Violet
L’avevano presa quando aveva solo sei anni. Poteva ricordare
una mano che si avvicinava avvolta dal buio, come in un incubo. Una
mano che la afferrava e la strappava dalla sua casa, o da qualsiasi
altro luogo in cui si trovasse.
Solo quella mano spesso tornava nei suoi sogni affollati di cose buie e
spaventose.
Nient’altro.
E’ ancora
così buio.
La bambina cadde in ginocchio, stringendo i capelli lunghi fra le dita.
Mi fanno male le gambe.
Perché non mi lasciano in pace?
Piangeva stringendo sempre più forte le mani contro la testa.
Lasciatemi tornare a
casa. Questa non è casa mia! Lasciatemi andare via!
All’improvviso urlò, piegandosi su se stessa,
rannicchiandosi il più possibile.
Due persone la sentirono, scossero la testa sospirando irritati.
Senza nemmeno parlare la sollevarono, afferrandola per le braccia.
No! NO!!
Lei gridava disperatamente, senza smettere di piangere, ma loro non
facevano caso a nessuna delle due cose.
La trascinarono fino all’infermeria, come sempre.
Dove, come al solito, sarebbe stata legata.
E, come ogni volta, si sarebbe addormentata dopo una buona dose di
tranquillanti.
Ancora addormentata l’avevano caricata sulla barca, e poi sul
treno. Lì aveva cominciato a svegliarsi.
Si guardava attorno ancora stordita dai farmaci, riuscendo a malapena a
mettere a fuoco le figure. Sapeva in ogni caso che accanto a lei
c’erano due persone vestite di bianco, con quelle croci sulla
divisa.
Una la portava anche lei, lo sapeva anche se non avrebbe voluto.
Le infilarono in mano una cartella, fingendo di non ricordare che non
avrebbe capito le cose scritte all’interno.
Si limitarono a rivolgerle un’occhiata indifferente, e
sbrigarono la faccenda con poche parole.
“Ci sono degli Akuma. Sai cosa fare” e
nient’altro fino alla fine del viaggio.
Lei aveva ancora un po’ sonno, sicuramente per colpa dei
calmanti, ma non aveva la minima intenzione di chiudere di nuovo gli
occhi. Si sforzò quindi di restare sveglia, e presto
arrivarono a una stazione.
Successivamente, seguì i due uomini mentre cercavano
l’obiettivo della loro missione. Lei semplicemente camminava
dietro di loro, guardando le punte delle scarpe nere che spuntavano da
sotto il vestito. Erano lucide, come il metallo. Terribilmente pesanti.
Le odiava.
Poi, ad un certo punto, sentì dei rumori. Pelle strappata,
suoni metallici.
Quando alzò gli occhi, vuoti, incontrò quelli
altrettanto vaghi di una macchina con una stella nera sulla fronte.
Lei restava a fissarli, mentre i due uomini vestiti di bianco si
nascondevano e la lasciavano lì da sola.
Erano entrambe bambole. Lei una bambola umana costretta ad obbedire a
persone che l’avevano portata via da quello che restava della
sua famiglia, senza darle in cambio niente. L’altra una
macchina creata da una tragedia e due anime ingannate, tradite dal suo
stesso costruttore.
Le scarpette nere ai suoi piedi si attivarono, dandole quella
spiacevole sensazione di qualcosa che incatenava le sue gambe.
Vide l’Akuma puntare le armi su di lei, ma ancora non si era
mossa.
“Che diavolo fai? Attaccalo!”
Uno di quei due codardi glielo aveva appena ordinato.
Due uomini adulti che si
fanno proteggere da una bambina…
Scattò in avanti, poi in alto. L’Akuma
seguì i suoi movimenti finché la bambina non
tornò verso il suolo, quasi precipitando, distruggendolo.
Che cosa
orribile…
I due uomini uscirono dai loro nascondigli, e ripresero
l’investigazione. La bambina li fissò solo un
istante, prima di tornare a guardare la luce azzurra sparire da attorno
alle sue caviglie.
