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Autore: Roxar Fandom: GoT/ASOIAF Personaggi: Jaime Lannister, Brienne di Tarth Ship: Jaime/Brienne (srsly?!) Warning: Hurt/Comfort, Angst, Flangst, Accenni erotici NdA: Ambientate quanto segue in un ipotetico scenario nordico -
nell'accezione GoTiana, quindi siamo sulla Barriera - dove la gente lotta
contro gli Estranei e si finisce sempre, inevitabilmente, per perdere
qualcosa. Come Jaime, che ha perso Brienne. Uh, la storia è basata sul prompt Amnesia, uno dei più bei prompt che
io abbia usato, sinceramente. (:
___
Ti
ricordi di me?
“L’onore è un freddo compagno di letto, Brienne. E l’inverno è arrivato.”
“Vorrà
dire che cercherò altre coperte, ser.”
“Oh,
andiamo; il calore di un uomo vivo e nudo non ti tenta neanche un po’?”
“No,
ser. Neanche un po’.”
––––
Oramai
gli riesce quasi impossibile tollerare il fruscio delle pagine.
È
sicuro che alla prossima pagina voltata scaraventerà qualche libro contro la
finestra spalancata su un mare lucente e azzurro come bracciate di zaffiri
gettati alla rinfusa fino a dove l’occhio può vedere.
Inutile,
pensa e la mano buona si serra in un pugno quasi dolente, è tutto
inutile.
Sente
lo sguardo di Brienne arrampicarsi sulla propria guancia, bruciare,
marchiare, innescare una spiacevole commistione di nostalgia e rimpianto.
Sono
qui,
vorrebbe dirle. Adesso puoi avermi. Come puoi non vedermi?
Un
piccolo sospiro colma il silenzio del primo pomeriggio e un’altra ondata
della sua rabbia fluisce via in un fruscio di pagine voltate.
––––
“I
tuoi occhi... Non sei riuscito a dormire?”
“Difficile prendere sonno all’addiaccio, specialmente se tremi come un
cucciolo preso a calci per tutto il tempo.”
“Addiaccio?”
“Perfino tu devi aver notato le dosi massicce di uomini che la regina
Targaryen sta inviando da sud. Non c’è più neppure lo spazio per pisciare,
figurarsi per dormire.”
“Non
puoi condividere l’alloggio con qualcuno?”
“E con
chi, donzella? La maggior parte di loro sarebbe ben contento di aprirmi la
gola nel sonno e quelli che mi sono indifferenti si farebbero pagare da chi
mi vuole morto per uccidermi. L’unica persona che sembra tollerarmi è una
donna che piuttosto che avermi nel suo letto preferirebbe morire sotto il
peso di centinaia di coperte.”
“Il
mio nome–”
“Conosco il tuo nome. L’hai ripetuto così tante volte che non vedo come non
potrei conoscerlo.”
“Allora usalo.”
“Dammi
un tetto vero sotto cui dormire e lo userò. Allora, abbiamo un accordo?”
––––
C’è
stato un tempo in cui Brienne non avrebbe tollerato di averlo così vicino.
Tempi in cui ogni suo gesto o parola passavano al vaglio scrupoloso della
cautela, perché troppi sono i nomi che le erano stati cuciti addosso nel
corso degli anni.
Un
tempo in cui, centimetro dopo centimetro, avrebbe allontanato la propria
sedia della sua, prendendo le dovute distanze, con discrezione, senza
attirare l’attenzione.
Adesso
Brienne è fin troppo remissiva. Sfoglia libri con entusiasmo sempre minore,
i suoi occhi scivolano di riga in riga per cogliere informazioni che
continuano a suonare estranee, assolutamente non familiari. Chiaramente, le
sue speranze sono andate assottigliandosi, assieme a quelle di Jaime.
D’altro canto, maestro Samwell non ha mai taciuto l’ipotesi di un
fallimento, anzi lo ha reso ben chiaro sin dal primo momento, ma entrambi
l’hanno volutamente ignorata, concentrandosi su un recupero totale che,
pagina dopo pagina, capiscono non arriverà mai.
