No, non state avendo un déjà-vu. Avevo
già postato il capitolo, ma dal mio account, sperando di cavarmela raccogliendo
tutte le fan fiction che sto per tradurre da una sola parte.
Ellipse mi
ha però ricordato (grazie grazie <3) che il regolamento è molto rigido in
proposito, quindi ho creato l’account dell’autrice e posto la storia qui.
Ne approfitto per rompere ancora un po’
per difendere questa storia. sofaa aveva
recensito la fic esprimendo un po’ il pensiero
comune, ovvero che all’inizio può sembrare noiosa/ insensato e puro angst, ma, come ha detto anche lei, arrivati a fine
capitolo acquista un senso e fa appassionare.
Ok, la smetto, giuro.
Sotto c’è un altro mio commento copiaeincollato (?), non era per rompere T.T
***
Salve a tutti! Esordisco nel fandom con questa traduzione, che mi è stata richiesta sul
gruppo facebook ~ We are JohnLOCKed.
Lo
so che non ci speravate più, gente, ma nella mia innocenza ho scelto di
iniziare da quella di soli 4 capitoli per poi scoprire che ad esempio questo
era di 19 PAGINE WORD.
E' davvero bellissimo, ma mio dio. Vabbé, non voglio rompere la meravigliosa atmosfera angst che permea il capitolo, quindi vi dico solo che sono
una traduttrice alle prime armi, ma nel mio piccolo ho cercato di rispettare il
più possibile lo stile dell'autrice, le scelte lessicali e fonetiche (no, non
sono pazza, secondo me la musicalità che si dà alle parole è importante u.u).
Detto questo, qualora troviate degli
errori o ci sono dei pezzi che secondo voi in italiano sono un po' macchinosi,
vi prego di farmelo sapere, così posso migliorare e darvi un lavoro migliore :D
Eh ok basta, I
hope you enjoy the reading ~
Can you keep a
secret?
Will you hold your
hand among the flames?
Honey,
youre a shipwreck
With
your heart of stone
Can I get a
witness?
To
the bruises and the wasted tears
You
could dry a river
With
your heart of stone
With
your heart of stone
I can breathe
I
can breathe
Water
Water
I
can breathe
I
can breathe
Water
Water
When youre here with me,
Youre not here with
me~ Iko, Heart Of Stone
E’ il suono dell’acqua che
scorre che fa venire voglia a John di rimpicciolirsi sul posto.
Il suo suono lo porta alla distrazione, ad arricciare le mani in
pugni stretti contro il bracciolo della sedia. Lo colpisce di nuovo, come un
vero pugno alla base della spina dorsale. Gli occhi si agitano, chiusi in
doloroso silenzio, ma sono di nuovo aperti quando la sua terapista ritorna, ora
con un bicchiere d’acqua in mano. Per ora ha imparato come fermarlo, prima che
diventi fuori controllo. Uccide l’emozione, l’attutisce finché non può assumere
una maschera di vuoto che se non soddisfatta, è almeno neutra all’apparenza. In
ogni caso, lei lo guarda fermamente per un lungo momento prima di mettere il
bicchiere sul tavolo tra loro, occhi marrone scuro che valutano la tensione
nella linea della sua mascella e nelle mani, prima che si segga.
John è una figura silenziosa, e quelli che non lo conoscono da
molto tempo sarebbero propensi a dire che ha da sempre avuto uno sguardo
esausto in faccia. E’ un uomo magro, davvero troppo magro, e dà l’impressione
di qualcuno appena un po’ perso nella propria testa. I suoi occhi si tiravano
sempre indietro dalla faccia della persona con cui stava parlando, quelle iridi
blu che indugiano su un punto molto lontano, come se stesse vedendo qualcosa o
qualcuno che era scomparso tempo fa. Non guardava direttamente le persone,
optando invece di andare alla deriva, di galleggiare e di fissare le sue scarpe
come ha fatto ora, o forse i palmi delle sue mani. Ella Thompson può contare sulle dita di una mano il numero di volte che
John l’ha effettivamente guardata da quando la seduta era ricominciata quasi un
anno fa, e sta diventando chiaro che il numero non aumenterà neanche in questa
seduta.
La mano sinistra di John trema leggermente
quando fa correre le dita fra i capelli, di nuovo guardando fuori dalla
finestra. Si rifiuta di guardare la tazza poggiata innocentemente davanti a
lui, il liquido freddo che luccica trasparente e indifeso. Invece fissa le mani
incrociate di Ella, le sue dita che
sembravano un fascio di ramoscelli legati insieme, un puzzle intricato
impossibile da sciogliere. Il mistero delle mani, come possono rivelare così tanto
di una persona. Un tempo, avrebbe potuto non accorgersene.
Ora, non può farci nulla.
