Un
piccolo presente per Denise.
Perchè a volte succedono cose molti interessanti nelle zone
d'ombra tra un riflettore e l'altro.
[...]
Glory entrò
senza badare ai malumori storici e consolidati da anni di
maltrattamenti del Diurno Artie Haviland.
Con biondi capelli
color grano e un taglio anonimo che non mitigava la sua avvenenza da
mezzosangue, il giovane sedicenne sprizzava collera e frustrazione
dalle sue iridi color topazio. Seduto di fronte a lui, che aveva urlato
insulti alla sua vita infame e ai suoi genitori che l’avevano
abbandonato, Aidan Howthorne leggeva la Gazzetta del Profeta.
In tutta Slytherin,
Aidan, Glory e Rawdon Harshness erano gli unici a permettersi qualche
dialogo col Diurno.
Aidan poi, aveva
imparato in giovane età la bellezza nell’avere un
amico mezzo vampiro.
- Qui
c’è tutto.- disse Glory, piazzando nelle fauci
assetate di Haviland il suo pacco.
- Sono anche in
ritardo.- ringhiò il ragazzo, spalancando la bocca e
mettendo in mostra la dentatura affilata – Che possano
bruciare all’inferno quei due schifosi!- e corse a chiudersi
nel suo bagno privato, facendo traballare la porta sui cardini dopo
essersela sbattuta alle spalle.
Aidan non
alzò gli occhi dal giornale quando, dieci secondi dopo, si
sentì un’imprecazione spaziale e una sequela di
oggetti scaraventati contro la parete al loro fianco. Si
sentì anche uno specchio andare in frantumi.
- Sette anni di iella.-
commentò pacatamente la Frost, rimasta sulla soglia.
- Oggi è
ancora di buon umore.- commentò il giovane Howthorne.
- Bhè, il
mio dovere l’ho fatto.- la Malfoy si strinse nelle spalle,
pregando di uscire presto da quell’incubo –
Controlla che beva la merenda, Aidan. Io ho dei compiti da finire. Ci
vediamo.-
Uscita di nuovo in
corridoio, la Veggente udì altri colpi contro la parete.
Il ragazzo era proprio
arrabbiato.
- Assorbe troppi
pensieri negativi.- le disse Rebecca.
- O troppo pochi
liquidi.- replicò la bionda, trattenendo uno sbadiglio.
- Ma che diavolo gli
piglia a quello?- urlò un ragazzo del quinto anno, mettendo
il naso fuori dalla sua camera.
TRATTO DA L'ALCHIMIA DI
SANGUE
Sangue.
Sangue nella bocca e nel cervello.
Artie si lasciò scivolare a terra, la schiena lungo la
parete di fredda pietra. Accanto a lui un asciugamano pregiato, color
petrolio, con le cifre dorate di Aidan Howthorne. Il solito disordinato
casinista di Aidan, pensò, scalciandolo via con
frustrazione. Perchè doveva sempre invadere il suo spazio?
Continuò a mordersi ferocemente la lingua e le guance, un
tic nervoso che lo accompagnava da anni, da quando ne aveva memoria. Un
gesto inutile, dannoso, autolesionista. Il sapore del proprio sangue
era qualcosa fra il dolce e l'amaro, fra l'ambrosia e il fiele. Sangue
impuro. Sangue infetto, sangue marcio.
Reclinando indietro la testa a più riprese
cominciò a sbatterla contro la parete, a ritmo del battito
furioso del cuore che non aveva in petto, ma in testa.
Ancora, ancora, ancora.
Lampi di luce e di dolore accolti con voluttà, qualsiasi
cosa che lo distraesse dalla sete di sangue che oramai da tempo
l'attanagliava.
Aveva fallito ancora, nuovamente.
Non era servito a nulla mordere il cuscino notte dopo notte,
costringersi a dormire ogni momento possibile della giornata per non
consumare energie, per non pensare, a nulla era servito violentare
sè stesso e il suo essere ogni fottuto giorno, ogni fottuta
ora, ogni fottuto minuto, ogni fottuto secondo per resistere.
