Doll
-Syndrome Doll-
Atto primo: La sindrome della bambola di stoffa.
"Sono
solo una marionetta, una bambola di stoffa con cui il mondo si diverte
a giocare, per poi gettarmi via come se non fossi neanche umana. Non
guardarmi, sono una bambola maledetta..."
Salve, il
mio nome è
inutile, bé, non proprio, ma consideratelo un soprannome.
Per le
persone valgo meno di niente, come anche per la mia famiglia. Sono
invisibile ed inutile come una bambola...
Vi siete mai chiesti
che cosa provi
una bambola o semplicemente un giocattolo? Io sì. Forse
perché, infondo, mi sento una di loro. Le bambole, per
quanto
belle possano essere, prima o poi vengono gettate via, proprio come
successe a me. Io, non sono altro che una di loro: una
fragile
bambola di stoffa, gettata in un vecchio scatolone pieno di polvere,
senza neanche chiedere che cosa ne pensassi o come mi sentissi,
lì, sola, senza nessuno che riuscisse a capirmi; senza
nessuno
che si prendesse cura di me e ricucisse quegli strappi che mi ero
procurata...
Quando si è
diversi, nessuno
ti considera o ti ascolta; diventi una nullità; un fantasma;
solo perché sei diverso, perché non segui gli
schemi.
Nella tua diversità non vieni mai davvero amato o accettato,
perché il mondo vuole solo dei manichini fatti tutti dello
stesso stampino, se sei diverso, vieni messo da parte e dimenticato,
come se fossi solo uno scarto della società. La
società... Crea solo dei perfetti soldatini, che vestono,
parlano, si esprimo e pensano allo stesso modo, come tanti cloni; come
pecore che seguono la massa fatta di figure, che vogliono solo un mondo
fatto di esseri umani uguali in tutto e per tutto. Io non
sono
bella, magra come uno stecchino, né alta; non sono
intelligente;
ho uno strano senso dell'umorismo; non ho un corpo perfetto o un viso
particolare; i miei occhi sono di un colore comunissimo; tutto di me
è normale. Forse è per tutti questi motivi, che
ho sempre
fatto del mio meglio per non apparire invisibile, però...
Alla
fine... Il mio cuore è stato spezzato, frantumato in
piccolissimi pezzi; il mio essere è stato trattato come una
comunissima e vecchia bambola di pezza, che non è
più
come una volta. Le bambole sono amate solo fino a quando il loro
aspetto è gradevole, ma quando poi passa il tempo, quando i
capelli da setosi e luminosi diventano come la paglia; quando gli occhi
vispi e i vestiti pieni di ricami diventano spenti e logori,
è
allora che viene gettata via. E' quello che accadde a me...
Io, ho la sindrome
della bambola...
Vorrei
piangere, ma non posso, io non ho più lacrime; vorrei
urlare,
vorrei potermi muovere e scappare via, ma ormai, sono solo una rigida e
insignificante bambola. Mi piacerebbe almeno provare dolore o
semplicemente amare, ma sono una bambola, e loro non provano niente...
Non avevo neanche più il diritto di provare
qualcosa.
"Rimani lì ferma, sta zitta e continua a fingere di essere
un
giocattolo usato." continuava a ripetere una vocina. "Non guardatemi,
sono una bambola maledetta" rispondevo a chiunque osasse posare il suo
sguardo su di me.
Sola al buio,
riflettevo cosa
veramente fosse la vita. Un vortice fatto solo di dolori e delusioni,
illusioni e ipocrisia. Gli esseri umani, sono delle stolte creature che
vivono nella mera illusione di un mondo perfetto, un mondo che in
realtà sta andando a rotoli, un mondo che finirà
per
dimenticarsi di coloro che vi abitano, facendo spazio all'ipocrisia. La
felicità in un'epoca come la nostra è solo
un'utopia, da
cui sarebbe meglio stare alla larga.
"Prima
o poi tutto finirà, e allora, rimarrà solo un
mucchio di
polvere... Sciocchi, siamo noi esseri umani, a credere ancora alla
favola della felicità... Noi siamo solo giocattoli, di cui
un
giorno il mondo si stancherà..."