John si ritrova a notare questo tipo di cose
ancora e ancora, come se qualche interruttore fosse stato fatto scattare
nell’occhio della sua mente. Si chiede se possa vedere tutto, potrebbe
raccogliere quanto credeva che facesse. Sa di non essere neanche lontanamente
perfetto. Non sarebbe mai capace di... beh… non
sarebbe mai capace di copiare lui. La
sua gola si stringe al pensiero, e scaccia la vipera opprimente che gli stringe
il collo quando si sforza nelle deduzioni, insicuro che siano anche solo
corrette. Ella ha le mani pulite, morbide per la crema per le mani al profumo
di menta e la meticolosa attenzione. John crede che ciò potrebbe significare che
fosse solita mantenere un certo aspetto, il che avrebbe senso data la natura
del suo lavoro. Le sue unghie sono tutte esattamente della stessa lunghezza,
smaltate con una vernice di un triste
rosa abbinata al suo vestiario. Aveva dei leggeri calli sulle punte- suonava la chitarra? O solo dipendenza da messaggi?- e le sue
dita non si contraevano nel minimo segno di agitazione. Si chiede quali altre
storie possano esserci qui, cosa gli resta sfuggente e sconosciuto. Quali
segreti sono rinchiusi nelle pieghe della sua pelle.
Ma questi pensieri lo portavano solo lungo un
sentiero che non voleva percorrere, almeno non lì. Non con occhi che poteva
sentire tediosi sulla sua attaccatura dei capelli, e una penna ferma che
aspettava l’occasione di scarabocchiare ogni emozione che attraversava la sua
faccia su un blocco di carta.
“John, sono qui per aiutarti. Ma non posso
aiutarti se non ti fidi di me.”
Le parole uscirono dalla bocca di John,
automatiche. Meccanicamente. Parole che poteva applicare in molte situazioni
differenti, impersonali.
“Sto bene. Va tutto bene.”
Le mani di lei si stringono. Frustrazione.
Questo non è difficile da dedurre.
Ovvio John, sul serio.
Basta.
Le labbra di Ella sono una linea sottile.
Quando forma le prossime parole che dice, John può vedere in loro
l’esasperazione. Velata pietà. Parole dure non dette.
Se ha ragione su tutto, ovviamente. Ancora non
lo sa. Non può chiederlo. L’abilità di chiedere cose ad alta voce è da tempo
scomparsa dalle sue abilità. E’ morta il giorno in cui ha chiesto un altro
miracolo, e non ne ha ricevuto nessuno.
Neanche il sussurro di una possibilità.
La sua voce è rassegnata.
“Davvero, John?”
John non risponde. Non deve.
Il suo silenzio risponde per lui.
****
Ha piovuto quel giorno. Come se il mondo si
fosse in qualche modo fatto carico del dolore insormontabile di John e vi
avesse simpatizzato, il cielo si era aperto ed era scoppiato in lacrime su
tutta Londra. Cadde a pezzi, minacciando
di annegare tutti nel suo torrente mentre lavava via tutto come un’onda della
marea. Quando i suoi occhi si chiusero, John ricordò il grigiore di quella
settimana.
La pioggia.
Come l’aveva sentita sul suo volto.
Freddo.
Più freddo di qualunque cosa avesse provato
prima, tranne forse quel polso pallido quando aveva cercato disperatamente un
battito che non c’era. Era parso come se Londra piangesse amaramente per il suo
detective perduto quel giorno, piangendo al posto di John quando era troppo
sotto shock e troppo confuso per versare lacrime. Piangeva per la perdita di
qualcosa troppo importante per essere accuratamente definito, e gridava il
vuoto che riempì la città il giorno in cui un solitario cappotto scuro smise di
fendere i suoi vicoli e strade.
Comunque non importava quanto forte piovesse, non
importava quanti giorni John passò congelato e zuppo fuori tardi di notte, non
avrebbe potuto lavare la sensazione del sangue di Sherlock sulle sue mani.
Nulla potrebbe cambiare il fatto che ogni notte
John andava a dormire con la visione di una figura che cadeva stampata dietro
le sue palpebre, e si svegliava col sapore amaro di un urlo che gli moriva
sulle labbra.
Nessuno potrebbe aggiustarlo, e forse era
perché John non voleva che lo aggiustassero.
Dopotutto, guarire vorrebbe dire dimenticare.
Lui non voleva dimenticare.
Non voleva andare avanti.
Non quando il suo corpo sarebbe stato per
sempre intrappolato sotto le pressanti onde del dolore, anche se i suoi occhi
restavano secchissimi. Non quando al cielo stesso era permesso di lamentarsi, e
lui dolorosamente non poteva.
Bloccato tra voler singhiozzare fino a perdere
la voce e non voler mai più vedere di nuovo un’altra goccia d’acqua, John
chiudeva gli occhi e voleva svanire.
