebbero potuto scorrere tra quelle righe, nelle quali dissetarsi.
Storse risentita il naso, in una lieve piega di irritazione, quando la
sera si ritrovò in camera di Loïc dopo la visione
del film
e poté osservare quanto incredibilmente più ampia
fosse
la raccolta dei suoi libri – e come da lui specificato,
quelli
erano i suoi preferiti, perché gli altri risiedevano nella
biblioteca al piano terra dell’immensa villa Odilon. Enorme,
la
stanza del ragazzo presentava praticamente quasi esclusivamente la
collezione di volumi come tocco personale, visti i muri completamente
sgombri e la scrivania ripulita da qualsiasi effetto personale che non
fosse una vecchia foto della madre scomparsa anni prima. Sul comodino
accanto al letto matrimoniale, invece, tra la bijou e una pila ordinata
di quattro libri tutti iniziati, vi era un’istantanea di loro
due
scattata qualche mese precedente.
La prese tra le mani per poter rendersi effettivamente conto che era
reale, non faceva parte di una qualche strana allucinazione nata per
imprecisati motivi, e si ritrovò a incurvare le labbra in
un’esplosione di dolcezza abbagliante agli occhi di
Loïc,
impossibile da descrivere per quanta meravigliosa felicità
vi
era stata infilata dentro – scintille calde, accecanti, per
lui.
Gliela sfilò, facendola scorrere tra le piccole falangi,
unicamente per poter avere su di sé tutta la sua attenzione
mentre la baciava, chiedendo silenziosamente fino a quale punto poteva
spingere le proprie di dita sotto il tessuto dei suoi vestiti. Il
sogghigno malizioso che si insinuò sulle labbra sottili di
Loïc nel non incontrare resistenza, fu soltanto un preludio,
una
promessa intrigante difficilmente respingibile e Séline non
aveva alcuna intenzione di prendere in considerazione una tale
possibilità.
Quando si sentì precipitare sul materasso, rise con
vibrazioni
tremanti per l’ignoto davanti a lei a mischiarsi con la
curiosità febbricitante. Per quanto si sentisse con i gesti
impacciati nel sfilarsi e sfilare gli abiti, per quanto
avvampò
di imbarazzo nel ritrovarsi nuda e per quanto non avesse la minima
esperienza per poter davvero prendere una posizione dominante anche
solo per gioco, si ritrovò con maggiore disinvoltura di
quanta
se ne sarebbe data. Lascò solchi rossi sulla pelle di
Loïc
nell’aggrapparsi alle sue spalle, nel cercare nella sua
schiena
un qualche punto saldo grazie al quale assecondare i suoi movimenti. Si
sentì bruciare, prima di ardere tra dolore e piacere,
ansimando
con il sudore a bagnare le loro pelli, mescolandosi tra loro come i
loro corpi. Abbozzati, i suoi gesti venivano guidati per
metà
dall’istinto e per l’altra dalle mani di
Loïc, ma non
si preoccupò delle sbavature, delle imperfezioni a rendere
le
sue movenze ancora schizzi di ciò che l’esperienza
avrebbe
reso impeccabili – vi sarebbe stato il tempo, e sarebbe
venuto il
momento in cui avrebbe saputo lei dettare i propri ritmi con
provocatoria inflessibilità.
Con il corpo sfibrato da ogni energia, estinta, si stese sul fianco con
gli occhi chiusi a cercare di regolarizzare il respiro –
l’avidità di ossigeno dei polmoni rifletteva
un’ispirazione ed espirazione affannosa, disperata nella loro
ricerca di nutrimento. Il sonno si stava distendendo su di lei mentre
avvertiva le lenzuola coprirla, e percepì il calore del
corpo di
Loïc stendersi accanto a lei, abbracciandola nel silenzio
della
camera privo di qualsiasi necessità di porre domane o
ricevere
risposte. Solo un bacio avvertì depositarsi tra i propri
capelli
prima di perdere contatto con la realtà, ritrovandosi in un
tempo passato al quale – nel sogno – sentiva di
appartenere.
Vi era la stessa semioscurità di sempre, alleggerita dai
filamenti di fiotti argentati cadenti dalle stelle, puntini preziosi
infissi nella seta scura del cielo a far da corona e gioielli alle lune
grandiosamente sovrane nella notte. La brezza lieve solcava le curve
della città dormiente, incatenata a una magia di
immobilità in cui tutto appariva eterno – fissato
in
quell’esatto momento per l'eternità nello spazio.
