Autrice:
Soffiodargento
Serie: Band
of Brothers (sis perdonami ;_;)
Rating: non saprei effettivamente,
comunque non succede nulla.
Capitolo: unico.
Declaimers: come di dic ein questi
casi? I personaggi sono reali e appartengono solo a se stessi? Boh? Fatemi
sapere!
Pairing: Nixon-Winter o
Winter-Nixon, fate voi ^^.
Note: chiedo scusa già da ora. Voi
direte: non bastavano le yaoi? Ora pasticcia pure con le slash? E avete ragione!
Solo che è il compleanno della sis e, come ogni anno, voglio regalarle una mia
pazzia. Tanto la sis mi perdona, vero *_*? Giù il mitra sis >.< ! È un po’
piccolina ma spero ti piacerà lo stesso.
Note 2: chiedo scusa per ogni
irregolarità e diversità dalla storia originale, ma la mia memoria è ormai un
treno deragliato usurato dal tempo. Forse i due protagonisti vi sembreranno ooc,
ma credo che la guerra cambi un po’ tutti.
*** *** ***
La porta si richiuse alle mie
spalle con un tonfo sordo. Rimasi a guardare il mio appartamento vuoto che di
notte mi sembrava ancora più squallido.
Aprii il frigo e presi una birra,
prima di accendere la tv e andarmi a sedere sul divano.
Da quanti anni era finita la
guerra? Se guardavo fuori dalla finestra sembrava non essere scoppiata mai.
L’America pacifica continuava a dormire sul suo letto di sogni di celluloide
cancellando il ricordo di ciò che era stato. La guerra? Solo il soggetto
dell’ennesimo film di Hollywood. Eppure se chiudevo gli occhi potevo ancora
sentire vivo il ronzio delle granate e il passo pesante dei tank. A volte, la
mattina, guardandomi allo specchio, faticavo a riconoscervi l’immagine che di me
avevo creato nel presente. Il volto mi sembrava sempre troppo emaciato e
contuso. Sui miei abiti nessun prodotto per il bucato riusciva mai ad eliminare
l’odore acre del sangue.
“Devi lasciarti la guerra alle
spalle” continuava a ripetermi Nixon, “Ormai è tutto finito”. Ma guardandolo
negli occhi mi chiedevo se almeno lui credesse alle sue parole.
Dei miei compagni avevo perso ogni
traccia.
Il mese precedente c’era stata una
riunione di vecchi commilitoni a New York. Dopo aver cercato di convincermi a
seguirlo, Nixon era partito da solo. Per tre giorni ero rimasto ad osservare il
telefono muto, aspettando una chiamata che, sapevo, non sarebbe mai giunta,
perché lui non ne era il tipo e perché io non la volevo, anzi la temevo e lui lo
sapeva. Al suo ritorno, come da tacito accordo, la nostra vita e la nostra
amicizia erano ripartite da quel momento di stallo, come se nulla fosse mai
accaduto.
Solo con il tempo, centellinando
le parole, inframmezzando i discorsi al rumore assordante della strada e al
ronzio confuso della tv, Lewis mi aveva fornito qualche notizia. Il più delle
volte l’aveva fatto sorseggiando il suo bicchiere di whisky, quello stesso che
mai aveva smesso di bere, buttando giù, ad ogni sorso, un ricordo o un pensiero.
Io ero rimasto in silenzio, come sempre avevo fatto, trincerato in quel silenzio
un po’ imbarazzante e tuttavia familiare. E poi con lui non c’era mai stato
bisogno di parole. Uno sguardo, una smorfia erano sufficienti per noi, lo erano
stati in Europa, durante la grande guerra, dove ogni parola poteva significare
la morte o la vita dei miei uomini, ed erano sufficienti lì, in quegli attimi
che appartenevano solo a noi.
Tuttavia, quella sera, quel
silenzio che mi aveva accompagnato e rincuorato durante quei giorni bui, mi
appariva come un estraneo e sembrava riportarmi indietro nel tempo.
“E’ che tu la guerra te la porti
dentro il cuore.” mi aveva detto una volta Nixon fra i fumi dell’alcol. Io avevo
riso: “Che diamine dici? Sei strafatto di whisky!” eppure avevo sempre pensato
che lui avesse una vista più profonda della mia.