E qualche volta, nella calma della notte,
appena prima che il Sole sorga all’orizzonte, mentre lavava il salotto con un
bagliore ambrato, crede di sentire l’eco morente di un violino trascinato al
suo orecchio.
Crede di poter sentire una voce che gli mormora
piano, accusandolo ma comunque riempiendolo di un misto di soddisfazione e
gioia.
Mi aspettavo meglio da te.
Finché avrebbe potuto immaginare quella voce,
avrebbe potuto far finta di stare bene.
Che tutto era ok e andava bene.
Finché sarebbe riuscito a ricordare
perfettamente quel volto quando chiudeva gli occhi, John Watson si sarebbe
lasciato annegare.
****
Sale le scale verso l’appartamento, e John può
già dire chi è dal picchiettare ritmico dell’ombrello con la punta di metallo
che marcava i passi di Mrs. Hudson. Pensa che riconoscerebbe quell’andatura
anche ubriaco fradicio, come in effetti è stasera. Beve più ora di quanto era
solito prima, un cambiamento che non gli va sempre a genio se smette di
pensarci troppo a lungo. Gli sembra che quando è solo, non sia mai senza il
bruciore del whiskey o dello scotch sul retro della lingua, pesante e forte.
Era sempre stato cauto con l’alcohol, dato che aveva
fatto marcire la mente e il cuore di sua sorella finché non era nulla più di un
guscio arido. Vuoto. Una parte di John si chiede se non è già cavo. Si chiede
se qualcuno lo aprisse, cosa troverebbe.
Cosa vedrebbero una volta finito di sbucciare
strato di pelle dopo strato di pelle? Era ancora pieno? Oppure era una parte
del travestimento. Un fantasma tra ciò che era solido e vero. Si sente così, a
volte. John sente come se fosse lì, ma non davvero presente. Non come chiunque
altro. Si chiede se lo era davvero, o se Sherlock…
Se lui lo
rendeva presente.
Suppone che sia una strana prospettiva da cui
guardare le cose.
E di nuovo, Sherlock diceva sempre che tra i
due, John era di gran lunga quello più strano. Dopotutto faceva parte
dell’essere un sociopatico, era un’altra delle cose per cui vivere volentieri
con uno.
Sembra più vecchio.
Pensa rispondendo alla porta, non appena la figura
solitaria di Mycroft compiva innecessariamente
l’azione di bussare. Gli occhi dell’ufficiale del governo non sono più chiari e
pungenti come apparivano una volta, offuscati dallo stress, offuscati dal
dolore. Mycroft si appoggia sul suo ombrello come se
fosse l’unica cosa che lo tenesse in piedi, e aveva perso peso nell’ultimo paio
di mesi, da quando John aveva posato l’ultima volta gli occhi su di lui. Si
fissano l’un l’altro in silenzio, un rumore bianco [1] dato che John spesso non
sapeva più che dire. Come una coperta di neve che scivolava a ricoprire un
paesino addormentato, è fredda e lo seppellisce.
Tranquillo dalla vista di uno spettatore
esterno, e opprimente da quella di un interno.
Per un momento, l’ex-soldato considera di
offrirgli un drink. Comunque, decide di no quando nota come lo sguardo fisso
del maggiore degli Holmes lo perlustra, soffermandosi sulla piccola macchia di
scotch sul suo colletto e sul modo in cui la sua mano sinistra trema sul manico
del suo bastone. E’ ancora sconvolgente per John, quanto una rapida occhiata
possa lasciarlo boccheggiante e con la voglia di urlare, la sua pelle brucia
sentendo occhi simili e non uguali a quelli che vedeva di notte nei suoi incubi
più oscuri e nei sogni più dolci. Vuole urlare, vuole gridare a Mycroft di andarsene. Di andarsene e basta, perché ogni
volta che John vede quell’uomo, non vuole nient’altro che dilaniarlo in pezzi e
lasciarlo sanguinante all’angolo della strada. E ancora il pianto non riesce a
trovare la strada per le sue labbra, e la sua espressione è da molto bloccata
in un’emozione:
Incurante.
In qualche modo, ritiene che Mycroft possa ancora vederlo. In ogni caso dà a John un
grande ancoraggio, aspettando pazientemente che lo invitasse ad entrare invece
di arsi strada come avrebbe fatto in passato a quel punto. Il dottore è
disposto a dargli così tanto.
Il maggiore degli Holmes ha imparato a non
spingerlo.
Mycroft si siede sul divano. La prima volta che si era
fatto vivo dopo L’Incidente aveva provato a sedersi sulla poltrona vuota posta
di fronte a quella di John. Nonostante John non ricordi esattamente cosa face,
ricorda cosa disse. O meglio, gridò.
L’eco di “Tu
non hai capito! Tu non riuscirai a cancellarlo!” lo imbarazza ancora quando
è seduto da solo rannicchiato al suo posto e guardando fisso la poltrona vuota.