I canti
delle civette accompagnavano i refoli del vento creando melodie
sinistre nel loro passaggio tra gli infissi e in qualsiasi crepatura a
loro disposizione, in una coralità arcaica –
meravigliosa
nell’impossibilità di discernerne ogni minuzioso
elemento
da cui era composta.
Seduta sul terrazzo, con un libro tra le mani e la tremolante fiamma di
una candela a rischiararle la vista, Lady Sigyn perseverava a leggere
nonostante l’ora tarda, decisa a non tornare nel proprio
letto
dato che la stanchezza pareva rifiutarsi di sfociare nel riposo.
Preferiva continuare per scoprire come continuava il romanzo,
rivelandone le evoluzioni e vivendo le vite dei protagonisti per
dimenticarsi per un attimo della propria per semplice capriccio
–
non vi era nulla che avrebbe modificato della sua, ogni particolare,
anche quello più misero e straziante, erano il simbolo del
suo
legame al proprio sposo e niente promessa di pura felicità,
scevra da sofferenza, avrebbe potuto suscitare in lei maggior desiderio
di quello di rimanere al fianco di Loki.
«La nostra camera da letto non è più di
tuo
gradimento, mia sposa?» giunse per prima la sua voce serica,
come
da consuetudine modulata su un tono mellifluo, ricolmo di zone in cui
gli abissi su cui si ergeva si percepivano, ma insieme ricca di un
fascino che soltanto il Dio degli Inganni possedeva.
«Affatto. Ma stanotte il sonno non è voluto
giungere,
così ho pensato che leggere al chiaro di luna fosse
un’attività più produttiva che
continuare a
rigirarmi tra le coperte» si rivolse a lui con la dolcezza
quieta
con cui era stata forgiata, senza domandare cosa l’avesse
trattenuto fino a tardi lontano da lei. Nonostante Loki conoscesse bene
quanto eccellentemente Lady Sigyn potesse adoperarsi per lui, alcuni
compiti poteva svolgerli unicamente lui in persona – e la
considerazione che serbava per sua moglie, come lei ben sapeva, era
tanto alta da non avere alcuna necessità di ricercare
spiegazioni, perché lui spontaneamente gliene avrebbe
fornite
con il tempo da sé prestabilito.
«È strano vederti priva di sonno, solitamente sono
io a
non concedere che qualche ora al riposo» osservò
porgendogli una mano in un invito silente ad alzarsi, prontamente
accolto.
«Vi ho visto in molte situazioni, ma quella del dormire mi
manca
nonostante i molti secoli di convivenza» ridacchiò
appena,
abbassando lievemente le palpebre nel mentre Loki si chinava su di lei
per depositarle un bacio sulla fronte, passandole la mano libera sulla
schiena per trascinarla contro di sé – assetato
del sapore
del calore del corpo di sua moglie, del profumo dei suoi capelli, dalla
morbidezza delle sue labbra, dei tocchi ristoratori delle sue dita.
«Puoi tornare con me in camera, provare a farmi faticare e
magari
alla fine sarò talmente sfinito da scivolare prima di te nei
sogni» propose con note di malizia accentuate dal movimento
delle
proprie falangi a percorrerle la spina dorsale, schiacciandola contro
se stesso e scivolando sempre più in basso, arrivando a
delineare la curva dei suoi glutei per poi scivolare di lato,
ricercando l’orlo della veste lungo la coscia.
«Mi piacerebbe molto scoprire cosa sognate, anche di
più
che guardarvi mentre li create» mormorò Lady
Sigyn, con le
braccia attorno al collo dell’uomo e le punte dei piedi a
slanciarla di qualche centimetro verso l’alto per potersi
rispecchiare nei suoi occhi. Erano più neri della notte i
capelli di Loki, creati dalle tenebre stesse per quanto risultassero
intensamente d’ossidiana, e le sottili mani di Lady Sigyn
adoravano passare tra di essi, scorrendoli e immergendosi come se fosse
stato un mare d’inchiostro. Depose baci sul suo volto con la
medesima morbidezza con la quale i fiocchi di neve cospargevano il
mondo, avvertendo le scie lasciate lungo la propria pelle dalle dita di
Loki negli attimi in cui inspirava il suo odore.