A diciassette anni, non dovresti
pensare a certe cose,
ripeteva mia madre, ma io a quel tempo volevo solo scomparire dalla
faccia della terra; sprofondare negli abissi più profondi;
diventare una volta per tutte, quella bambola di pezza che per tanto
tempo, ignoravo di essere.
Distesa sul letto
della mia camera
da letto, ammiravo il soffitto che in quel momento, mi sembrava molto
interessante. Mi chiedevo come avessi fatto ad essere talmente cieca,
da non accorgermi neanche che mi stesse solo usando per i suoi stupidi
scopi. Debrah... Quel nome non solo m'irritava, ma mi faceva capire
quanto lei - rispetto a me - fosse perfetta per quel cretino dal cuore
di ghiaccio. Avevo fatto di tutto per essere come voleva la
società, come voleva
lui.
Mi ero tagliata i capelli, li avevo tinti di rosso; avevo tolto gli
occhiali e messo le lenti colorate, perché lui odiava il
colore
dei miei occhi; mi ero agghindata come una fanatica del rock (genere
che non apprezzavo particolarmente), comportandomi proprio come faceva
lui, arrivando anche a farmi disprezzare da persone, che ritenevo
simpatici. Mi ero rovinata l'esistenza, avevo rovinato ciò
che
mi rendeva diversa dal mondo, perdendo la mia identità, solo
perché credevo che infondo, anche lui mi amasse...
A quanto pare
però, io ero solo una bambola di pezza che usava
per ingelosire l'oggetto dei suoi desideri...
Avrei dovuto capirlo,
quando mi
disse che non dovevo dire nulla della nostra relazione; avrei dovuto
immaginarlo, quando mi diede uno schiaffo, solo perché
volevo
essere trattata come la sua ragazza invece che come
un'estranea;
ma ero davvero troppo cieca allora.
Castiel... Il suo nome
suonava in
modo così strano, come se fosse solo un frammento, un
piccolo
frammento di una vita precedente, una vita che avrei tanto voluto
buttare in un dirupo; seppellirla sotto metri e metri di terra;
soffocarla, fingere che non fosse mai esistita.
Dopo la "rottura", ero
diventata
invisibile agli occhi di tutti, nessuno mi guardava o rivolgeva
più la parola, persino le persone che credevo miei "amici",
iniziarono a fingere che non esistevo. E così, lentamente,
ero
scesa nell'anonimato, diventando quella bambola a cui nessuno presta
più attenzioni, perché vecchia e logora.
- Tesoro, è
arrivato il tuo
professore! - urlò mia madre destandomi dai miei pensieri
poco
piacevoli, peccato però, che il professore in questione, mi
ricordasse ogni santo giorno di tornare a scuola; sì,
perché avevo deciso di non frequentarla più, non
avevo la
minima intenzione di tornarci.
Alzandomi dal letto a
malavoglia,
posai lo sguardo sullo specchio che era appeso sulla parete arancione,
vicino la porta. Erano passati davvero molti mesi dall'ultima volta che
mi ero fatta la tinta; i capelli adesso non erano più corti,
anzi, erano abbastanza lunghi. La mia ricrescita era castano chiaro,
quindi potete immaginare che casino fosse accaduto. I miei capelli
erano una massa informe, di due colori differenti. Le punte erano di un
rosso scuro, da sembrare sangue, mentre il resto era castano. Il fatto
che non mi facessi una piastra da quasi sei mesi poi, mi faceva
sembrare una pecora, la Pecora Dolly, sì, il primo essere
vivente ad esser stato clonato. Ero abbastanza dimagrita, ormai non
riuscivo più a mangiare, se facevo due pasti al giorno - a
volte
uno -, era già tanto. I vestiti mi stavano tutti largi, ed
erano
per la maggior parte tutti da rocchettaro fanatico, ma non avevo la
minima intenzione di buttarli, infondo, avevo sprecato molti soldi per
comprarli, quindi avevo deciso di tenerli. Mi passai una mano tra i
capelli, per pettinare quel ciuffo ribelle che copriva leggermente il
mio occhio sinistro. Sbuffai rumorosamente e misi le mani sui fianchi.