In vino veritas. Forse è per
questo che avevo sempre cercato di evitare ogni contatto con lui quando si
ubriacava. Ogni parola, pungente come un ago, colpiva sempre dove la ferita
restava scoperta, in quel millimetro di carne aperta al cielo, lasciata libera
dalla benda troppo corta. Tuttavia, più io lo allontanavo, più lui mi seguiva e
ogni volta che mi voltavo lo trovavo dietro di me, con quel suo passo
traballante, come un cane che ritrova la strada dopo l’abbandono.
“Tu la guerra te la porti dentro
al cuore” e forse aveva ragione.
Forse è vero, forse non sono mai
ritornato in America, forse sono rimasto fra le alpi austriache, in Europa, a
leccarmi le ferite dopo la nostra sconfitta. Sì perché a volte la mia mente,
implacabile, mi sussurra all’orecchio che i veri perdenti siamo noi e che lui,
quel bastardo che ci ha ucciso e che ha portato il mondo sul baratro della
follia, in realtà se la stia ridendo. La guerra non è mai finita, continua
ancora, nei nostri sogni, nelle nostre menti, nel nostro mondo fatto di piccole
realtà, ed alla fine di ogni battaglia ci ritroviamo sul campo doloranti e pieni
di ferite. È questa la vera sconfitta.
6 giugno 1954. Sono trascorsi già
10 anni dall’operazione Overlord che ci portò dalla pacifica America alla
vecchia Europa in subbuglio, sconquassata da una lunga e insensata guerra. Mai
avrei immaginato che la guerra i cui cannoni vedevamo nei brevi notiziari al
cinema potesse arrivare a bussare alle nostre porte. Era tutto così sfumato e
apparentemente semplice. Andiamo, ammazziamo Hitler e ce ne ritorniamo a casa,
sani e salvi, alle nostre vite di sempre, congelate nell’attimo della partenza.
L’America ha bisogno di noi. Il vecchio Zio Sam ci guardava dai cartelloni
colorati con quello sguardo severo. E’ la guerra ragazzi e sta chiamando voi, la
sentite? Sembrava dire questo, dentro la sua giacca blu laminata e sotto quel
cilindro a stelle e a strisce.
Semplice: andiamo, sbarchiamo,
diamo un calcio nel culo al bastardo, con tanti auguri dall’America e ce ne
ritorniamo a casa.
Chi ha potuto.
C’è stato un momento in cui mi
sono chiesto se qualcuno di noi sarebbe mai ritornato a casa. In Belgio, alle
porte dell’infero di ghiaccio che si sarebbe rivelato Bastogne, mi sono chiesto
spesso se qualcuno di noi si sarebbe mai salvato. Al di sopra della collina
ghiacciata, con i miei abiti che lasciavano trapelare tutto il freddo
dell’inverno del nord, mentre alzavo il fucile per sparare al bastardo crucco
(un ragazzino... merda!) mi sono chiesto quanti di noi sarebbero stati
seppelliti negli anonimi cimiteri di guerra.
Cosa mi abbia impedito di
impazzire non lo so neppure adesso.
E poi alla fine ce l’abbiamo
fatta. Dopo la morte di Hitler il tempo ha preso a correre, forsennatamente. Di
lì a poco l’esercito tedesco e quello giapponese si sono arresi e noi siamo
infine ritornati a casa. Ma quanti morti ci hanno portato alla pace? Perché per
la follia di un uomo il mondo intero ha corso il rischio di sparire avvolto
nelle tenebre?
Ancora adesso, a distanza di anni,
certe mattine mi sveglio di soprassalto. Allungo la mano al mio fianco cercando
di afferrare un fucile che non c’è più, solo perché, nella folle confusione dei
miei ricordi, il clacson di un camion diventa il cigolio interrotto di un tank,
o perché le urla in strada assomigliano al dolore dei feriti.
Mi sono sempre chiesto come
abbiano fatto gli altri a dimenticare, a riprendere la loro vita. Io non credo
di esservi mai riuscito e non solo perché, come diceva Lewis, la guerra me la
porto dentro, ma anche perché certe cose non si possono mai dimenticare.