«Sogno solo di una cosa da molto tempo, non ricordo nemmeno
come
fosse avere sogni di diversi», era una mezza
verità
– o una mezza bugia. Sigyn era perpetuamente al suo fianco
anche
quando non era visibile o lontana, che fosse incosciente o vigile,
ovunque ed eternamente perché erano anime affine, destinate
a
intrecciarsi tra di loro anche quando avrebbero avuto altre vite. E lei
lo sapeva che non stava del tutto costruendole una favola con la quale
scioglierle il cuore, non dubitava di essere nel suo mondo onirico,
semplicemente aveva la certezza che in essi non vi era dolcezza e
romanticismo – come nella loro vita. «Vieni,
l’alba
è ancora lontana e c’è più
di un modo per
rigirarsi nel letto», e nelle parole di Loki vi lesse la
taciuta
promessa di un amore passionale e di un sonno ristoratore tra le sue
braccia, almeno fino a quando il mondo avrebbe perseverato a tenersi
nelle tenebre a cui entrambi appartenevano.
Nell’oscurità in cui i corpi di Loki e Lady Sigyn
si
intrecciarono prima di offuscarsi, perdendosi nelle nebbie del conscio
che ritornava padrone della mente, relegando i reflussi di altre
esistenze tramutati in sogni a tremolanti silhouette, troppo poco
definite per poter essere trattenute dalla memoria, Séline
si
mosse di poco per assestarsi meglio nella posizione nella quale si era
addormentata.
A volte, Séline fingeva di continuare a dormire solo per
poter
rubare attimi di tenerezza da Loïc, perché soltanto
quando
se ne stava stesa su un fianco, con la schiena schiacciata contro il
suo petto e il respiro regolare di un’addormentata beata, lui
si
lasciava sfuggire più di qualche carezza delicata. Muoveva
le
falangi delle proprie mani con lentezza, scorrendo sulla pelle della
ragazza con esasperante pacatezza, cercando di assimilare ogni
sensazione che il contatto tra di loro gli insinuava nella mente e
nell’anima. C’era amore nei suoi gesti, ma
c’era
anche la curiosità di comprendere come lei riuscisse a
filtrare
tanto bene dentro di lui – acqua a permeare le sottili crepe
della roccia, giungendo fino al suo cuore e scavando vie con la
tranquillità della cocciutaggine.
La osservava immersa nei suoi sogni onirici e cercava di immaginare in
quali strani scenari fosse scivolata, mentre passava le proprie dita
tra i ricci biondi di Séline, meditando su come facessero a
formare sdruccioli dall’aspetto ipnotico. Li aveva sempre
trovati
inspiegabilmente attraenti, fin dalla prima volta in cui
l’aveva
notata, come se fossero gemme preziose e non semplici capelli
–
fili di luce pura, liquida, visti i riflessi scintillanti. Come se essi
non le appartenessero davvero e fossero unicamente un regalo fatto a
lui stesso, su misura per i propri gusti e a suo discrezionale utilizzo
– un capriccio per sé. Nel perdersi nella loro
contemplazione, Loïc provava una vaga malinconia sotto oceani
di
altri emozioni alla quali non attribuiva deliberatamente un nome, ma a
quello strato che ricopriva il fondo di tutto quanto, invece, non
riusciva a impedirsi di classificarla. Una nostalgia,
quasi un riaffiorare forse di un passato di cui non serbava
più
memorie ma solo sensazioni, e tra di esse vi era quella che quei
capelli – esattamente
quelli di Séline e nient’altro
– gli trasmetteva.
Era un suo segreto, non ne avrebbe mai fatto parola nemmeno a lei,
nello stesso modo in cui Séline non avrebbe mai infranto la
finzione del suo sonno o rivelato che quella via di estorcergli carezza
le apparisse naturale, quotidiano, fin dalla prima volta in cui si era
cimentata nella sua recita. Aveva perseverato a mantenere
l’aspetto dell’addormentata con la scioltezza con
la quale
respirava, ritrovandosi nella scia di sentimenti nuovi e insieme
già provati – riportati a riva da onde sconosciute
appartenenti a mondi distrutti.