Il professor Faraize era una vera palla al piede, come anche la
preside, che non mi dava un attimo di tregua. Ogni santissimo giorno,
il professore - sotto incarico della preside - veniva a casa mia per
portarmi i compiti che venivano assegnati a scuola, e controllava se
avevo fatto quelli che mi portava il giorno precedente.
Perché
non si stancava di me? Era quella la domanda che mi facevo
continuamente, una volta glielo dissi pure, ma lui si limitò
a
rispondere che ero una ragazza troppo brillante e non voleva che
sprecassi il mio talento. Che poi, qual era il mio talento? Suonavo il
pianoforte, la mia media a scuola era del sette, ma questo non
significava che ero brillante. Ero solo una comunissima e banalissima
diciassettenne complessata, che aveva paura del mondo esterno.
Presi il quaderno
degli esercizi di
matematica e mi apprestai ad uscire dalla mia camera. Percorsi il
corridoio con passi lenti, pensavo a cosa mi aspettasse. Vedere persone
estranee era diventato per me una sorta d'ansia. Varcata la soglia del
salotto, vidi il professore che parlava con mia madre. Lì,
fermo
a parlare e ridere allegramente, c'era il mio "caro" professore,
vestito come ogni santo giorno: maglioncino blu, camicia bianca sotto;
jeans blu scuro e banalissime scarpe da ginnastica. I capelli castano
scuro - praticamente quasi neri - erano pettinati come al solito, mi
chiedevo chi fosse il suo barbiere, magari andava dal Scemo e
più Scemo fun club. Quei gli occhiali poi, che portava
sempre
sulla punta del naso, lo rendevano ancora più... Noioso!
- Oh, ciao Lyla, non
ti avevo
vista, come va? - mi rivolse un sorriso, il migliore che la sua faccia
potesse fare. Faraize era un uomo davvero strano, sembrava il classico
tipo: vivo ancora con mia madre. Forse era per questo motivo, che si
faceva mettere facilmente i piedi in testa dalla preside, dagli altri
professori e persino dai suoi studenti.
- Come sempre
professore, - risposi con voce atona.
- Ah, il
tè! Vado a fare il
tè! - disse mia madre affrettandosi ad andare in cucina.
Chissà perché ogni volta che vedeva Faraize era
tutta
elettrizzata, qualcosa mi diceva che mia madre s'era presa una cotta.
Bé, dopotutto non mi sarei stupida, a lei erano
sempre
piaciuti i nerd, non a caso aveva sposato mio padre.
- Ecco tenga, questi
sono i compiti di ieri, - mi affrettai a dargli il quaderno, sperando
che se ne andasse il prima possibile.
- Bene, fantastico! -
lo prese
immediatamente e cominciò a sfogliarlo. Prese una penna che
teneva in tasca (perché una persona normale tiene delle
penne in
tasca, certo!) e cominciò a scriverci qualcosa. - Eccellente
come sempre, - annunciò "Già certo!" - Vedo
però
che hai ancora difficoltà con l'equazioni, ma d'altronde non
sono certo io che devo correggere certe difetti, - rise istericamente e
si grattò la testa. Per attimo mi chiesi se lui li sapeva
risolvere quell'equazioni, dopotutto era un semplicissimo professore di
storia, che ne sapeva di matematica? Credo che, se li sapesse
fare o meno, agli altri professori non importava, l'importante era che
in qualche modo, mi convincesse a tornare a scuola. "Come se fosse
così semplice convincermi!"
Non c'era
più nulla da fare,
io era un caso disperato, man mano che passava il tempo avevo
sviluppato una certa fobia per il mondo esterno. Preferivo rimanere
segregata in casa, nella mia camera da letto a scrivere o pensare,
invece che uscire fuori come ogni normale essere umano. "Quando sei una bambola, non
c'è alcun bisogno del mondo esterno" mi diceva
una vocina, che io ascoltavo sempre.