Brienne resterà prigioniera del suo mondo fatto di ombre e foschia; Jaime
resterà sempre indietro, rifiutando di conoscere la persona che è diventata.
––––
“No...
no...”
“Brienne?”
“No!”
“Brienne, svegliati! ...Ah! Sta’ ferma, stupida, sono solo io.”
“Ser?”
“Chi
altri? Mi hai colpito, accidenti a te.”
“Mi
dispiace... io... Lascia che dia un’occhiata.”
“Non
offenderti, ma preferirei che mi stessi alla larga. Faccio da me.”
“Jaime, mi dispiace.”
“...
Aiutami a ripulire il sangue.”
––––
Brienne deve avere poco appetito. Il suo piatto giace intatto davanti a sé,
la forchetta stretta delicatamente tra le dita e gli occhi fissi sul grasso
animale che va condensandosi sotto la costoletta di carne.
Jaime
si sforza di ignorarla, si ripete che non può penetrare i suoi pensieri. Non
più. I pensieri della donna che è diventata non gli appartengono – non è
certo neppure che appartengano a lei stessa. Così come non gli
appartengono più i suoi occhi azzurri, afflitti sempre da un’espressione
persa e confusa, diametralmente diversi da quelli a cui era abituato.
E, che
gli dèi lo perdonino, a volte vorrebbe solo raccogliere le sue cose e
tornare a servire sotto il vessillo reale, lasciarsi alle spalle la
sconosciuta che gli siede accanto e che non ha altro che silenzio sulle
labbra. Poi, tuttavia, da un abisso che teme di indagare troppo da vicino,
la voce di suo padre risale in un sussurro spettrale a ricordargli che i
Lannister non battono in ritirata.
E
allora resta un giorno in più.
“Jaime?” lo chiama all’improvviso e il suo nome suona proprio come ha sempre
suonato, carico di dubbio e circospezione. Non lo sopporta; è un continuo
memento di tutto ciò che ha perso e che mai più gli sarà dato di riavere.
Ciononostante, Jaime non può evitare di posare la forchetta e sollevare lo
sguardo, provando per l’ennesima volta la dolente morsa alla bocca dello
stomaco che in un battito di ciglia porta via tutto l’appetito.
“Cosa,
donzella?”
Brienne esita. I suoi occhi adesso lo rifuggono. E per un attimo, per un
folle, prezioso attimo, Jaime si illude che sia tornata. Ma nessuna replica
mordace arriva a rammentargli che il suo nome non è quello e l’illusione
scivola via e tutta la fiduciosa, sciocca aspettativa assieme a lei. Non le
ha mai riferito quella sua particolare abitudine; in un attimo di debolezza,
ha deciso di elevarla a segnale tangibile del suo ritorno. Così, giorno dopo
giorno, Jaime attende che Brienne torni ad ammonirlo, sentendosi, giorno
dopo giorno, sempre più uno stupido sentimentale.
“Che
cosa eravamo?”
Deglutisce, ma la saliva è sabbia nella gola improvvisamente asciutta.
Eravamo tutto,
pensa. E adesso siamo il fottuto nulla.
“Perché lo chiedi?”
È solo
dopo un lunghissimo silenzio che Brienne farfuglia qualche parola che a
stento modella in una frase sensata.
“A
volte sogno delle... cose. Non so se siano sogni o ricordi. Sembrano così...
veri. Come se... come se... come se fossero accaduti realmente.”
Anche
di questo era stato avvertito. Samwell non aveva mai escluso la possibilità
che qualche ricordo potesse affiorare in sogno e l’aveva avvertito di
aspettarsi delle domande, nei mesi a seguire. Domande alle quali, aveva
immediatamente deciso, non avrebbe risposto.
Ma
adesso nei suoi occhi c’è un così disperato bisogno di capire – di sapere
– che Jaime vorrebbe davvero darle una risposta, se solo l’avesse. Perché,
cosa fossero, non lo sa neppure lui.