Si perse in quel mare di percezioni delicate fuse insieme a rimembranze
ovattate in una coltre nebulosa, ritrovandosi a sprofondare nuovamente
nei sogni nonostante una parte di se stessa desiderasse rimanere ancora
vigile, per cibarsi di nuove carezze. Era la prima volta che rimaneva a
dormire a casa di Loïc ed era stata anche la prima in cui
avevano
fatto l’amore, proprio per questo non voleva lasciarsi
sfuggire
niente, imprimendo dentro di sé le emozioni nelle quali si
sentiva avviluppata, stordita. Una felicità atavica,
dimenticata, si era ramificata lentamente dentro di lei da quando lo
aveva incrociato, crescendo con la naturalezza della consapevolezza che
era esattamente in quel modo che le loro vite si sarebbero dovute
confondere – diventandone una sola.
Non era abituato a dormire molto Loïc, una manciata di ore a
notte, e proprio per tale abitudine rimase per la maggior parte del
proprio tempo a osservare Séline risposare al proprio
fianco.
Era qualcosa si assolutamente semplice, uno scorrere del tempo fluido,
cristallino nelle sue pieghe, rivelandosi in uno sciabordio simile a un
cullare lieve, in mezzo al quale Loïc si era ritrovato a
percepire
una quiete fino a quel momento sconosciuta. Allontanò i
propri
occhi smeraldini da lei solo quando i primi raggi dell’alba
cominciarono a rischiarare la notte, scemando in una fioca coltre
rosata nella camera, e li spostò verso la sveglia poggiata
sul
comodino vicino alla pila di libri – le lancette segnavano le
sette meno qualche minuti.
Si mosse a rilento nell’allontanarsi dal corpo di
Séline,
spostando il braccio sul quale si era addormentata porgendo
l’attenzione necessaria a scostarla senza ridestarla.
Lasciò le coperte scure a ricoprirla, esaltando ancora
maggiormente la coltre di fili spaventosamente scoloriti dei suoi
capelli – luce opaca condensata, resa prima liquida e poi
solida
per condensarsi nei suoi ricci. Alzando al soffitto le braccia per
stirare i muscoli, ogni suo gesto fu intriso di silenzio puro per
evitare di disturbare i sogni di Séline mentre si cambiava,
prima di uscire dalla stanza dopo averle rivolto un ultimo sguardo
imperscrutabile.
Fu la sottile brezza insinuatasi nella fessura lasciata aperta della
finestra ad accarezzare la pelle della giovane, una fredda mano
invisibile a passare su di lei, attirandola nuovamente nel mondo reale
con morbidezza, perseverando in quel proprio scorrere fino a quando
ogni residuo di sogno fu soffiato via. Trattenne le palpebre chiuse
nonostante si fosse ormai ridestata, girandosi su se stessa con il
torpore dei pensieri ancora a trattenerla in un mondo grigio nel quale
non ricordava dove si fosse addormentata. Quando ricordò i
morsi
in mezzo ai baci, le dita lunghe di Loïc a scorrerle sotto il
vestito – scavando tra i risvolti dei tessuti per trovarla,
attirarla a sé –, la scoperta dei rispettivi corpi
condite
da gemiti e risate trattenute malamente, furono le sue mani a tastare
la parte del letto sul quale ricordava di aver avvertito il calore di
Loïc ad accompagnarla nel sonno.
Quando avvertì la sua mancanza aprì finalmente
gli occhi,
con la fatica arrancante della disabitudine alla luce, per poter
afferrare concretamente di essere rimasta l’unica ormai tra
le
mura spoglie della stanza. Con i ricci arruffati, fece leva sul gomito
per alzarsi a sedere avvertendo le lenzuola scivolarle via dal corpo,
rimandendo così esposta all’ossigeno fresco della
mattina.
Dalla strada il cinguettio degli uccelli si avvertiva come unico
sentore di vita, lasciando intendere come in quel sabato mattina ancora
vi fosse una certa difficoltà nella città intera
a
mettersi in modo.
Trovò i propri abiti piegati con cura sulla sedia della
scrivania – superficie occupata da pochi oggetti,
ordinatamente
disposti in un’ambiente asettico, impersonale, in cui la
freddezza rispecchiava forse il mondo con cui Loïc sentiva la
permanenza in quella casa. Rivolse una fugace attenzione alla libreria
che occupava buona parte di un’intera parete, riuscendo anche
in
quel lieve frangente di tempo a carpire il senso di un ordine di
predisposizione dei vari titoli – vagamente per genere,
più marcatamente per gusto evidenziando
l’egocentrismo di
chi aveva deciso la loro sistemazione.