Il silenzio cadde, non
c'era molto
di cui parlare con Faraize, era più noioso di un bradipo,
solo
guardarlo mi faceva venire sonno. Dopo qualche minuto buono,
arrivò mia madre con il tè verde che aveva
comprato in
Giappone nel suo ultimo viaggio con mio padre. Odiavo quel
tè,
odiavo sia il sapore che l'odore, come facevano a berlo per me era
ancora un mistero. Il professore lo trangugiò in due sorsi -
era
un mostro -, mentre io continuavo a guardarlo con disgusto.
- Non ti piace? - i
suoi occhi
violacei si soffermarono un attimo sui miei. Anche se il suo modo di
fare era goffo e da vecchio... Non potevo negare che il
realtà
era un giovane professore di appena trent'anni, anche se sembrava molto
più vecchio "Merito di quei cosi che scambia per vestiti,
per
non parlare di quell'acconciatura e degli occhiali alla Harry Potter"
- No, - risposi
semplicemente.
Mia madre era davvero
molto presa
da lui, anche se non sapevo che ci trovasse d'interessante, era un
normalissimo e noiosissimo professore di storia. Alzandomi dal divano,
mi diressi verso la cucina per gettare quel liquido verdastro che mi
guardava come per dirmi: avvelenerò le tue papille
gustative. Lo
gettai nel lavandino e aprii il rubinetto, facendo scorrere l'acqua. Lo
scrosciare di quel liquido nel lavandino, mi rilassava, svuotava la mia
mente dai pensieri più oscuri. Era passato così
tanto
tempo dall'ultima volta che avevo messo piede fuori da quella casa, che
a malapena ricordavo com'era il mare. D'estate Sète era
bellissima, ma anche d'inverno non mi dispiaceva. L'odore del mare; il
sapore salato sulle labbra; la sabbia sotto i piedi; la brezza del
vento che mi accarezzava dolcemente; più di ogni altra cosa
era
quello che mi mancava. Immersa nei miei pensieri, non mi accorsi che si
avvicinò a me per chiudere l'acqua.
- Sprecare l'acqua di
questi tempi,
dovrebbe essere considerato un reato, - la sua voce mi
attraversò la mente. Voltandomi leggermente verso di lui,
notai
che si era tolto gli occhiali, senza, i suoi occhi si notavano molto di
più, di certo non erano comuni come i miei, che erano di un
banalissimo nocciola.
- Scusi, - davanti a
lui non
riuscivo mai a formulare più di una frase, non
perché mi
mettesse in soggezione, ma perché non c'era proprio niente
da
dire. - Voleva qualcosa? - mi affrettai a dire notando che, se era in
cucina, significava che aveva bisogno di qualcosa.
- Nulla di
particolare, volevo
solo... - si passò una mano tra i capelli leggermente
imbarazzato, - ecco... Tua madre mi ha chiesto se... Be, -
diventò bordeaux, - se potevo portarti al mare, - a quelle
parole sbiancai di colpo. "Professore più mare,
più
studentessa complessata con la paura del mondo esterno, uguale:
catastrofe. Digli di no, digli di no!" diceva la vocina seriamente
impaurita.
- Preferirei di no, -
dicendo così mi affrettai a lasciare quella cucina che era
diventato un ammasso d'imbarazzo.
"Le
bambole che sono state gettate, non possono essere raccolte come se non
fosse successo nulla. Anche gli oggetti hanno dei sentimenti!"
affermava la vocina infastidita, non potevo darle torto, dopo tutto
quello che era successo, non era proprio il caso di ricominciare ad
illudermi.
-
Perché no? Mi reputi
quel genere di uomini? Vorrei solo che uscissi dal tuo guscio e
tornassi ad essere la ragazza di un tempo, - si avvicinò.
- La ragazza di un
tempo...? -
analizzavo quelle parole, le pesavo per capire che valore avessero nel
mio mondo fatto d'illusioni frantumati. La rabbia mi assalì.
-
Quella ragazza non è mai esistita! Era solo un'illusione che
mi
ero creata, è questa la vera Lyla!- affermai con tono
adirato.
Che ne sapeva lui di me? Non mi conosceva affatto, nessuno conosceva la
vera Lyla, nessuno!