Scalciava e si agitava con tutte le sue forze. Delle persone le erano
attorno e gridavano qualcosa, ma lei urlava più forte. E
piangeva in preda alla disperazione, ma nessuno le dava ascolto.
Normalmente la sgridavano, le gridavano, ordinavano di smettere. Poi la
prendevano e le bloccavano le braccia e le gambe. Qualcuno si
preoccupava anche di toglierle i Dark Boots prima che attivasse
l’Innocence. Non sarebbe stata la prima volta.
Una persona era in piedi poco distante, a dare tutti gli ordini. La
terrorizzava la sua sola presenza.
Poi, sempre tenendola ferma mentre lei cercava di liberarsi
inutilmente, tiravano fuori uno di quei medicinali.
Vedeva la punta dell’ago luccicare, e strillava
più forte. Ma, poco dopo il pizzicorio della sottile punta
metallica nella pelle, cominciava a sentirsi stanca.
Era anche per questo che li odiava. Tutto iniziò a girare e
la testa sembrava pesante. Sentiva il braccio bruciare, e poi quasi
bruscamente chiudeva gli occhi e non sapeva più nulla.
Apriva lentamente gli occhi, molto confusa, ogni volta che lo facevano.
Sapeva che ogni volta si sarebbe risvegliata in infermeria, ma non
riusciva a realizzarlo quando alla fine si ritrovava lì.
Cercò di alzarsi, ma le braccia non potevano muoversi. Come
tutto il resto del corpo.
L’avevano legata. Non che la cosa la sorprendesse.
Però era così ingiusto e incomprensibile.
Lasciatemi andare a casa, vi scongiuro..
Non riusciva nemmeno a parlare. E una figura scura si stava
avvicinando. Doveva dire qualcosa, così magari
l’avrebbe sentita e avrebbe assecondato il suo desiderio. Ma
poi si ricordava che ogni volta che diceva qualcosa di simile riceveva
una sola risposta.
“Tu sei una preziosa Esorcista”
Una preziosa…
Esorcista…
Un’anziana infermiera si accostò al suo letto,
guardandola preoccupata.
“Come ti senti, Lenalee?”
La voce risuonava quasi come un eco distante.
“Se ti senti meglio, puoi anche alzarti. Devi
mangiare qualcosa, ma poi potrai uscire da qui. Va
a…”
…uscire?
Gli occhi della bambina si riempirono di lacrime.
Posso… uscire?
La donna assunse un’espressione addolorata, accorgendosi che
la piccola l’aveva fraintesa.
“Puoi uscire dall’infermeria, e fare una
bella passeggiata. Ne hai bisogno…”
Lei non disse nulla, lasciando scivolare le lacrime che ormai erano
già affiorate, senza lasciare che altre le seguissero. Si
limitò a spostare lo sguardo sul soffitto, mentre
l’infermiera cominciava a slegarla.
“Adesso ti slego, Lenalee. Mi
raccomando… Ti prego, Lenalee, non metterti ad urlare. Non
ti agitare, e non cercare di scappare, o mi costringeranno a legarti di
nuovo. Ora… come ti senti? Riesci ad alzarti?”
Le sue parole premurose non la raggiungevano, se non distrattamente.
Con le sue mani sicure la aiutò ad alzarsi a sedere sul
letto, e a portare le gambe di lato. La aiutò a scendere e
la sorrese per un momento, mentre la piccola recuperava il suo
equilibrio.
Poi la portava vicino a un paio di scarpette bianche e gliele faceva
indossare.
“Così non ti farai male. Non
è sicuro camminare a piedi nudi, potresti farti male. Queste
servono a proteggere i tuoi piedi.” la donna parlava come se
un argomento qualunque le bastasse, per non sprofondare nel silenzio
tormentato della bambina.
Lei fissò le scarpe bianche con una smorfia che
riuscì a mascherare appena in tempo, poi lasciò
che due infermieri la accompagnassero fuori.