Quando andai a Parigi, poco dopo
la mia prima promozione, quasi costretto da Lewis, ricordo che girai per la
città in preda ad un sogno sfumato. I soldati chiacchieravano fra di loro nei
cafè, come non avessero mai impugnato un’arma; per strada la gente sorrideva, si
scambiava sorrisi, rideva allegra. Quella città, sebbene fino a poco prima,
invasa dai tedeschi, sembrava fuori dal mondo, una sorta di isola che non c’è
lontana da tutto in cui nessun rumore assomigliava al fischio delle mitragliette
e le uniche grida erano di gioia. In America, mi chiedevo, cosa stanno facendo?
Che immagine hanno di ciò che sta accadendo qui?
Quando poi incontrai quel ragazzo
sul metrò, il suo viso mi diede i brividi. Fu quello il momento in cui capii
che, per quanto lo odiassi, non avrei potuto far altro che il soldato perché
ormai ero diventato parte del grande meccanismo della guerra. Il volto di quel
ragazzo sul metrò mi ricordò il nazista ucciso in Belgio, sopra la collina.
Ricevetti elogi e una promozione per quella battaglia. Eppure non avevo fatto
altro che macchiarmi di sangue. Forse in un altro tempo, in un’altra vita io e
quel soldato avremmo potuto guardarci in volto e parlare da amici, perché in
fondo non era che un ragazzo, vittima di una follia superiore.
Il telefono squillò più volte
quella sera e nel silenzio irreale della mia stanza mi apparve stranamente
rilassante. È Nixon, pensai. È sicuramente lui e presto verrà a bussare alla mia
porta, come sempre, e come sempre accadeva quel pensiero riusciva a dileguare il
fango dei miei ricordi. Rilassato come ormai non mi capitava da molto, mi
addormentai sulla poltrona, con una birra in mano, con ancora i vestiti da
lavoro addosso, troppo stanco persino per muovermi.
Quando sentii suonare il
campanello erano già le undici di sera. Cercai di raccattare in fretta quel poco
di dignità umana che mi rimaneva, mi pettinai alla meno peggio i capelli con le
mani, posai la birra sul tavolo ed andai ad aprire.
“Ce ne hai messo di tempo!” mi
disse facendosi largo fra la confusione.
“Entra pure” risposi ironico.
“Certo che il Grand Hotel al
confronto sembra uno spogliatoio studentesco.”
“Hai ragione, ma è colpa tua.
Avessi saputo che saresti venuto, con quel bel vestito da sera nero, il cappotto
immacolato, avrei chiamato in fretta i camerieri!”
“Ridi ridi! E poi non hai sentito
il telefono?” mi disse togliendosi il cappotto.
“Certo che l’ho sentito ed è per
questo che non ho risposto, credevo fossi tu!” ridacchiai contento: “E poi
dovresti essermi grato, almeno ti sei risparmiato una serata di gala della
famiglia Nixon.”
“Touchè! E comunque qui c’è
davvero troppa confusione. Dovresti trovarti una moglie.”
“E a che mi serve? Ho te, no? Mi
basti tu a rimbrottarmi per tutto e a seguirmi dappertutto. E per la casa c’è
sempre la signora Smith.”
“Che però ha disertato stamani, a
quanto pare. 20 giri di campo?”
“Oggi hanno disertato tutti” dissi
sedendomi con un tonfo sulla poltrona: “Oggi si festeggia”
Rimanemmo un po’ in silenzio.
Lewis fece un giro del salotto e si soffermò ad osservare le fotografie appese
alle pareti. Io e lui in uniforme dopo il nostro ritorno in America, io e lui
davanti ad una delle sue industrie, io e lui davanti alla mia auto nuova, io e
lui... ovunque in questa stanza. Io cercai nervosamente il telecomando, senza
peraltro riuscirvi. Al mio ennesimo “dannazione” Lewis si voltò e si avvicinò al
tavolinetto in legno.
“Idiota, ce l’hai in mano!”
Sono sicuro che arrossii, ma lui
fece finta di nulla e prese la birra dal tavolo.
“Sei sempre così. Quando sei
stressato non troveresti neppure la tua testa.” e dopo un assaggio continuò: “Ma
che schifo bevi? Meno male che c’ho pensato io!”
Solo allora mi accorsi della busta
di carta appoggia sul divano.