Vorrebbe sentirsi in colpa di aver spruzzato il vetriolo al maggiore degli
Holmes.
Renderebbe più facile guardarlo e realizzare
che sta soffrendo anche lui a suo modo.
Potrebbe anche far sentire John meno
disinteressato quando si siede, non curandosi di offrire del tè. Il suo stomaco
è in subbuglio per l’aver bevuto a stomaco vuoto, e Mycroft
non ha un aspetto migliore. La sua pelle è bianca come quella di un fantasma, quasi
cerea, e quando finalmente rompe il silenzio la sua voce è un po’ più morbida
di come era stata un tempo. John sa cosa sta per essere detto. Lo sa da molto
tempo.
Il che è la ragione per cui ha deciso di essere
particolarmente sbronzo oggi, nonostante sia a stento pomeriggio.
“John… sono stato
informato che fatta eccezione per le tue sedute di terapia obbligatorie, hai a
stento lasciato l’appartamento.”
Prevedibilmente, gli occhi di John si abbassano
sulle mani di Mycroft. Sono strette al manico del suo
ombrello, le nocche sbiancate per la forza. E’ l’unico segno che il maggiore
degli Holmes non sta controllando le sue emozioni. La faccia e il tono sono
impassibili, bianchi e regolari. Aspetta che John risponda, e quando non lo fa
singhiozza e continua come se si fosse aspettato che non avrebbe per nulla
parlato.
“Mrs. Hudson è preoccupata per te… E anche Gregory Lestrade… L’ispettore mi ha detto che non rispondi ai suoi
messaggi da mesi. Lui non avrebbe voluto questo, John.”
Una cosa intenzionale. John aveva
deliberatamente tagliato i legami col DI solo pochi
mesi dopo L’Incidente. Aveva realizzato velocemente che passare una qualsiasi
quantità di tempo con l’uomo avrebbe solo fatto si che i ricordi lo
inondassero, il che gli faceva sperare di tonare sul campo di battaglia,
pur di soffocare il suono del suo cuore che batteva. Dei colpi di pistola in
qualunque giorno sarebbero preferibili al silenzio assordante di un
appartamento vuoto, e le urla degli sconosciuti ferirebbero e basta, non
lacererebbero come il suono del suo stesso grido sgualcito di “SHERLOCK!” quando si svegliava ogni
notte col sudore freddo.
Lo sguardo fisso di Mycroft
è come un peso solido sulle sue spalle. Minacciando di distruggerlo con la sua
imperiosa presenza. Comunque John era sopravvissuto ad una guerra, e non era
tipo da scappare da qualcosa, anche una discussione chiaramente privata e
carica di emozioni come questa. La sua
mascella si contrae, e ricomponendosi abbastanza da guardare finalmente in alto,
chiede al maggiore degli Holmes la stessa domanda che pone ogni volta che
viene.
Ogni volta che prova a incolparlo.
“Non hai mai detto la verità tanto per
cominciare, quindi perché dovrei iniziare a crederti ora?”
Anche se un tempo John non avrebbe mai pensato
a sé stesso come una persona crudele, pare che lo sia diventato.
Anche Mycroft non
riesce a nascondere completamente il flash doloroso nei suoi occhi, prima che i
suoi lineamenti si risistemino in una maschera di serenità.
Se ne va e non ritorna.
John tenta di convincersi che gli importi.
****
Dalla morte di Sherlock, John si è ritrovato
spesso a indugiare sul suo passato. Si trova costantemente a ripercorrere i
suoi passi, attardandosi nel tempo come l’eco dei passi della camminata di un
boia. Pensando a cosa ha fatto, e cosa no, e cosa avrebbe potuto. In questo va
un sacco di tempo, cosa avrebbe potuto
fare. Notti intere, in cui la luna è sospesa pesantemente nella sua forma insonne
e lui fissa il vuoto del suo blog,
cercando di decidere cosa dire.
Non è riuscito a scrivere una parola, non una
frase o una proposizione per molto tempo. Ogni volta la pagina bianca lo guarda
accusatoria quando apre il suo portatile, e ogni volta la guarda di rimando, il
silenzio che echeggia nella sua mente. Come potrebbe riassumere i suoi
sentimenti, se neanche lui potrebbe sentirli sotto il ghiaccio paralizzante che
ha congelato il suo mondo? Come si pretendeva che trovasse le parole, quando sembrava
che sarebbe stato come fare una muta di indifferenza e distacco dalla realtà?
Questa azione minaccia di distruggerlo, di fargli perdere la testa, e così John
è silenzioso, muto come se sentisse il silenzioso paio di occhi verde-blu
toccare il retro del suo collo.
Li sente su di lui, quando pensa che il
detective avrebbe disapprovato.
E Sherlock, per tutte le sue idiosincrasie e
intuizioni, non sarebbe stato in grado di capire l’esitazione di John. La paura
di perdere l’unico pezzo del detective che gli era rimasto.