Nell’aria rarefatta della mattina silente, con la quiete a
spargersi in onde indolenti su una spiaggia invisibile della sua anima,
portando con sé il lieve disappunto per essere rimasta sola
a
fondersi con una malinconia alla quale preferiva non dar spazio, si
rivestì con l’intenzione di scivolare via dalla
villa come
fosse stata una ladra. Un po’ per sfida, un po’ per
scherzo
e per la maggior parte per occupare la propria mente con
l’elaborazione di una discesa lungo la facciata della
sontuosa
residenza degli Odilon, a impedirle di riflettere su un risveglio che
aveva il retrogusto dell’amara disillusione.
«Stai cercando di sgattaiolare fuori dalla finestra o
è
solo una mia impressione?» domandò la voce di
Loïc,
nei cui risvolti la perplessità era colorata da sfumature di
divertimento nel scorgerla intenta nello sporgersi eccessivamente fuori
dalla finestra della propria camera. Il ghigno sulle labbra sottili del
ragazzo si ampliò quando la osservò voltarsi di
scatto,
affrettandosi a nascondere in profondità la sorpresa di cui
i
suoi lineamenti per un attimo furono ricolmi ed estraendo come per
incanto una freschezza disinvoltura sporcata appena di nervosismo.
«Mi sembrava ci fosse un gatto intrappolato nella
grondaia», era un’attrice quasi perfetta, ma aveva
il tempo
per livellare le smagliature che lo sguardo di Loïc scorgevano
– lui, così fin troppo abituato a vivere in un
mondo fatto
di apparenze fasulle, frasi di circostanza, bugie a celare
verità di cui non voleva mettere a parte nessuno o quasi.
«Buona, ma puoi fare di meglio» replicò
avvicinandosi a Séline per tirarla indietro, riportandola al
centro della stanza, prendendola semplicemente per mano nel guidarla in
movimenti privi di sbavature – signorile qualsiasi fosse il
gesto
che compieva, elegantemente raffinata, come lui stesso, ma con le curve
arrotondate prive di spigoli dolorosi. Lei era un manto liscio su cui
le increspature si affievolivano, mantenendola in uno stato di
pacatezza perpetua in cui tutto pareva confondersi, mischiarsi, ridursi
a nient’altro che un lago privo di imperfezioni – ma era un trucco, un inganno
che Loïc aveva risolto, e cominciato ad amare.
«Ero uscito a prendere la colazione, ma aspetta se preferisci
farti una doccia prima» continuò alzando appena il
sacchetto che teneva stretto tra le altre dita.
Annuì appena Séline, segretamente maledicendosi
per
essere forse ancora eccessivamente una ragazzina con idee sciocche a
prendere il sopravvento in troppe circostanze, sciogliendo invece nella
notte racchiusa nelle sue iridi la tranquillità con cui ora
le
sembrava costruita la mattina. Si alzò sulle punte dei
piedi,
spingendosi ulteriormente con la mano appoggiata alla spalla di
Loïc per spingersi in su di una manciata centimetri, fino a
sfiorargli con le labbra la guancia prima di scivolare verso il bagno
– passi privi di suono, lievi come carezze.
«Ehi, Loïc», lo richiamò
voltandosi di tre
quarti, appoggiando una mano all’infisso della porta, con un
sorriso dipinto con pennellate gentili rivolte unicamente a lui.
«Buongiorno.»
Le dita di Séline scivolarono via per ultime dalla sua
visuale,
sparendo dietro l’angolo dell’ingresso del bagno
come una
brezza lieve, una carezza a lui rivolta virtualmente – una
movenza intrisa come sempre di una nobiltà filtrata in
profondità, riuscendo a rimanere cosparsa di un tepore
inviolabile. Quel piccolo gesto rimase impresso finemente nella mente
di Loïc, galleggiando in flussi incorporei rappresi nella
retina
dei suoi occhi magneticamente verdi, suscitando in lui immagini a
catena, in una sequenza irrealistica ad alimentare scenari plasmati da
quell’irrisorio dettaglio, nutrito dai residui che i discorsi
su
divinità lontane lasciate in lui.
Nuovamente, fu quasi come ricordare frammenti di una vita non sua
– e insieme
appartenente a lui.