Alla fine aveva ceduto, ancora, e aveva implorato per avere del
nutrimento.
E aveva sofferto durante l'attesa, ogni nervo fittizio del suo corpo
fittizio teso nel rimembrare il liquido che avrebbe fatto scorrere
giù per la gola.
Si guardò le mani, tremavano.
Le unghie rosicchiate sino all'inverosimile, una certosina opera che
ripeteva ogni giorno per contrastare la sua sovrumana
capacità di recupero.
Un'altra delle sue innumerevoli e vane lotte contro quello che era.
come quando, preso dai suoi raptus, rubava il rasoio di Aidan e si
tagliava i capelli a ciocche disordinate per sfregiare in qualche modo
la sua bellezza irreale.
Come quando, fin da piccolo, si costringeva a restare seduto storto,
quasi gobbo, per evitare di attirare l'attenzione su di sè.
Per proteggersi dalle lodi e dai pizzicotti delle matrone che lo
vezzeggiavano.
Come quando dava il peggio si sè, ogni qual volta ce ne
fosse l'occasione, rendendosi odioso e odiato da tutti tranne che per
quei due pazzi che ancora si ostinavano a stargli vicino.
Sentiva freddo, e caldo. Ma non poteva realmente sentirli. Aveva
saccheggiato anni prima la biblioteca di Hogwarts, dapprima le sezioni
aperte agli studenti, poi, dal terzo anno in poi, anche quelle
proibite. Si era fatto una vera e propria cultura su ciò che
era e su ciò che fingeva di essere. Non aveva veri e propri
organi interni, non aveva polmoni, non aveva un cuore. Probabilmente
non aveva neanche un cervello. Era solo una gigantesca spugna assetata
di sangue di forma umanoide.
Quando aveva nove anni era stato portato al San Mungo per una
emergenza. La sua tata l'aveva trovato nella sua camera, intento a
cercare di impiccarsi.
Aveva trafugato per l'occorrenza una delle vecchie sciarpe di seta
della madre, la cara mamma che non aveva mai visto. Dopo averlo
partorito si era ben guardata dall'avere a che fare ancora con quel
obrobrio, aveva seguito il suo nuovo amante immortale probabilmente
inconscia di essere solo un balocco come un altro per lui e il tutto si
era risolto con un civilissimo e discreto divorzio, come si
confà ai ceti alti. Tutte le sue cose erano state spostate
in soffitta, lontano da occhi indiscreti, ma lui era molto bravo ad
insinuarsi nei posti più oscuri e sporchi. Una dote innata,
gli ripeteva sempre il padre, sarcastico.
E così aveva trovato tutti i vestiti di sua madre, opere
d'arte in chiffon e seta, ancora pregne di un odore che sapeva di non
aver mai sentito, eppure gli pareva di ricordarlo.
Era stata una settimana molto dura quella, forse la più dura
mai vissuta fino ad allora.
Aveva udito spettegolare la servitù e tutto il peso del suo
passato, del suo presente e del suo eterno dannato futuro gli erano
piombati sulle spalle. Da quando ne aveva memoria aveva cercato di
ignorare ogni accenno, ogni prova più o meno evidente. Si
era addirittura inventato una balla assurda sull'essere afflitto da una
strana maledizione che lo portava a potersi alimentare solo di succo di
pomodoro.
Ma nella sua innocenza non aveva calcolato l'immortalità. Ed
era rimasto così, penzolante come un pupazzo malconcio, il
petto che bruciava e la testa finalmente leggera. Fino a quando,
purtroppo, la domestica entrò e lo tirò
giù.
Urla, grida, strepiti, accuse di voler rovinare, ancora una volta, il
buon nome della famiglia.
E i medici sopra di lui, la luce mite e benevola degli incantesimi di
guarigione.
E la sorpresa dei medimaghi nel constatare che il suo corpo guariva
velocemente, troppo.
E le scuse abbozzate del padre che cercava di nascondere il segreto di
famiglia, la vergogna nella sua voce per l'ennesima dimostrazione di
cosa era suo figlio.