Quindi John è silenzioso.
E la sua terapista continua ad esortarlo a
lasciar perdere.
E lui rifiuta ancora e ancora senza dire una
parola.
Almeno, è così all’inizio. Poi legge i commenti
lasciati dagli altri. Le frasi d’odio, che sostengono che Sherlock Holmes è un
falso. La lettere che non ha avuto il coraggio di aprire fino ad una notte in
cui è mezzo sbronzo e ha passato troppo tempo a fissare la bocca della sua
pistola.
John le legge tutte. Si sofferma su ogni riga,
le lascia affondarlo e riempirlo, inondare il vuoto infinito nelle sue viscere.
Per un attimo lo consuma, e lui chiude gli occhi e scrive una singola risposta
a tutte, mandandola prima che possa smettere di pensare.
Era il mio migliore amico e crederò sempre in Sherlock
Holmes.
Riceve più di un centinaio di risposte in meno
di un’ora.
John non le legge, va a letto e finge di dormire,
se solo così Mrs. Hudson la smetterà di salire all’appartamento ogni ora e
preoccuparsi per lui.
****
Il suo nome è Mary, ed è tutto ciò che Sherlock
non era. Ha i capelli biondi del colore del grano in un pomeriggio d’estate e
gli occhi di un profondissimo, caldo blu. Le piace il cibo fatto in casa più
del takeaway e non urla o suona strumenti a strane ore della notte. Le sue mani sono sfregiate non per agenti
chimici o esperimenti, ma per anni di lavoro fisico, essendo la sua famiglia
vissuta in una fattoria. Le piace leggere e ha un sottile senso dell’umorismo.
E comunque è in qualche modo come lui.
C’è qualcosa nei suoi occhi, qualcosa di
percepibile e appena un po’ vulnerabile quando guarda John, e lui sembra
intuire che lei sa che è a pezzi. Ma lei non se ne va, non come Lestrade e Mycroft e perfino Mrs.
Hudson. Infatti, sembra che farla indugiare, guardarlo con interesse sopra
l’orlo della sua tazza di tè al bar in cui si incontrano. La sua lingua è
sottile come la sua, anche se lei non è solita mutilare e ferire
intenzionalmente. Invece la usa per invitarlo a uscire per un caffè, e
stranamente, John accetta.
Dice di sì alla fine perché quando lo coglie a
fissarla, non lo guarda male. A stento arcua un sopracciglio chiaro, e in una
sorprendente mimica fa una sola domanda.
“Problemi?”
Gli piace.
Non è certo che sia amore, ma è il primo
sentimento che riesce ad agitare nel suo petto da quasi tre anni ormai, e vi si
aggrappa come se avesse paura che se non l’afferrasse strettamente la piccola
fiamma avvizzirebbe e morirebbe nell’oscurità.
Pensa che lei lo sappia, e che l’abbia saputo
dal primo momento che l’ha vista, ma non le importa.
Non fa differenza, alla fine.
Perché anche Lei è sola.
****
A dispetto di ciò che a Sherlock piaceva
presupporre, John riconosceva e gradiva i benefici della musica. Non che abbia
esperienza con degli strumenti a corda. No, non sa suonare neanche una melodia
semplice al violino. Tuttavia quando era piccolo, sua madre in un tentativo di farlo
uscire di casa (e per estensione via dal suo padre alcolizzato) aveva raccolto
quei pochi soldi che avevano e l’aveva costretto ad andare a lezioni di
pianoforte. Aveva recuperato un pianoforte da un’amica di famiglia, e
nonostante fosse terribilmente scordato, era posto lì come monito dell’orgoglio
della vita di Maria Watson nel salone affinché tutti lo vedessero.
Inizialmente, John l’aveva odiato. Detestava la sua insegnante, una donna
arcigna e severa della Cecoslovacchia, e si sentiva una checca, seduto di
fronte ai tasti d’avorio, incapace di suonare molto a parte twinkle twinkle little
star. Le lezioni furono intense, e spesso aveva sentito le nocche doloranti
tutta la notte da quando tornava al tramonto ogni settimana e le sue spalle
ingobbite dall’esasperazione.
All’età di otto anni John aveva immaginato
l’omicidio della sua insegnante di musica in un centinaio di modi diversi, e i
suoi commenti collerici all’inizio gli avevano fatto desiderare di arrendersi. Aveva
considerato di bruciarsi le dita sulla stufa, anche solo per evitare un’altra
lezione dissanguante. Aveva anche oziosamente pensato di bruciare il pianoforte
stesso, una volta. Come un’animale rannicchiato in casa sua l’aveva schernito
come bambino, i rumori che ne faceva uscire sofferenti e ringhianti e
piangenti, stridenti nelle orecchie.