Camminava senza preoccuparsi di dove stava andando, e di tanto in tanto
i due dovevano prenderla per un braccio e costringerla a girare in un
altro corridoio.
Lei non badava minimamente alla strada, guardava solo quelle scarpette
bianche, a cui non era abituata. Da una parte le preferiva alle nere,
dall’altra proprio perché non erano quelle non le
sopportava.
Per una volta era riuscita a scappare da quelle persone che la
seguivano ovunque. Quei lunghi mantelli neri, incappucciati, come
fanatici di una setta segreta desiderosi solo di portarla in sacrificio
al loro Dio.
Oscillò vistosamente da una parte, accostandosi al muro. Lo
sfiorò con la mano, recuperando l’equilibrio, e
proseguì a passo incerto. Ogni tanto vedeva tutto vibrare
davanti ai suoi occhi, poi rimetteva a fuoco la scena e si ritrovava
appoggiata al muro. Altre volte in ginocchio, o stesa a terra, senza
ricordarsi quando era caduta.
Le gambe semplicemente non la volevano sorreggere, certe volte. Le
sentiva tremare anche in quel momento, e si accasciò a terra
priva di forze.
Cominciò a piangere, prima silenziosamente. In alcuni
momenti le sembrava di piangere per giorni senza mai fermarsi.
Probabilmente uno di quei giorni si sarebbe seccata, per tutte quelle
lacrime sprecate.
Strinse una gamba al corpo quando riprese a tremare, spaventandola.
Non smettete…
Non smettete… di funzionare…
Se le sue gambe l’avessero tradita, le avrebbero fatto quegli
esperimenti. L’avrebbero costretta con la forza a riuscire ad
utilizzare l’Innocence.
Tutto il corpo le tremava violentemente.
I caduti… I
caduti…
Strinse forte le dita tra i capelli, scivolando in avanti. Sentiva le
guance umide e le lacrime pizzicarle fastidiosamente gli occhi e il
viso mentre scendevano. Le faceva male la gola, perché
gridava e implorava sempre.
Una preziosa
Esorcista… Una preziosa... Esorcista…
Rimase molto tempo stesa sul pavimento di pietra. Almeno, a lei
sembrò un’infinità di tempo, ma
probabilmente non fu poi tanto, altrimenti loro l’avrebbero
già trovata.
Si rialzò in piedi, a fatica. Le girava la testa, pensava
ancora a quegli esperimenti. Pensava all’Innocence, alle sue
gambe, alla sua famiglia.
Se solo non fossi
compatibile non sarei qui… Se solo le mie gambe non
potessero sfruttare l’Innocence non sarei qui…
Barcollò leggermente fino alla finestra, e un vento sottile
la colpì in pieno viso, quasi risvegliandola.
Aprì gli occhi, ferita dalla luce intensa del sole.
Sì sentiva ancora male. Malissimo.
La odia… Odio
quest’Innocence… Odio queste gambe…
Odio questo posto…
La testa stava tornando pesante, e chiuse di nuovo gli occhi. Sentiva
qualcosa agitarsi dentro di lei, qualcosa di troppo fastidioso per
tenerlo dentro. Avrebbe voluto vomitare sperando di liberarsene, ma
sapeva non sarebbe bastato. Aveva messo le radici in tutto il suo
corpo, e sembrava pulsare, tirandola dall’interno,
lacerandola.
Nii-san…
Ricominciò a piangere, sempre più
incontrollatamente. Urlò, anche, e si sporse in avanti. Tra
le lacrime non vedeva nemmeno quello che c’era attorno a lei,
non vedeva il bordo della finestra, non vedeva il cielo o le nuvole.
Non vedeva la foresta che inghiottiva la base del palazzo.
Sentiva solo l’aria muoverle i capelli fastidiosamente.
Poi all’improvviso due braccia la afferrarono, tirandola via
dalla finestra poco prima che perdesse l’equilibrio.
Strillò, dibattendosi. Con tutta al sua voce, nonostante le
bruciasse la gola, anche quando la sentiva ormai in fiamme. Non
c’erano nemmeno parole tra le sue grida, solo disperazione.