“Alleati,” si sente dire. “Eravamo alleati.”
Perché
alleati è una parola innocua e sterile, che non lascia trasparire
nessun sentimento in particolare, che non apre la strada ad argomenti
pericolosi che non ha davvero voglia di affrontare. Non vede l’utilità;
Brienne è andata, ormai, troppo inabissata in quel mondo buio che a lui è
precluso. Sa che esiste una remota, piccolissima possibilità di strapparla
via da lì, ma sa che questo comporterebbe uno sforzo troppo grande e Jaime è
troppo stanco.
Gli
anni sono passati anche per lui, riverberandosi nell’argento che adesso vena
l’oro dei suoi capelli. Sono passati e penetrati, rallentandogli il sangue e
impigrendogli il corpo, operando infine la loro sinistra magia sulla mente,
sempre ottenebrata da una foschia di spossatezza.
E
Brienne è troppo lontana per le sue gambe, stanche anch’esse.
“Ti
amavo?” la sente chiedere con un filo di voce, rossa sino alla punta dei
capelli.
Jaime
ha quasi voglia di ridere. È l’unica domanda a cui entrambi non saprebbero
davvero cosa rispondere. L’unica domanda che, di notte, si infiltra tra i
suoi sogni, assumendo forme e suoni e scenari che al mattino lo abbandonano
con una dolorosa erezione tra le gambe. Ma a differenza di Brienne, sa per
certo che quelli non sono sogni.
“Lo
sapevi solo tu,” replica esausto e lascia la forchetta nel piatto, alzandosi
e abbandonando la sala. La consapevolezza che Brienne non lo seguirà è il
doloroso punto di chiusura ad una conversazione ancora più dolente.
––––
“Sei
pentita, vero?”
“N–no.”
“Oh,
non di questo.
Su quanto è appena successo non ho alcun dubbio. Intendevo: sei pentita di
non avermi fatto entrare prima nel tuo letto, vero?”
“Non
ho mai detto questo.”
“Dal
modo in cui gemevi il mio nome avrei detto di sì. Esci da lì, Brienne;
nasconderti non manderà via questa nuova, sconvolgente verità.”
“Smettila, Jaime.”
“E se
ben ricordi, Brienne, molto tempo fa ti dissi che ti sarebbe piaciuto sapere cosa si
prova a sentirsi una donna. Adesso sappiamo che effettivamente ti
piace, meraviglia delle meraviglie.”
––––
La
notte porta un nuovo grado di tormento.
E
questa notte, dopo quella domanda, i sogni di Jaime sono così vividi
da fare male. Così vividi e pieni che perfino l’onnipresente parte cosciente
di sé, quella che suole mormorargli che si tratta solo di un ricordo, tace
addormentata.
Questa
notte Brienne è sopra di sé. Sente lo sfregamento umido dei loro corpi nel
punto in cui sono congiunti ogni volta che Brienne si muove, sente il suo
respiro caldo e accelerato scivolargli sul collo e sente le sue mani
inchiodarlo al letto. Non un gesto volto a garantirle un miglior appoggio,
come soleva fare Cersei, ma una vera esplosione di forza, un atto di
dominanza che, contrariamente ad ogni previsione, non gli dispiace affatto.
Non
gli dispiace neppure il modo in cui la mano di lei è serrata sul polso vuoto
né quello in cui il suo bacino ondeggia, nel disperato, frenetico tentativo
di prenderlo interamente dentro di sé.
“Jaime,” la sente sussurrare, un gemito tutto di gola, che quasi inciampa
sulla lingua, sospinto dal respiro affaticato, dal continuo movimento dei
muscoli che, rigidi e gonfi, si tendono sotto la pelle. Lo sussurra ancora e
ancora e ancora, fino a fargli assumere un qualche senso che Jaime non
riesce a cogliere, come se fosse una precisa esclamazione di qualcosa.