E poi il sollievo quando una infermiera caritatevole gli fece bere del
sangue. Non lo guardava come l'avevano sempre guardato tutti quelli che
sapevano. I suoi occhi erano gentili, e umidi. Come se stesse
piangendo. Per lui. E la sua voce che sussurrava dolcemente, come la
voce che si era sempre immaginato sua madre avesse.
Artie, ora è tutto passato.
Artie, avanti. Bevi, ti sentirai meglio.
Artie.
"Artie, che cazzo combini ora?"
Aidan si sovrappose all'infermiera senza nome.
"Artie, se non apri butto giù la porta. E stavolta giuro che
non mi prendo la colpa con Piton per vandalismo. Ci finisci tu in
punizione!" Calci da dietro il pesante legno intarsiato, tutto a
Serpeverde era barocco, decadente e sapeva di umido. Rassegnato,
consapevole che Aidan avrebbe potuto davvero attuare la sua minaccia,
si costrinse a scivolare di lato e allungò il braccio quel
tanto che bastava a sbloccare la maniglia.
Non fece accenno ne di volersi alzare ne tanto meno ricomporre, lontani
i tempi in cui nascondeva a tutti i suoi attacchi. Oramai Howthorne ne
era diventato protagonista, non spettatore. Innumerevoli volte gli era
stato accanto, aveva cercato di sistemargli i capelli, o lo scalpo come
lo chiamava lui, dopo il martirio del rasoio, aveva passato notti
intere a ripulire la sua camera e il suo bagno dai cocci, dai vetri
infranti, dalla bile vomitata per i crampi della fame o per quelli del
rimorso.
Il piccolo Howthorne, che poi tanto piccolo più non era,
rimase sull'uscio e si prese tutto il tempo del mondo per sigillare con
un incantesimo la porta di ingresso della loro camera.
"Cos'è, paura che ti faccia vergognare?"
ridacchiò isterico, e solo allora si rese conto di non aver
mai smesso di mordersi la lingua. Sputò ben poco
elegantemente un grumo di saliva e sangue a terra, proprio vicino
all'asciugamano del compagno.
"Fottiti." Fu l'unica risposta che ebbe. Un fottiti carico di una
infinità di sentimenti. Rabbia, dolore, compassione,
pietà. Aidan si inginocchiò davanti all'amico e
con gesti veloci, competenti, cominciò il loro solito rito.
Gli controllò i polsi, assicurandosi che non ci fossero
tagli, poi il costato e le gambe, memore di quando prese il muro a
calci così tante volte da mettere a dura prova la sua
rigenerazione. Staccò gli occhi dal suo corpo solo per un
breve istante, quel che bastava ad assicurarsi che i rasoi fossero
ancora al loro posto, accanto al lavello di marmo pregiato e che lo
specchio, fonte di potenziali e letali schegge, fosse integro. Era in
frantumi.
Infine passò la mano dietro la nuca del diurno e scosse
impercettibilmente la testa quando la ritirò tinta di
cremisi.
"Apri la bocca, coglione". Gli intimò, cercando di
costringerlo a forza ad eseguire l'ordine. Artie subì tutto
passivamente, senza mai interrompere una risata soffocata, insana.
"Cavolo Howthorne, mi piace quando prendi l'iniziativa. Sei
terribilmente sexy."
"Mordimi e ti ficco un paletto nel cuore." Aidan gli ficcò a
forza le dita in bocca non mostrando reazione alcuna ai denti
terribilmente aguzzi. Con perizia controllò
l'entità delle ferite, per poi pulirsi rabbiosamente le dita
sull'asciugamano.
"Nel cuore magari no, ma forse-" L'ennesima battuta sconcia di Haviland
fu bloccata sul nascere dallo scatto d'ira di Aidan. Il ragazzo
tirò un poderoso pugno contro il muro, a pochi centimetri
dalla testa del diurno.