Erano ombre della sua immaginazione a concretizzarsi con il retrogusto
amaro di una veridicità di fondo che non riusciva a
scacciare. E
mentre scendeva le scale per aspettare in cucina Séline, non
riusciva a fermare i meccanismi della propria mente intenta a
incastonare passaggi di quel qualcosa che le falangi della ragazza
avevano evocato nella sua anima.
Le dita si sfiorarono
appena.
Un contatto effimero quanto fugace, destinato a scivolare via nel tempo
morto insieme al resto dei Nove Regni – infisso in un attimo
di
eternità al quale nessuno avrebbe assistito se non i diretti
interessati. L’ultimo barlume di vita, flebile fiammella
ormai
quasi consumata, bruciando se stessa per poter rimanere a splendere per
gli ultimi attimi – necessari almeno per compiere
l’ultimo
saluto, l’ultimo atto che li rendeva entrambi ancora umani
sotto
la corrosione che il sangue da loro versato aveva creato sulle loro
anime. Nell’oscurità della fine, nelle nebbie
della
distruzione avvenuta, nei recessi del collasso di Asgard, brillava
ancora flebilmente la luce opaca dei capelli di Lady Sigyn e le verdi
iridi di Loki.
Il nulla prendeva possesso di ciò che un tempo era stata la
città più splendente dei Nove Regni, dove la luce
pareva
tanto accecante da non poter mai essere estinta, almeno prima
dell’avvento del signore del Caos e del Male, arso dalle
fiamme
nere del rancore ustionante per il fermento della sua sete di un potere
sempre maggiore. E mentre tutto si sgretolava, crepandosi prima di
polverizzarsi completamente, avevano avuto l’ultimo refolo di
forze nel collasso delle loro vite per potersi avvicinare, prima di
spegnersi insieme al mondo che avevano distrutto.
Nessuna parola venne pronunciata, solo l’intreccio flebile
delle
loro falangi fu l’ultimo gesto compiuto nella loro esistenza
intrisa di morte e sangue, sporcata dai peccati commessi senza
esitazioni e nella quale unicamente morbide luci erano riuscite a
sopravvivere a costellarsi nelle loro giornate. Un ultimo sorriso,
privo di rimpianti e ricolmo della serenità per
consapevolezza
di aver vissuto fino all’ultimo l’uno al fianco
dell’altra – egoisticamente per loro stessi.
Loïc chiuse gli occhi portandosi le dita sopra le palpebre
massaggiandole – cerchi regolari dipinti dai propri
polpastrelli
–, nell’intento di spezzare la catena delle proprie
fantasticherie inutili. Non riusciva proprio ad afferrare la ragione
per cui si perdesse in quelle strane sequenze inventate, eppure ogni
volta in cui capitava avvertiva una scia di malinconia accompagnarlo in
residui di schiuma.
«A casa tua non c’è mai
nessuno?», fu la
domanda di Séline a riportargli l’attenzione
sull’ambiente circostante. La scrutò avvicinarsi
al
tavolo, senza risponderle per dedicare alla sua figura la precedenza su
altro, imprimendosi a fuoco il modo con cui riusciva a muoversi in una
casa a lei sconosciuta nel più naturale delle movenze. Gli
occhi
tremendamente neri erano oceani di tenebre in cui i riflessi del mondo
non riuscivano a filtrare, venivano gettati indietro, e la calma
apparente un espediente per rendersi innocua quando non lo era. Tutto
di lei era un mistero, un capriccio, un enigma e una contraddizione,
qualcosa a cui si sentiva legato come non lo era mai stato a nulla
nella sua vita fino a quel momento. Una creatura tanto minuta riusciva
a trasmutarsi in un agglomerato di imprevedibilità - mutava
la
sua cronica noia per la realtà in una scoperta, in interesse
attraverso lei stessa.
«Mio padre è sempre via per lavoro e mia sorella
ha troppi
amici per avere una casa in cui stare. Non sei abituata al silenzio,
non è vero?» rispose allungandole il sacchetto di
carta
riciclata sul cui fronte era stampato il logo della pasticceria in cui
aveva comprato le brioches. Appena accennato, le mostrò un
sorriso prima di alzarsi per preparare un cappuccino per lei e un
caffè lungo per sé, con la poca attenzione che si
pone a
movimenti di cui si conosce l’andamento per quante volte
erano
state compiute.