Con rabbia, colpiva i tasti e urlava ingiurie
mentre nessuno era a casa, e qualche volta si trovava persino comicamente a
cercare di ragionare con lo strumento come se avrebbe emesso un suono più dolce
se preso dal verso giusto.
Questo battibecco avrebbe potuto decretare la
fine della già difficile carriera musicale di un giovane John, se non gli fosse
accaduto di scoprire Harry, che era cinque anni avanti a lui nel pianoforte,
suonare di notte tardi. Quando John chiude gli occhi, può ricordare come si è
sentito, strisciando cautamente giù per le scale per sentire l’ossessionante
melodia che serpeggiava attraverso la casa. La madre era addormentata, e il
padre era di nuovo svenuto, e John stava avendo incubi da tutta la settimana. Poteva
assaporare il gelo nell’aria, ricordare come il suo respiro sostava in volute
di fronte al suo volto e come la Luna gli aveva fatto diventare gli occhi
argentati nello specchio, i suoi lineamenti giovani che ricambiavano il suo
sguardo. Poteva ricordare come Harry era sembrata allora, non la piccola e
ferita adulta che era oggi, ma una persona vibrante, allegra e solo un po’
rude, l’orlo di qualcosa di selvaggio della sua personalità. I suoi ricci
biondi ricadevano in onde sulla sua schiena, la sua camicia da notte brillava
sotto la luce delle stelle mentre una melodia dolorosamente dolce si agitava
dalle sue dita come un maremoto. L’aveva guardata, nascosto sull’ultimo scalino
e ascoltando ad occhi spalancati, perché sua sorella aveva rovesciato il suo
cuore nel pianoforte e lo strumento era costretto.
Niente suoni terribili, niente note sporche, solo movimento puro e profondo in
un brano che si sbrogliava lentamente nella notte e stringeva il cuore di John
nel petto così stretto che non era riuscito a respirare.
Per la prima volta, era riuscito a sbirciare
nella profonda tristezza nel cuore di sua sorella. Dal modo in cui la melodia
era allegra e comunque sembrava forzata, suonando gravosamente una parte solo
per incespicare di nuovo nel tasto più basso appena c’erano dei silenzi. Una
danza che non aveva speranza di concludere. Un brano che si scusava anche
mentre faceva errori comunque bellissimi, contorcendosi e curvandosi in un
finale gonfio che si chiuse in una singola, solitaria nota sola nel buio.
Una musica di disperazione.
Avrebbe scoperto in seguito il nome della
melodia, quando era più grande e avrebbe scoperto che Harry si appoggiava allo
stesso pianoforte, quando era ubriaca fradicia e piangeva.
L’aveva chiamata in nome della sua personale
salvatrice e disperazione. La sua migliore amica e amante e un giorno, peggiore
nemica.
Clara.
Fu la notte in cui John decise che voleva
suonare. Che voleva riuscirci.
Così come un qualunque Watson, vi si sedette,
testardo nel cuore e risoluto nonostante lo sforzo. Sempre incalzando per
andare avanti, incurante delle conseguenze.
La prima volta che la sua insegnante gli aveva
fatto i complimenti, era riuscito a suonare il suo pezzo perfettamente dopo una
sola settimana di prove.
John avrebbe guadagnato molti altri complimenti
da altre persone andando avanti.
Infatti suonò per tutta la sua adolescenza, la
sensazione delle sue dita che correvano amorevolmente per i tasti lucidati gli
davano un senso di gravità che lo spingeva sulla Terra. Divenne un conforto, il
solo punto fisso nella sua vita in perenne cambiamento. Suonava a lungo di
sera, talvolta anche di notte. John suonava il giorno prima di andare via di
casa a diciotto anni, e suonava la notte in cui scoprì che sua sorella aveva
quasi investito qualcuno mentre guidava ubriaca. Aveva suonato quando aveva
sentito la notizia della morte di sua madre e si slanciava con rabbia su un
brano la notte prima di essere mandato in Afghanistan.
Quella sarebbe stata l’ultima canzone che
avrebbe suonato per molti anni, notando che i pianoforte scarseggiavano in zona
di guerra, poi andò avanti e si fece sparare.
La musica non era sembrata importante, dopo.
Non davvero molto.
Niente lo sembra tranne respirare e dormire e
mangiare e cercare di sopravvivere quando ti senti come se metà della tua anima
sia stata strappata via da una bomba piena di esplosivo. La musica non poteva
fermare gli incubi, non poteva soffocare le grida di uomini sanguinanti sotto
le tue mani e di bambini che piangono per la strada sui corpi dei loro
genitori. La musica si perse sotto il brusio di Londra, sotto lo stress di
cercare di tenersi insieme quando tutto ciò che John desiderava era lasciarsi
andare in pezzi.
La musica si perse il secondo in cui perse l’ebbrezza
dell’avventura, il sapore dell’azione e dell’utilità sulle sue labbra. A cosa
servivano delle mani capaci, se non potevano salvare quelli che amava di più?