"Sono stufo! Stufo, lo capisci?" Urlò a squarciagola,
fregandosene di non aver insonorizzato l'ambiente. "Ogni anno
è peggio! Non so neanche se odio più i tuoi
periodi di digiuno forzato o le crisi isteriche che ti fai venire
quando la fame si fa troppo forte! Non sappiamo più come
coprirti, Rawdon ed io stiamo facendo i salti mortali per non farti
finire ogni due per tre in infermeria e sai benissimo che hanno ordine
di segnalare al San Mungo tutti i tuoi attacchi! Tuo padre non aspetta
altro che qualche prova in più per rinchiuderti in qualche
ospedale psichiatrico e gettare via la chiave! Che cazzo hai in testa,
eh? Che cazzo hai in testa?"
Per tutta la sfuriata Haviland restò in silenzio, mugolando
qualcosa che sembrava essere una nenia ossessiva quanto inconcludente.
L'unico segno dell'aver percepito il tutto fu l'abbassarsi dello
sguardo che si piantò sulle sue mani tremanti.
"La Malfoy se ne è andata?" Chiese infine in un sussurro.
"Sì. Sarà ancora in corridoio a spettegolare con
le oche sul tuo brutto carattere, come al solito." Anche Aidan rispose
in un sussurro, spossato dalla tensione degli ultimi giorni nell'attesa
della consegna del sangue e della conseguente tipica crisi, dallo
spasmodico impegno nel mostrarsi normale,totalmente disinteressato agli
schizzi isterici dell'amico nel tentativo di farli passare solo per
occasionali sbotti, dal terrore provato durante l'attesa che Glory si
levasse dai piedi, la mente affollata da tutte le cretinate che il
diurno avrebbe potuto combinare in pochi minuti da solo. Si
lasciò lentamente cadere accanto a lui, spalla contro
spalla, chiudendo gli occhi.
"Dov'è Rawdon?"
"Dove vuoi che sia? Stamattina quando abbiamo saputo della consegna gli
ho lanciato uno schiantesimo per mandarlo in infermeria a fare il palo
in caso qualche ficcanaso chiamasse la Chips. Mi devi un'altra
punizione, amico."
Artie si ingobbì ancora di più poggiando la
fronte contro le ginocchia rialzate. Senza neanche accorgersene
Howthorne nè copiò perfettamente la posizione.
Per qualche minuto entrambi restarono in silenzio, un silenzio che
sembrava assordante.
"Quanto?"
"Almeno per tre mesi, se eviti di buttarne via metà nel
cesso come fai di solito."
"Mi fa schifo."
"Lo so."
"E' sangue."
"Lo so."
"Ho fame."
"Lo so."
Questa volta fu Aidan ad iniziare a battere ritmicamente la testa
contro il muro dietro di loro. Si passò la mano ancora
sporca di sangue sugli occhi, incurante di sporcarsi. Scosse il capo
più volte a rischiararsi le idee.
"Tu mi farai crepare giovane e quando apparirò a mio
fratello come fantasma mi prenderà a calci in culo per
l'eternità." Sentenziò, facendo per alzarsi.
La mano di Artie, innaturalmente veloce, si strinse sul suo braccio,
fermandolo.
"Aspetta..."
"No." Fu la secca ed immediata risposta.
"Ti prego, ne ho bisogno.."
"No."
Il diurno trattenne un singulto soffocato.
"E' il primo sorso da maggio scorso. Non ce la faccio a berlo dal
bicchiere, mi fa ribrezzo.." sempre più flebile, ma tuttavia
incalzante. Come una goccia d'acqua che secondo dopo secondo, secolo
dopo secolo, erode la roccia.
Aidan rimase in silenzio, combattuto tra quello che sapeva essere
saggio e quello che sapeva avrebbe dato un minimo di sollievo al
disperato che gli stava accanto. Un disperato a cui voleva un bene
dell'anima. Mosse lentamente il braccio per liberarlo dalla presa del
mezzo vampiro e ancora più lentamente si rialzò
la manica della camicia con una meticolosità quasi
esasperante.
Gli porse il polso.
"Niente collo stavolta. I dolcevita sono terribilmente out quest'anno."
Nessuno disse più nulla per molto tempo, a rompere il
silenzio solo i loro respiri affrettati.
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