L’orgasmo che lo coglie di sorpresa è così intenso che tutto brucia in
un’improvvisa vampata di calore. I suoi occhi si chiudono e dopo un’ultima,
inconscia spinta il sogno si riduce in cenere e le palpebre si spalancano
nei primi bagliori dell’alba che si arrampicano fin sulla sua finestra.
Respira a fatica, ha come l’impressione che ci sia qualcosa incastrato nel
fondo della gola e impiega diversi secondi a realizzare che la biancheria
intima e le lenzuola sono bagnate del suo seme.
Qualcosa che non capitava da molto, molto tempo.
“Dèi
misericordiosi,” esclama in un mormorio arrochito dal sonno e dalla
confusione, scostando le coperte. Qualcosa martella ripetutamente nella sua
testa, come il suono di fendenti ripetutamente scagliati contro un fantoccio
di paglia. Ma è solo quando si alza per liberarsi dell’indumento sporco e si
affianca alla finestra che scopre che quel suono non è nella sua testa, ma
fuori. Giù, nel cortile ristretto e polveroso, dove Brienne sta tentando
qualche affondo e fendente contro un manichino. Nonostante tutto quello che
è successo, Jaime non può evitare di notare che la sua tecnica non ha subito
variazioni; sempre incredibilmente sgraziata, tutta forza massiccia, ma
estremamente precisa in ogni stoccata. All’improvviso si ferma, passa il
dorso della mano sulla fronte per detergerla dal sudore e scostare via i
capelli bagnati. E poi, con un brivido, la vede voltarsi bruscamente e
sollevare la testa.
Nelle
prime luci del giorno, irritati dal sudore che vi è gocciolato dentro, i
suoi occhi sono d’un azzurro quasi innaturale, cupo, eppure allo stesso
tempo abbagliante.
Il
sorriso che affiora sulle sue labbra sembra provenire direttamente da una
vita prima e Jaime è troppo sovraccarico per replicare, non quando vorrebbe
solo scendere in cortile e prenderla e ai sette inferi tutte le conseguenze.
Non
gli resta che distogliere lo sguardo da lei e voltare le spalle a quella
donna che, adesso, non è più così sicuro di non voler conoscere.
–––––
“Ascolta. È il suono di un corno?”
“Tre.
Tre suoni. Altre creature maledette da abbattere, pare.”
“Jaime?”
“Mh?”
“Fa’
attenzione.”
“Brienne, sono storpio, non stupido. Lo sai che la diplomazia è la mia
migliore arma. E adesso scusami, ma ho degli Estranei da invitare al mio
desco con i quali contrattare la pace.”
“Prendi questa, allora.”
“Oh,
una deliziosa forchettina di acciaio di Valyria. Un po’ lunga, per i miei
gusti, ma me ne farò una ragione.”
“Ti
guarderò le spalle.”
“Mi
stupirebbe il contrario.”
“Allora, andiamo.”
–––––
Impiega parecchio tempo prima di realizzare la figura che colma il vano
della porta, parzialmente nascosta dal muro, come se stesse lottando con se
stessa per venire avanti. Jaime posa la piuma nel suo piccolo supporto e
fissa un punto oltre la sua spalla – mai, mai negli occhi –
domandandole quindi se necessita di qualcosa.
“Ho
ricordato qualcosa su mio padre,” dice semplicemente, la sua bocca carnosa
distorta in una smorfia pensierosa.
Dovrebbe accogliere la notizia con gioia quasi feroce, perché può cautamente
interpretarlo come un segno tangibile che le ombre, da qualche parte, stanno
iniziando a diradarsi. Invece, l’accoglie con una sterile sensazione di
vuoto e indifferenza, limitandosi a scuotere la testa in un assenso blando.
Una punta di delusione gli martella dietro la fronte, rammentandogli che
negli ultimi tempi ha ricordato molte piccole cose, ma mai di lui. Come se
le ombre l’avessero inghiottito e digerito, distrutto.
“Bene.
Molto bene.”
Sul
viso di Brienne adesso aleggia una pesante espressione di amarezza, che le
affloscia le spalle quando prende timidamente posto nella sedia davanti alla
scrivania ingombra di libri e documenti.