“Whisky?” domandai indicando la
busta.
“Della mia marca preferita!”
“Un giorno dovranno cambiargli
nome e chiamarlo Whisky Nixon!”
“Non suona male, no?”
In quel momento dalla strada,
giunse il rumore assordante della popolazione in festa. Il mio appartamento,
fino ad allora immerso nel silenzio, si ravvivò di suoni e colori. Nixon si
affacciò alla finestra.
“E’ festa per tutti” mi disse
continuando a darmi le spalle: “E noi due siamo qui, nel tuo appartamento
rumoroso, con due bottiglie di whisky a ricordare il passato...... Cosa c’è di
meglio?”
“Niente” risposi andandomi a
risedere sulla poltrona: “Proprio niente.”
Lewis chiuse la finestra e andò in
cucina.
“Come hai fatto a stare chiuso qui
con tutto quel baccano?”
“Non lo so. Non l’ho sentito.”
“Continuo a dire che dovresti
trovarti una moglie.” disse porgendomi un bicchiere colmo fino al bordo.
“E se poi mi diventi geloso?”
“Basta che a me riservi sempre il
meglio. Alla salute!” disse buttando giù tutto d’un fiato il primo bicchiere:
“Non c’è niente di meglio di una buona sbronza!”
“Che ti dirà Nadine (NDA: nome
puramente inventato) quando tornerai a casa ubriaco?”
“Urlerà, sbraiterà un po’... come
le altre, insomma. E se sono fortunato la trovo già a letto a dormire.”
“Non sei stanco di tutto questo
girare attorno? Continua così e finirai con il perdere il conto di tutte le
mogli che collezionerai!” dissi sorseggiando il mio bicchiere.
“Buttalo giù d’un fiato o non fa
effetto! E poi che posso dire? Sono innamorato dell’amore.”
“Lo dirò alla tua prossima
moglie.” dissi valutando i centimetri di liquido ambrato nel mio bicchiere.
“Per quel che vale....
L’importante è che ci sia tu, per il resto...”
Bevve altri due bicchieri con
l’abilità del bevitore incallito. Anche nell’Easy conoscevano tutti questo lato
di Nixon eppure nessuno se ne era mai lamentato. Un buon bicchiere di whisky
riusciva a farti dimenticare persino chi dov’eri. Ognuno trovava il proprio modo
per scacciare i fantasmi.
“Ancora il primo? Eh no amico!
Mica sono venuto qui per vedere un bicchiere vuoto!”
“E allora perché sei venuto?”
risposi un po’ piccato mentre riempivo il bicchiere.
“Sono venuto per te, perché oggi
festeggeremo anche noi.”
Si alzò e fece un giro su se
stesso alzando il bicchiere come a proporre un brindisi.
“Alla Easy Company! A chi è
tornato a casa e... a chi non ce l’ha fatta! A noi e ai nostri fantasmi!”
Buttai anche io giù il mio
bicchiere di veleno e in un attimo mi sentii bruciare dentro, come se un fuoco
fosse stato acceso proprio nelle mie viscere.
“E’ il whisky! Quando lo bevi in
un sorso ti manda dritto all’inferno.”
“Avremmo potuto usarlo a Bastogne
per riscaldarci.” mormorai riempiendo un altro bicchiere: “Alla nostra salute!”
Tre bicchieri dopo ci ritrovammo
nella fase allegra della sbornia. Lewis, seduto ai piedi del divano, senza
scarpe né giacca, con la cravatta slacciata e i gemelli gettati chissà dove,
rideva ricordando le nostre facce quel giorno in cui partimmo per l’Europa,
mentre assaggiavamo il gelato.
“Quei bastardi ci hanno proprio
fregato, eh?”
Io, se possibile, mi ritrovavo in
uno stato ancora peggiore. Incapace di formulare una frase di senso compiuto,
ridevo alle battute di Nixon senza neppure sapere perché. E mentre raccontava,
nuovi particolari ritornavano alla mente, particolari quasi dimenticati... il
medico che correva da un ferito all’altro fra le trincee... i pasti sempre molto
scarsi... i calzini bucati che proteggevano ancora meno delle nostre uniformi
estive... le macerie e le città in fumo… la faccia di Lynn quando ha perduto se
stesso nel buio... e poi il campo di concentramento, i prigionieri dalle ossa di
cartapesta, così fragili da temere di spezzarli con il pensiero... la forza di
Bull... il coraggio di Lipton... e senza neppure accorgermene iniziai a
piangere, come mai mi era accaduto in vita prima di allora. Lacrime che non
avevo versato neppure su un campo di battaglia, neppure alla fine di quel grande
caos.