Lanciandogli un ultimo
sguardo, mi
apprestai ad andare in camera mia. Chiudendomi la porta alle spalle,
sprofondai a terra, le gambe non riuscivano a reggermi, le sentivo
molli; le mani tremavano e sentivo i battiti accelerati, tutta colpa
dell'adrenalina che era salita a mille. Rispondere in quel modo, ad una
persona adulta, non era da me, non della Lyla taciturna e riservata.
Prima che venissi "gettata", prima di diventare una bambola che il
mondo non voleva, ero diversa, talmente diversa, che mi son sempre
chiesta se fossi veramente io. Mi alzai lentamente; appoggiandomi alla
scrivania, presi un piccolo album di fotografie, lo aprii e sfogliai le
pagine come se fosse un vecchio libro che raccontava una storia triste.
Erano passati quasi due anni da quando tutto cambiò. Dopo
anni a
girovagare in giro per il mondo, finalmente i miei genitori decisero di
trasferirsi definitivamente, ciò significò una
nuova
scuola, nuova città e nuove persone da conoscere. Per me fu
quasi una benedizione, o almeno lo fu all'inizio; per colpa dei troppi
trasferimenti non ero mai riuscita a farmi degli amici, inoltre ero
piuttosto timida e quindi finivo sempre con l'essere isolata, quindi
per me quella era un'occasione per avere almeno un amico, ma non fu
proprio così... Entrata al nuovo liceo, finii con
l'innamorarmi
del peggior essere vivente esistente sulla faccia della terra.
Castiel... Il classico cattivo ragazzo, che speri di poter cambiare con
le tue attenzioni e il tuo amore; peccato però, che non
è
tutto come viene descritto nei romanzi rosa o in quelle
stupide
commedie romantiche, la realtà era ben diversa...
Non sapevo cosa mi
piacesse di lui,
sapevo solo che il cuore mi batteva a mille; le gambe tremavano;
sentivo le farfalle allo stomaco e sudavo come un cavallo, ogni volta
che l'avevo vicino o semplicemente incrociavo il suo sguardo. In
pratica ne ero terribilmente innamorata, ma tutto finii nell'istante in
cui venni umiliata di fronte a tutta la scuola. Umiliata, usata e
gettata via come se fossi solo uno straccio usato, come un giocattolo
vecchio con cui ti sei stancato a giocare; venni abbandonata come un
povero e indifeso cagnolino, che non porti con te in vacanza
perché sarebbe di troppo. Ecco, io ero di troppo, il solo
fatto
che esistessi, intralciava la sua vita...
"Io
odio il mondo, odio le persone... Detesto i bambini che giocano con i
sentimenti degli altri; odio tutto ciò che mi ricorda che
sono
inutile a questa società fatta di cloni e manichini... Se le
bambole potessero parlare, direbbero le stesse cose..."
E'
questo quello che pensai nell'autunno dei miei diciassette anni...
~L'angolo
della bugiarda~
"Si
sa, che le bugie hanno le gambe corte e il naso lungo, chiedete a
pinocchio..."
Shiau a tutti,
codesta schifezza
che avete avuto la (s)fortuna di leggere è la mia prima FF
che pubblico, comprendo che non è un granché, ma
volevo
comunque provarci. Ogni commento è gradito, sia positivo che
negativo, l'importante è che non offendete. So perfettamente
che
non sono una cima in grammatica, inoltre la storia è
piuttosto
banale, ma di meglio non so fare, scusate!
L'idea mi
è venuta in un
momento di depressione totale, penso che tutti almeno una
volta
nella propria vita si sia sentito inutile, come un giocattolo
dimenticato, solo perché vecchio e malandato.
Non ho idea se esista
davvero una
sindrome simile - quella della bambola -, ma dopo aver letto il manga
di Kodomo no omocha, non potevo non infilarci dentro la cosa, anche se
è completamente diverso da quello che prova Sana.
Avrò ripetuto la parola "bambola" un casino di volte,
abbiate pietà, ve l'ho detto che non sono una cima in
grammatica :'3
Bé,
spero che questa mia piccola FF piaccia e che commentiate
>_<
A presto!
P.S. Lo sgorbio ad inizio capitolo l'ho fatto io, dovrebbe essere Lyla.
Non abbiate paura, non morde! Almeno spero XD
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