“Ci
sto provando, Jaime.”
Neppure quello giunge nuovo alle sue orecchie. È la stessa frase di sempre
inerente allo stesso sottinteso di sempre, che lo costringe a frenare la
stessa risposta mordace di sempre.
Non ci
stai provando abbastanza.
Ricorda quando, nei primi tempi, le raccontava stralci di vita insieme,
stralci di vagabondaggi e di notti trascorse all’addiaccio, accucciati su un
terreno coperto di foglie secchie e aghi ispidi. Le raccontava brani di vita
passata per indurla a recuperarli, a strapparli via dalla morsa dolente
della dimenticanza. E lei, puntualmente, sfinita e con la testa pulsante,
ripeteva: “Ci sto provando, Jaime.”
Poi,
di punto di bianco, ha smesso. Jaime non ha più raccontato e Brienne non ha
più chiesto. Come se loro non fossero mai esistiti, qualcosa di cui adesso
dubitava anche lui. Cos’era stati, dopotutto? Compagni, certo. Alleati,
anche. Ma amici? No, mai amici. Amanti? Neppure, giacché la stessa parola
presupponeva un attaccamento affettivo che era sempre mancato. Compagni di
letto? Sicuramente sì, ma l’espressione suonava squallida perfino alle sue
orecchie.
Erano
stati molto più di così e non era sicuro che esistesse una definizione
calzante. Non servivano le parole, per farle capire ciò che erano stati, ma
i suoi ricordi. Gli stessi che probabilmente erano andati perduti per
sempre.
“Lo
so,” concede infine, con un sorriso lento sulle labbra.
I suoi
occhi azzurri, per un lungo attimo, si fissano sul polso vuoto; batte le
palpebre un paio di volte, aggrotta la fronte e si china un poco in avanti.
Quasi senza rendersene conto, solleva le dita per sfiorare quel pezzo di
carne cicatrizzata e Jaime, per la prima volta dopo molto tempo, trattiene
il fiato.
“Codardo,”
mormora e i suoi occhi sono vacui, rivolti al passato, “una piccola
disavventura e ti arrendi”.
Il
labbro inferiore di Jaime è mosso da un improvviso spasmo di... cosa?
Dolore? Aspettativa? Gioia? Non lo sa. Sa solo che permette alle dita di
Brienne di indugiare ancora sul polso destro, che non permette a se stesso
di strapparlo via dal suo tocco.
Vorrebbe, dovrebbe, ma non ci riesce.
–––––
Era
rimasto seduto sul pavimento per tutto il tempo, continuando a risentire
nelle orecchie il clangore delle lame e le urla degli uomini. Di quando in
quando, i suoi occhi avevano incontrato l’immagine vermiglia delle proprie
mani – finta e vera – , ancora sporche del suo
sangue. Sbaffi secchi e allungati, come il morso di artigli, che lambivano
il dorso e si allungavano sugli avambracci, allargandosi in chiazze
frastagliate e imprecise dove il corpo di Brienne aveva ripetutamente
sfregato mentre veniva riportata al Castello Nero.
Maestro Samwell si era immediatamente rabbuiato in viso e senza molti
complimenti l’aveva spinto fuori dalla camera, intimandogli di aspettare
fuori; si era allora barricato dietro una porta spessa e un silenzio ancora
più spesso.
A
Jaime non era rimasto altro da fare che aspettare. E aspettare. E aspettare.
Solo
quando le prime luci di un mattino sempre più breve iniziarono ad
arrampicarsi sul cielo perlaceo, pregno di neve e freddo, Samwell aveva
spalancato la porta, portando un dito grassoccio e sporco di sangue alle
labbra per intimargli il silenzio e spronarlo a seguirlo per il lungo
corridoio illuminato dal barlume di una torcia prossima all’esaurimento.
“È
sveglia,” aveva detto molti passi dopo, fermandosi davanti alla bocca gelida
di una finestra senza infissi, come per snebbiarsi la mente.