Il silenzio non lo disturbava, al contrario era il suo miglior compagno
di vita da quando ne aveva memoria. Come Séline aveva
notato,
l’enorme villa a sua disposizione era praticamente deserta se
non
per chi vi prestava servizio per tenerla in ordine – ma erano
camerieri abituati ad essere discreti, scelti apposta per non essere
d’intralcio nemmeno alla vista. Il lavoro di politico di suo
padre gli saturava quasi tutto il tempo e ormai Loïc aveva
smesso
di far caso alla sua assenza, cominciando a trovare fastidioso quando
protraeva più del consueto la sua permanenza a casa.
Più
insidioso era cercare di capire cosa esattamente provasse dalla vita
sociale eccessivamente attiva di sua sorella minore – una
parte
di lui avrebbe preferito badarci maggiormente, ma dall’altra
non
credeva di aver alcun diritto di dirle come dovese comportarsi se
nemmeno loro padre ne sentiva la necessità. Almeno lei,
tuttavia, rimaneva una presenza per la maggior parte ben accetta,
nonostante i suoi eccessi plateali conditi da
un’ingenuità
che rasentava la stupidità in molti casi. Riflettendo,
Loïc
avrebbe persino potuto provare l’istinto di presentarle
Séline – un giorno, magari, quando non si sarebbe
rivelata
eccessivamente
entusiasta per
la notizia di conoscere la misteriosa ragazza di suo fratello maggiore,
di cui solo aveva vagamente carpito l’esistenza.
«Casa mia è un via vai di qualsiasi tipo di
persone, ma il
bello è che nella confusione non si fa mai caso a
ciò che
avviene o non avviene» spiegò Séline
prima di
affondare i denti bianchi nella colazione.
«O se ci sei» chiosò Loïc
appoggiando sul
tavolo due tazze – una ricolma di bianca schiuma macchiata di
cacao e l’altra di caffè, amaro. La frase che
pronunciò dopo non fu meditata nel senso negativo del
termine,
non aveva alcuna intenzione di utilizzare le proprie parole per
costringerla a nulla che non volesse – e poi
Séline era ai
suoi occhi tanto splendente perché non era in alcun modo
plasmabile –; più semplicemente per quanto quella
considerazione emerse naturalmente quanto immediatamente in se stesso,
ebbe difficoltà a comporla con la noncuranza precisa per
cui
non sembrasse smielata, ma soltanto ciò che era –
la
realtà, unicamente essa, monocolore e non mutabile.
«Io la
noterei la tua assenza.»
«Se vuoi che rimanga qui anche questa sera basta
chiedermelo» commentò morbidamente
Séline,
lasciando le proprie labbra carnose incurvate in una piega dolce
– fossette a formarsi sul suo volto. Sottili erano le
lentiggini
che tappezzavano le sue guance, più marcati erano i nei a
puntellare la pelle in costellazioni di cui Loïc aveva appena
iniziato la scoperta - con la calma della consapevolezza di avere il
tempo necessario per poter approfondire la propria conoscenza al
riguardo, senza pressione di alcuna sorta.
«Mi pare di averlo appena fatto» le fece notare
sollevando
eloquentemente le sopracciglia, tra un sorso di caffè e
quello
successivo.
«Touché.»
Non sapeva bene come fosse possibile, appariva alquanto bizzarra
– e probabilmente era persino di insulsa – quella
sensazione che a volte la colpiva misteriosamente quando si ritrovava
in sua compagnia. Era un colpo di brezza arcana, proveniente da
chissà dove, autunnale con risvolti più freddi
nelle sue
pieghe e sapeva di malinconia, portava con sé reflussi di
qualcosa di andato perduto – irrecuperabile, riflessi su una superficie ormai
frantumatasi.
Ma ancora più stranamente, senza alcun segno di logica e
nemmeno
la vaga intenzione di trovarne una, era anche quella nota tanto
stravagante a donarle la consapevolezza che per lei era Loïc,
e
solamente lui, il centro resto della propria vita.
Guardando nei risvolti del verde delle sue iridi, a volte afferrava il
balenare di vaghe onde della stessa medesima emozione di cui lei era
colpita – era una certezza quella di Séline, non
le
occorreva porgere alcuna domanda al riguardo. Si limitava a sorridere
soddisfatta con il sensore di avere un’eternità a
loro
disposizione – come se non fosse stata una singola vita, ma
intere ere a loro disposizione. E forse, così era realmente e
non lo avrebbe mai saputo.