Si agitava senza sosta, muovendo le braccia e le gambe. Anche quando
una mano le chiuse la bocca, continuò a scalciare, cercando
di liberarsi.
“Smettila di urlare! Smettila, o ti
troveranno!!”
A malapena sentì che qualcuno le urlava questo
nell’orecchio. Non voleva sentire, non voleva vedere nulla. E
la presa su di lei non voleva allentarsi. Un braccio stringeva le sue
al corpo, impedendole in parte di muoversi.
Quando si sentì troppo esausta smise di gridare. Solo
perché non riusciva più a farlo, ma dentro di se
avrebbe voluto urlare e dibattersi come un pesce appena pescato ancora
per ore.
Poi finalmente le sembrò di riconoscere qualcosa.
“Sei calma adesso?”
Respirava ancora a scatti, sentendosi quasi incapace di prendere aria
per bene. Il suo piccolo corpo era scosso da ognuno di quei respiri, ma
a poco a poco si stavano placando.
“Se sei calma ti lascio, ok?”
Infine riconobbe la voce. Deglutì con difficoltà,
sentendo la gola secca e bruciante. Annuì leggermente, e si
voltò appena per poter spostare gli occhi sul volto
corrucciato di Kanda.
Lui allentò un po’ la stretta, senza lasciarla del
tutto, mentre lei si aggrappava al suo braccio, perché
troppo debole per reggersi da sola.
Smise di tremare quasi del tutto, e ascigò il viso con una
manica. Il giapponese la guardava pensieroso, lanciando di tanto in
tanto delle occhiate attente al corridoio.
La piccola si accorse solo in quel momento che non era nella stessa
stanza di prima. Era stretta e buia, senza finestre. Quasi un
ripostiglio, con uno spiraglio di luce che entrava dalla porta e da cui
si vedeva un pezzetto di corridoio. Quella striscia chiara passava
proprio tra loro due.
“Dove sono?”
Lo domandò piano, con poca voce tremante.
“Che diavolo stavi facendo?”
Kanda la fissò insistentemente, sembrava infastidito o
arrabbiato per qualcosa.
Lei ignorò la sua domanda, e chiese ancora.
“Perché mi hai portato qui?”
Si guardò di nuovo attorno, non riuscendo a distinguere
nulla nel buio.
Lui rimase un po’ in silenzio, poi sospirò seccato.
“Perché ti stanno cercando, stupida. E
tu ti sei messa a gridare proprio quando erano vicini”
Le rispose con freddezza, con irritazione. Si era abituata a quel tono,
e sotto sotto non lo trovava più così ostile.
“Che cosa stavi facendo?”
Per la seconda volta ignorò la sua domanda, con gli occhi
fissi sullo spicchio di luce, temendo che da un momento
all’altro spuntassero quegli esseri incappucciati.
“Che cos’hai fatto alle gambe?”
disse, notando che tremavano.
Lenalee mormorò un “niente” poco
convincente.
“Sei ferita…”
Di nuovo non mostrò di averlo sentito e si limitò
a stringersi su stessa, premendosi le braccia contro il corpo.
Kanda sospirò ancora, con irritazione. Spinse la testa un
po’ all’indietro. Nella totale oscurità,
l’espressione del suo viso cambiò leggermente, ma
lei non poteva vederla. Lo stacco tra il buio e la sottile linea
illuminata era troppo netto.
Sentiva però il suo sguardo, che la fissava preoccupato. Lei
si girò dall’altra parte, di nuovo verso la porta,
scattando in piedi terrorizzata e ritirandosi nell’ombra
vicino al giapponese appena sentì un rumore di passi lungo
il corridoio.
…Casa…
Fatemi… tornare a casa…
-La tua casa è
qui. Scusami se ci ho messo tanto.-
Sono tornato.
* - * - *
Forse ci sono degli errori per quanto riguarda il passato di Lena... E'
lo stesso, non posso ricordarmi tutto, ma a me sembra a posto... *si
guarda attorno preoccupata*
|