Aveva amato molti dei suoi amici in battaglia,
e molti di loro non lasciarono mai il deserto.
E tuttavia in qualche modo, John lo fece.
John Watson tra
tutti, era riuscito a sopravvivere.
A suo tempo, l’aveva quasi pensato
ironicamente.
Pensò che per lui la musica sarebbe stata persa
per sempre.
Poi aveva incontrato Sherlock Holmes, una sinfonia in forma umana.
Il detective l’aveva fissato con dei chiari
occhi blu-verdi, e aveva detto esattamente otto
parole e in qualche modo… in qualche modo John sentì
di nuovo la musica.
E ho detto pericoloso, ed eccoti qui.
Come un uomo sordo improvvisamente capace di
sentire, aveva sentito le dita prudere dal
bisogno e la sua mente visualizzare note su un pentagramma. Per scrivere, per
catturare la melodia che circondava lo strano uomo sottoforma di polvere da
sparo e tè e un cappotto largo e rumore.
Assieme al suo blog, John incominciò a suonare di nuovo, anche se di nascosto
dal suo coinquilino a casa di sua sorella tardi nei weekend. Iniziò a
costruire, a formare Sherlock Holmes in note acute, nette, crome. Prese
l’essenza del suo sorriso e la mise dentro come melodia, il tuono nelle sue
iridi e lo mise nelle note basse. Prese l’eleganza delle mani del detective e
le rese trilli nel mezzo della canzone, ed estese la sua altezza in un
crescendo vertiginoso. Lavorò e pensò e rise dei ricordi, la loro presenza
facilitava la notte in cui a Harry non stava andando tanto bene e lasciava un
sorriso affettuoso ad addolcirgli i lineamenti quando tornava a casa.
Le sue mani tremano qualche volta, quando
guarda lo spartito poggiato sul fondo del comodino nella sua stanza. Le note
gli giacciono davanti, e può sentire il suono che faranno. Il brano che
suoneranno, così doloroso e comunque così amabile. Si morde il labbro e si
obbliga a tenere le note, a trattenersi dal buttarle nell’aria notturna dove
saranno ingoiate dal vento e trasportate via. Trattiene le sue mani dal fare a
pezzi i fogli, permettendo loro invece solo di accarezzare i bordi, di
ricalcare la calligrafia. Si ferma dal suonarle, perché se lo fa, sa cosa
sentirà.
Sa cosa l’ha fissato in faccia tutto questo
tempo, cosa non ha visto finché non è stato troppo tardi.
Il pensiero gli fa chiudere gli occhi in
agonia.
John sentirà quello che sa da tempo.
Sto affogando.
Che amava quell’uomo, e non importa ciò che fa,
lo amerà sempre.
Ma persino sott’acqua, lui mi fa respirare.
Non c’era nulla che Sherlock Holmes avrebbe
potuto fare che l’avrebbe cambiato.
Finché all’improvviso, c’è stato.
****
Non è reale.
Questo non è reale.
Tutta un’illusione, in tondo nel giardino come un orsacchiotto.
Ma deve esserlo, altrimenti John è impazzito.
Davvero, e alla fine. Il suo stomaco si sta arrotolando dolorosamente dentro di
lui, e pensa che potrebbe vomitare proprio lì, sul pavimento lucidato del Diogene’s Club di Mycroft.
Digrigna i denti, le sue mani si chiudono contro le sue ginocchia guardando
l’uomo davanti a lui, quello che sta per far finire il mondo, per distruggerlo
completamente. Frantumarlo in pezzi e guardarli sparpagliarsi. La tela di un
ragno che si distruggeva.
Il maggiore degli Holmes lo guarda con
prudenza, e John sa che in quel momento non è più intontito, perché qualcosa si
sta agitando doloroso nel suo petto, e
non riesce ad avere abbastanza aria per respirare. Fa male, è un coltello che
lo colpisce ancora e ancora, e gasolio versato su una fiamma libera.
E’ impossibile, e comunque Mycroft
ha l’audacia di sedersi nella sua poltrona, di giocherellare col manico del suo
ombrello e guardarlo negli occhi. Quei chiari occhi blu sono calmi e fottutamente regali, quando si
indirizzano verso di lui, e non c’è neanche la traccia di una scusa quando le parole abbandonano di nuovo le sue
labbra.
La voce di John interrompe qualsiasi cosa stia
per dire, qualunque scusa. Qualunque dichiarazione che dovrebbe annullare la
colpa. La pesante, distruttiva colpa che deve cadere su qualcuno ma ancora fluttua nell’aria.
“Quindi… è stata
tutta una grande bugia.”