M A N I
A’ s W
O R D S
Allora, se siete giunti fino alla fine meritate di avere un premio
molto sostanzioso.
Questa storia ha un’origine persa nel tempo. È un
riadattamento di una mia vecchia one-shot scritta sul fandom di
Assassin’s Creed con un vecchio account ora abbandonato
– e
non so come e perché, ma era anche finita nelle storie
scelte
del sito, quindi magari qualcuno che leggerà questa
l’aveva pure letta l’altra. In realtà
non
c’è molto di ripreso se non l’idea della
sovrapposizione di due linee temporali in cui si svolgono due storie
romantiche – o pseudo tali – perché la
vecchia
storia era molto più angst e non parlava di reincarnazioni
ma di
discendenti – chi conosce il gioco, sa di che cosa parlo.
Qui, spero si sia capito che Loïc e Séline sono le
rispettive reincarnazioni di Loki e Sigyn in un futuro prossimo non
molto lontano, dopo che il Ragnarok si è abbattuto su
Asgard. Mi
sono tenuta in parte alla versione del fumetto in cui esso colpisce
unicamente Asgard, con sì ripercussioni per i Nove Regni, ma
senza che questi vengano distrutti; e con le anime degli abitanti di
Asgard che si reincarnano in abitanti della Terra/Midgard, anche se qui
non sono destinati a “risvegliarsi” come nel
fumetto, ma a
mantenere la loro forma umana.
Ho scelto la nazionalità francese per entrambi
perché,
sempre nel fumetto, quando Loki muore e viene riportato in vita da
Thor, lo ritrova nel corpo di un ragazzino francese, dunque mi sono
tenuta fedele a tale versione.
Invece ho scelto questi nomi perché hanno le iniziali uguali
– molto poco inventiva in questo campo, lo ammetto.
Ci tengo a sottolineare anche che Loïc non ha visioni, ma
semplicemente alcuni oggetti o situazioni attorno a lui lo portano a
credere di immaginarsi scenari che in realtà sono i ricordi
di
Loki, ma lui vive come un perdersi a fantasticare. E Séline
invece fa unicamente sogni su chi era, ma al suo risveglio sono sempre
troppo sfumati, precari e sono pochissime le occasioni in cui ricorda
ciò che ha vissuto nei sogni, quindi non ci da molta
importanza
a questa ricorrenza.
Curiosità/spiegazioni non inserite perché
altrimenti il tutto veniva lungo il doppio:
→
La sorella minore di
Loïc non è la reincarnazione di Thor se ve lo state
domandando. Però sicuramente sono legati in qualche modo
–
pensavo a compagni di classe.
→
Invece il padre di
Loïc è proprio Odino, questo perché
sinceramente,
attenendomi alle personalità della mitologia (e al
bellissimo
romanzo “American Gods”), questi due li vedo molto
più affini tra loro che con Thor.
→
Il tutto è
ambientato una manciata di decenni da adesso, per questo mi sono
immaginata che i libri siano prevalentemente digitali e le versioni
cartacee costino molto maggiormente. Nei fumetti Thor rinasceva e
richiamava a sé le anime degli asgardiani, qui invece non
accade.
→
Séline ha i boccoli come li aveva Sigyn da giovane, prima
che Loki glieli togliesse.
→
Anche questa storia, si
inserisce nella serie delle mie precedenti storie su Loki e Sigyn -
ovvero, « La fedeltà sboccia da un cuore di
sale
»
-, ma come le altre shot slegate dalle raccolte, non necessita la loro
lettura per la comprensione. Più che altro è perché faccio sempre riferimento alla Sigyn delle precedenti storie e al rapporto tra lei e Loki. Tuttavia è classificabile come un What if? della stessa serie in un certo senso.
Che poi ho scritto tutta questa pappardella, e non so quando
pubblicherò invece il quarto capitolo di « Cuore di Sale », sono un
genio del male. Perdonatemi.
Niente, ho finito, penso che terminerò qui e vi chiedo come
sempre di lasciarmi una recensione – soprattutto
perché
questa è una storia un po’ strana, quindi mi
piacerebbe
proprio sapere che ne pensate.
Alla prossima,
Mania
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