“Devo
quindi intendere che non morirà?” aveva chiesto e l’antica, insolente ironia
era rimasta indietro, troppo indietro per saturare anche in minima parte le
proprie parole.
“Non
morirà,” aveva confermato Samwell, voltandosi per fronteggiarlo. I suoi
occhi buoni erano carichi di dispiacere e impotenza, un sinistro preavviso
della cattiva notizia che, probabilmente, stava per elargirgli.
“Ma?”
“Ma
sono subentrate delle complicanze, Jaime. Il colpo alla testa ha compromesso
tutto,” aveva mormorato, le antiche forme di cortesia e rispetto che oramai,
lì all’ultimo confine del mondo, non avevano più ragione di essere e di
esistere. Erano tutti carne da macello che presto o tardi sarebbe bruciata
in una vampa di fuoco. Tutti lo sapevano, nessuno sperava di non
esserlo. Non più.
“Complicanze. Quali complicanze?”
“Jaime,” disse, posandogli la mano grassoccia e sporca sull’avambraccio
altrettanto sporco. C’era una tale pietà, nella sua voce, che Jaime dovette
lottare l’impulso di sottrarsi al suo tocco penoso. “Brienne non ricorda più
niente.”
–––––
È
stato sciocco e avventato da parte sua accettare il suo invito. Non aveva
davvero voglia di umiliarsi davanti a questa estranea, di mostrarle quanto
incapace sia con una spada nella mano sbagliata, quanto il lungo esercizio
nel gelo della Barriera non sia poi servito a granché, ma c’era così tanto
desiderio, nei suoi occhi azzurri, che Jaime ha finito per confonderli con
quelli dei suoi ricordi e, improvvisamente scaraventato nel passato, ha
accettato con un ghigno compiaciuto in volto.
La
sequela di colpi parati, menati e ricevuti, poi, non lo ha certo aiutato.
Così
come non lo ha aiutato né ritrovarsi all’angolo, premuto tra un grezzo
manichino di paglia e il corpo forte e caldo e sudato di Brienne, né i suoi
occhi azzurri e luminosi e pieni di adrenalina puntati dritti nei suoi.
Non ha
aiutato niente. E tutto ha solo peggiorato la situazione,
sprofondandola in un nuovo grado di dolore.
A quel
punto era stato fin troppo semplice e ovvio allungare il collo, quel tanto
necessario a raggiungere la sua bocca e muovere un poco le labbra per
invogliarla ad schiuderla.
L’inopportuna fiamma del tradimento era avvampata nello spazio sottile tra
loro e Jaime aveva ricordato – come lei mai, mai più avrebbe potuto fare.
Davanti a lui c’era Brienne, ma dietro – dentro – Brienne adesso
c’era una sconosciuta. Una donna arrendevole e mansueta, che sorrideva più
spesso di quanto la sua vecchia sé avrebbe osato fare, che non rifuggiva i
suoi occhi e che si limitava sempre a fissarlo con un’espressione di
curiosità negli occhi.
E
Jaime sarebbe morto prima di contaminare il ricordo dei loro baci – quelli
rabbiosi e violenti che si erano scambiati nel cuore delle notti più gelide
di sempre – con quello di un bacio dato a questa sconosciuta.
L’aveva allontanata con uno spintone in pieno petto ed era sicuro che lei
aveva visto l’odio ardere nel suo sguardo.
Andando via, non aveva osato voltarsi.
Se
solo l’avesse fatto, avrebbe notato la bocca di Brienne schiudersi di
incredulità e la sua mano raggiungere delicatamente la tempia. E se tutto
quello non fosse bastato, allora avrebbe potuto guardarla dritta in faccia
per capire che la donna che tanto attendeva, per un attimo, era stata lì con
lui.
–––––
L’aveva domandato con un filo di voce; non si era sentito l’uomo che era
diventato, ma il bambino che era stato.
“Ma
ricorderà, vero? Guarirà?”