“Cosa fai, piangi?” mi disse
avvicinandosi e io mi riscoprii incapace di rispondere e mi limitai soltanto ad
abbassare la testa, cercando stupidamente di non farmi vedere.
“Non c’è niente di male, sai? Fa
bene piangere, specialmente a te.”
Sentii la sua mano accarezzare
piano i miei capelli e spingere, con un leggere tocco, la mia testa sulla sua
spalla.
“Per una volta lascia che sia io a
vedere le tue lacrime.”
Rimanemmo in silenzio,
accompagnati solo dalle mie lacrime e dai miei singulti.
Sentivo la mano di Lewis scivolare
sulla mia nuca, in un gesto che mai avrei permesso a qualcuno, solo a lui.
“Devi smetterla di farti del male.
La guerra è finita. Non dico che tu debba dimenticare, perché questo è
impossibile, ma devi accettare quel che è accaduto e andare avanti.” e la sua
voce riusciva a calmare il mio animo sconvolto.
Per anni avevo cercato di
dimenticare, di gettarmi alle spalle tutto ciò che avevo vissuto. Avevo provato
a ritornare alla mia vita, così come era stata prima di arruolarmi, ma non vi
ero riuscito. Per quanto avessi provato, avessi camminato, non ero mai riuscito
a dimenticare. La notte mi assalivano, in un turbinio frenetico, i ricordi della
mia vita passata, i volti disperati dei caduti sul campo di battaglia, voci che
urlavano il mio nome, che chiedevano aiuto, occhi che mi rimproveravano di
essere ancora vivo.
“Non è stata colpa tua! Se non
fosse stato per te, non ce l’avremmo fatta a tornare a casa. Lo sai?” mi disse
scostandomi da lui e guardandomi negli occhi: “Sei il mio eroe personale (*)!”
Ed accadde proprio in quel
momento. Fu la fine di tutta le mie certezze e della mia vita così come l’avevo
vissuta e l’inizio di qualcosa ancora più sorprendente. Non so come accadde,
forse fu l’atmosfera fra di noi pervasa di ricordi e malinconia o forse
semplicemente era destino che accadesse, forse era solo la naturale evoluzione
di ciò che fra noi c’era sempre stato. In quel momento, in quel preciso attimo
in cui il tempo stesso sembra essersi fermato, ogni suono tacque. Il brusio
proveniente dalla strada scomparve e persino il silenzio che prima aveva regnato
sovrano assunse un altro colore e un’altra consistenza. Tutto attorno a noi
sfumò e scomparve inglobato da un bianco splendente. Mai prima di allora avevo
provato quel senso di annullamento e agitazione e fermento. Non so come accadde,
so solo che avvenne in un attimo. Inconsciamente le sue labbra toccarono le mie
in un tocco leggero. Lewis rimase a guardarmi, mentre le sue dita accarezzavano
le mie guance. Forse disse qualcosa, ma io non sentii nulla. Chiusi gli occhi e
accarezzai le sue labbra e il nostro secondo bacio, dapprima soffice carezza,
divenne sempre più profondo, fino alla perdizione.
Fu la fine e l’inizio.
La fine della nostra amicizia,
semplice e pura com’era stata, e l’inizio di quel sentimento, profondo,
avvolgente e unico, che ci avrebbe tenuto legati fino alla morte e ancora oltre.
Un sentimento che annullava tutto il mondo e le sue convinzioni emarginanti e
che ci avrebbe donato solo calore e leggerezza, anche fra le lacrime. L’amore
che avevamo sempre cercato.
Fine
Ps: tanti auguri sorellina!
Miliardi di giorni felici e che tu possa ottenere dalla vita solo il meglio!
Ti voglio bene,
tua sist Soffio
(*) sis scusa per il furto ;_;! Per chi non lo
sapesse la frase è tratta da una ff su Slam Dunk della sis *_* |