Il silenzio dopo le sue parole gocciola come
mercurio liquido nelle vene si entrambi, qualcosa vacillava negli occhi di
acciaio del maggiore degli Holmes. Legge le parole non dette tra le righe, le
parole che fanno smettere alle sue dita di giocherellare con l’ombrello e con
la sua colonna vertebrale per ingobbirsi leggermente come se si aspettasse un
colpo. Improvvisamente, il grande uomo appare molto più piccolo, e molto più
stanco di prima. Le parole John le sta urlando, gridando nella sua testa.
Apre la bocca,inizia davvero, poi si ferma.
Ricomincia.
“Non intendevo.. non mi sarei mai sognato di…”
Qualcosa nello sguardo di John congela l’uomo
sul posto, facendo sembrare di pensare meglio alle parole che sta per far
uscire dalle labbra. Al divertimento distante di John, le guance di Mycroft arrossiscono nel più nudo indizio di vergogna prima
di sbattere gli occhi e raccogliersi con solennità.
“Mi dispiace…”
Una volta, John avrebbe potuto crederci. Invece
gli rimane solo il sapore di ferro sulle sue labbra quando ride di incredulità,
in piedi come se stesse per andarsene. Si decide che non è reale. Che questa
conversazione può essere cancellata, come direbbe Sherlock. Non è mai successa,
perché John non è pronto ad affrontare le ripercussioni se fosse vera. Non ci
crede, non ci può credere, perché può
sentire l’intontimento scomparire, ed è presto rimpiazzato da qualcosa a cui
non deve essere permesso di esistere.
Mycroft lo chiama, e nonostante John non si fermi,
sente le parole indirizzate a lui chiaramente quanto l’uomo in piedi vicino al
suo orecchio.
“Lui vuole incontrarti, ha sempre voluto farlo… Io gli ho chiesto di darti tempo. Se vuoi vederlo… ci sarà un auto ad aspettarti fuori dall’appartamento
ogni giorno per un mese… Hai fino ad allora per decidere.”
L’unica risposta che il maggiore degli Holmes
riceve è il suono dei passi di John che si allontanano con risolutezza.
****
Fino ad ora, il titolo del pezzo è rimasto
ostinatamente bianco. Non importa quanto John ci provasse, non riusciva mai a
venirne fuori con un nome per il prezzo che aveva preso così tanto della sua
vita, riempiendola con così tanta vitalità e colore.
Una pagina bianca.
John va a casa e fissa a lungo lo spartito, una
tazza di tè che diventa fredda nelle sue mani quando si perde in ricordi che
fanno così male che gli viene voglia di urlare.
Invece si copre la bocca col palmo della mano,
raggomitolandosi nella sua poltrona finché è in una posizione fetale nel buio
del salotto. Tremando; e John finalmente, finalmente
sente le lacrime che gli sono state negate tanto a lungo iniziare a
strisciare giù per le sue guance. Una volta che iniziano, non possono essere
fermate. Si morde l’interno della mano per attutire il rumore, torturando
singhiozzi che lo lasciano tremante. Le
lacrime sono salate, colme di dolore e davvero molto reali.
John non può fingere quando ne sente il sapore
sulla lingua, e invece piange più forte.
Piange fino a sentire come se le sue viscere si
siano liquefatte, singhiozza fino a farsi bruciare gli occhi ed è sicuro che
Mrs. Hudson abbia acceso il televisore per non sentirlo. John piange e piange
sentendo l’ultima, piccola parte della sua compostezza che l’ha trattenuto dal
diventare un assoluto disastro destinato a spaccarsi e a diventare polvere. Col
tempo i singhiozzi si affievoliscono in piccoli rumori irregolari, ma non
scompaiono.
Quando finalmente cade in un sonno
esausto, sogna di quella sera. La
Caduta, il funerale.
E l’appartamento sembra vuoto e freddo, una
casa abbandonata anche se il suo proprietario ne è al centro. Rifiutata.
John è
quasi certo che non lo sta immaginando quando il mattino successivo guarda
fuori e vede un’auto nera che lo sta aspettando pazientemente allineata al
marciapiede.
Regolando la sua mascella, ignora la sua
presenza, mandando un messaggio a Mary.
Tieni la testa sott’acqua. Continua a nuotare. E’ quello che
sai fare meglio.
Lei risponde immediatamente, d’accordo con la
sua proposta di andare al cinema sabato.
John cerca di convincersi che non sta passando
tutta la mattinata prima di andare a lavoro a guardare fisso dalla finestra,
sorseggiando la sua tazza di tè, con le dita che battono distrattamente sul
tavolo in un ritmo senza suono.
Ignora l’acqua che ti sta riempiendo i polmoni con fermezza.
[1] Per chi non lo sapesse (dato che prima di
questa traduzione non lo sapevo o^o) il rumore bianco
è un particolare tipo di rumore caratterizzato dall'assenza di periodicità nel
tempo e da ampiezza costante su tutto lo spettro di frequenze. (Wikipedia <3)