Samwell aveva scosso la testa un po’ a destra e un po’ a sinistra,
corrucciando le labbra in un’espressione dubbiosa.
“Forse. Queste cose sono molto imprevedibili e molto oscure anche per noi
maestri, Jaime. I libri, forse, potranno aiutarla. Falle leggere cose note a
tutti, spronala a ricordare. E parlale. Parlale della sua vita, di chi era,
di quello in cui credeva, di quello per cui lottava. Parlale di te, anche.
Fa’ tutto quello che puoi per aiutarla.”
“Quante possibilità ci sono che possa ricordare tutto?”
Il
mezzo sorriso arrendevole e sconfitto sulle labbra di Samwell non aveva
avuto bisogno di essere spiegato.
–––––
Ha
seguito l’impulso di un momento e ha finito per ritrovarsi davanti alla sua
porta chiusa. Vi preme contro la fronte, non coglie alcun rumore, mentre la
mano sinistra striscia e si arrampica sul battente, impotente, come se
dietro quella porta giacesse tutto ciò che ha perduto senza però avere la
possibilità di aprirla. Come se avesse smarrito la chiave in un momento di
distrazione.
E
quasi ruzzola all’interno della stanza quando l’uscio si apre e Brienne
appare davanti a lui, il corpo forte e grosso smussato e ingentilito dalla
luce delle molte candele accese all’interno, che incorniciano i suoi capelli
di un bagliore quasi dorato.
“Jaime,” lo chiama e c’è qualcosa, sulle labbra, come una specie di sorriso
sollevato.
Non
risponde. Per una buona volta, è lui che non ha voglia parlare. È lui ad
avere nient’altro che silenzio nella piega austera e dritta della bocca.
“Hai
bisogno di qualcosa?”
Ha
bisogno di qualcosa? Sì, dèi maledetti, ho fottutamente bisogno di
qualcosa.
“No,
donzella,” respira piano e si volta, pronto ad andare via. È stato un errore
andare lì, solo per raccogliere l’ennesima immagine che magari quella stessa
notte striscerà di soppiatto nei suoi sogni, aprendo la strada a finali
alternativi tanto allettanti quanto impossibili. Il tempo di essere accolto
nel suo letto e di trovare il sonno contro la curva larga della sua spalla
si è disciolto nella pozza di sangue che le ha rotto la testa, spezzandole
il filo della memoria.
Adesso, a Jaime non restano altro che ricordi che lei non può più
condividere. È un concetto così astratto e singolare e destabilizzante che
quasi spinge in gola il suono di una risata priva di allegria – e forse
priva di tutto.
“Hai
tradito l’ennesimo giuramento, Jaime,” lo ammonisce e l’accusa brucia così
ferocemente e dolorosamente che può solo voltarsi bruscamente e
fronteggiarla, carico di rabbia, pronto ad esplodere. Lo stupisce, in
effetti, che non sia già accaduto prima.
“Sono
lo Sterminatore di Re, ricordi?” domanda e poi ride senza emozioni,
scuotendo la testa. “No, certo che non ricordi. Perdonami, donzella, perdona
questo mio cupo quanto involontario senso dell’umorismo.”
“Stai
continuando.”
Jaime
non ha più voglia dei loro duelli verbali. O almeno, Jaime non ha voglia di
battibeccare con quella donna che non conosce, che lo sorprende sempre con
reazioni così poco da lei, quasi a ricordargli beffardamente che
quella che era non esiste più.
“A
fare cosa, maledizione?”
Brienne si fa vicina e lo guarda dritto negli occhi. E c’è qualcosa, nello
spazio sottile dell’anello azzurro intorno alla pupilla dilatata, qualcosa
che prima non c’era. Come un velo di consapevolezza. Come qualcosa che
sembra provenire direttamente dal passato.
“Avevamo un accordo, noi.”
Non
respira più. Il peso delle implicazioni di quelle poche parole è troppo
importante per prestare attenzione alla respirazione, per inanellare un
respiro all’altro. Jaime si sente come immediatamente prima di una
battaglia, sospeso nella quiete surreale che galleggia tra uno schieramento
e l’altro prima che l’unico suono di centinaia di spade sguainate sancisca
l’inizio della guerra.
Sente
che qualcosa di altrettanto forte sta per accadere.
“E il
mio nome è Brienne.”
–––––
“Ti
ricordi di me?” le aveva chiesto, sedendo accanto a lei.
Brienne l’aveva scrutato apertamente in volto, la testa piegata in
un’angolazione che trasudava timorosa curiosità. Aveva capito immediatamente
che no, Brienne non lo ricordava.
Non
era colpa sua, certo che non lo era, ma era stato inevitabile, per lui,
considerare quella dimenticanza al pari di un tradimento. Come se lei
l’avesse volutamente tagliato fuori dalla sua vita e dal suo passato.
“No,”
aveva esalato infine. “Chi sei?”
Jaime
non aveva mai saggiato la carezza della morte sulla propria pelle, ma quello
che aveva provato in quel momento era qualcosa che le somigliava molto.
–––––
Era
inevitabile che finisse così, dopotutto.
Appena
Jaime aveva colto i risvolti di quel suo lievemente esasperato “Il mio
nome è Brienne” le si era letteralmente avventato contro, spingendola a
ridosso del muro così violentemente da strapparle un gemito di dolore. Ma
era stato l’unico. Dopo, non c’erano stati che i vecchi sospiri che fino ad
allora aveva potuto udire solo in sogno.
Dopo
l’amplesso, Brienne aveva cercato di scivolare via dalle sue braccia, ma lui
l’aveva stretta anche più forte, non per assecondare chissà quale impeto di
sentimentalismo, quanto per timore di perderla nuovamente. Adesso che aveva
abbandonato quel suo mondo di ombre e dimenticanza, sarebbe morto prima di
lasciarla nuovamente andare via. A Brienne non era restato altro da fare che
arrendersi a lui e posare la fronte contro la curva della sua spalla.
“Ce ne
hai messo di tempo. Dove diavolo sei stata?”
Brienne sospira irritata e tenta nuovamente di scostarsi. Adesso che Jaime è
positivamente certo che lei non andrà via, le permette di mettersi a sedere,
sogghignando quando la vede artigliare l’orlo delle coperte e tirarsele fin
sul mento.
“Proprio qui con te, Jaime.”
“Per i
sette inferi, no. Non eri tu. Era il tuo corpo ed era la tua voce,
anche, ma qui,” dice, allungando il polso vuoto per sfiorarle la tempia,
“non eri tu.”
“Non
mi volevi?” domanda timidamente, innocentemente anche, e i suoi occhi
scrutano il ricamo azzurro e dorato delle coperte.
“Ti ho
voluta ogni giorno da quella fottuta battaglia. Ma non c’eri. Più
volte ho provato il desiderio di andare via,” confessa lievemente, ma non
sembra troppo dispiaciuto. Dopotutto, sa di non averlo fatto.
“Ma
sei rimasto.”
“Così
pare.”
“Perché?” e c’è davvero così tanto stupore nella sua voce che Brienne torna
ad essere la ragazza che in realtà è, una giovane donna prossima ai
vent’anni.
“Perché una volta una persona mi ha chiamato codardo quando stavo per
arrendermi davanti ad una piccola disavventura,” sbuffa e fa una
smorfia contrariata, occhieggiando velocemente il moncherino cicatrizzato.
Non lo
vede, ma sente il suo sorriso. È un suono piccolo e lieve, quasi
impercettibile, ma per un attimo c’è stato davvero.
“Grazie per avermi aspettata.”
“Vorrei poter dire prego, è stato un piacere, ma la verità è che è
stato terribilmente noioso. Stuzzicare la ragazzina stupida che eri
diventata non era neppure allettante.”
E
proprio quando si aspetterebbe una replica mordace o un’occhiataccia
infastidita, Brienne – Brienne – lascia cadere le coperte, si piega
in avanti e lo bacia.
Il mio
nome è Brienne.
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