2-clichè
Sono entrata in un cliché
Casa di Marta non era lontana dall’università, camminammo
solo una decina di minuti, durante i quali mi inondò di
informazioni su quanto il mondo fosse corrotto e cattivo. Si
fermò davanti a un vecchio portone di legno, armeggiò un
attimo con le chiavi e entrammo in un androne stranamente bello.
Era
vecchio e trascurato, sì. I muri erano scostati e il pavimento
sporco, in un angolo c’era pure un notevole esemplare di arte
falliforme. Però c’erano delle vetrate colorate che davano
su un cortile interno al palazzo, che riempivano l’androne di
calde sfumature rosse, arancioni, verdi e azzurrine. «Mi spiace,
ma sto al quarto piano senza ascensore.»
«Non
c’è problema» La rassicurai. Fare le scale mi
avrebbe dato il tempo di chiedermi ancora per qualche minuto se stessi
facendo una cosa saggia entrando nella casa di una perfetta
sconosciuta. No, la risposta era decisamente no. Per qualche strano
motivo mi venne da ridere.
«Ohi
Marta. Chi è la ragazzina?» La salutò un uomo sui
quarant'anni che fumava e beveva birra appoggiato alla balaustra delle
scale. Era un tipo decisamente inquietante, con l'abito canonico dello
scansafatiche: bermuda, pantofole e canottiera bianca bucata e
macchiata di sugo. «Un’amica. Come hai detto che ti
chiami?» Come avevo detto di chiamarmi? «Lee.»
Risposi, già pentita di aver scelto un nome tanto scemo.
«È un diminutivo di… uh… Lidia.»
Cercai di rimediare. Mi tese la mano villosa sorridendo.
«Piacere, Vee. È un diminutivo di Vittorio.»
Scoppiò in una grassa risata alla sua battuta. Marta alzò
gli occhi al cielo sbuffando, ma da un luccichio nei suoi occhi mi
sembrò evidente che fosse solo una recita, e che sotto sotto
l'uomo la divertiva. «Sta attenta a questa qua.» Mi disse
avvicinandosi al mio orecchio con aria cospiratoria e indicando Marta
con il pollice. Sapeva di sigaretta. «È pericolosa.»
Rise ancora, e risi anch’io, molto nervosa, chiedendomi se ero
ancora in tempo per scappare e andare in albergo.
Entrare
in casa di Marta fu come entrare in un negozio Equo-solidale, sia per i
colori molto etnici che per il forte odore di curry e di incenso.
Entrammo in un salotto-cucina. I vari poster, locandine di film, di
concerti e di proteste tappezzavano completamente le mura, rendendo la
stanza caotica. La poca luce arrivava dalla porta-finestra da cui
eravamo entrati, coperta da una tenda rossa, ma la penombra, con in
caldo che faceva fuori, era fresca e piacevole.
In
tutto quel marasma di colori e oggetti strani, era difficile
individuare i pochi mobili. C’era un tavolo basso, che a un esame
più attento si rivelò essere un asse appoggiato a due
cassette della frutta, circondato da cuscini informi. In un angolo
c’erano i cuscini di un divano, ma del divano non c’era
traccia. Su un’altra cassetta della frutta c’era un
narghilè molto colorato, che non sembrava essere usato solo come
soprammobile. Individuai almeno tre coperte fatte all'uncinetto, in
diverse sfumature di rosso, appoggiate su varie superfici.
Il mio primo pensiero fu “Sono appena entrata in un cliché”.
Si
lasciò cadere sui cuscini da divano con un tonfo notevole.
«Ci credi che la maggiore parte di queste cose le ho trovato
nella spazzatura? La gente butta via qualsiasi cosa!» Ci credevo.
«Non preoccuparti, li ho lavati col vapore e ho cambiato le
federe. Le ho cucite io.» Mi rassicurò, evidentemente
notando la preoccupazione del mio sguardo. Hippie ma con il senso
dell’igiene. «Vieni, ti faccio vedere la camera da
letto.» Si alzò con un colpo di reni e mi condusse
attraverso una porta che, essendo coperta di poster come il resto della
stanza, non avevo nemmeno notato.
C’era
un materasso appoggiato su dei bancali, una scrivania ingombra di libri
di filosofia e materiale da cucito e un armadio senza porta, con i
vestiti buttati dentro alla rinfusa. Dopo una breve ricognizione,
individuai la porta dell'armadio, staccata dai cardini e appoggiata
alla parete lì accanto. «Lascia pure lo zaino dove trovi
posto!» Urlò allegramente sovrastando il suono del
campanello. Lasciai cadere il mio zaino in un angolo relativamente
sgombro, mentre Marta correva via per rispondere al citofono.
Sulla
porta divelta dell'armadio c'era uno specchio, ricoperto di fotografie.
Lo specchio rimandò la mia immagine, scialba e anonima. Avevo
una t-shirt monocromatica, di un marrone scuro molto neutro, e i
pantaloni neri di una tuta. Avrei dovuto liberarmi di quei vestiti al
più presto, erano l'ultima cosa che mi rimaneva dalla mia vita
precedente.
Guardai
da vicino il mio viso, e il mio riflesso mi guardò con aria
critica. Ero pallida e avevo dei cerchi scuri sotto gli occhi. Anche i
capelli erano disordinati e secchi, la frangia iniziava a coprirmi gli
occhi. Avevo decisamente bisogno di andare da una parrucchiera. Di
certo facevo un contrasto netto con le due ragazze ritratte nelle foto.
Una era Marta, con i suoi capelli multicolor e gli abiti dai colori
accesi, l’altra era una ragazza molto carina, con capelli
perfetti, vestiti eleganti e occhi azzurri e luminosi.
Sentii
delle voci e mi voltai, trovandomi davanti la ragazza delle foto in
carne e ossa. Si fermò sulla porta guardandomi incuriosita.
«Oh, sì, lei è Lee. Lee, questa è
Silvia.» annunciò Marta apparendo alle sue spalle. Silvia
mi tese la mano sorridendo. «Poverina, anche tu sei rimasta
catturata nella sua rete?» La guardai sollevando un sopracciglio.
«Ogni volta che vengo a trovarla si è portata a casa
qualcuno. Gatti, stranieri, studenti in Erasmus, turisti
giapponesi… una volta persino un piccione ferito.» Si
fermò un attimo squadrandomi da capo a piedi. «Ma tu sei
un po’ meglio della media.» Marta le diede una gomitata
nelle costole. «Ohi, non sei molto gentile con la mia
ospite!» Silvia alzò gli occhi al cielo. «Che ho
detto di male? Le ho detto che è meglio della media.»
«Le hai detto che è un po'’ meglio
di gatti randagi e piccioni!» Sospirò, lanciandomi uno
sguardo rassegnato. «Non darle retta. Io ospito sempre e solo
gente che mi sembra simpatica.»
«Un
giorno ospiterai un serial killer che ti taglierà la gola nel
sonno solo perché ti sembrava simpatico.»
«Sono amichevole! Che
c’è di male?» Il battibecco continuò
abbastanza a lungo da consentirmi di scavare un buco e nascondermici,
se fossimo state all’aperto. Purtroppo non era così, e non
potei far altro che stare lì a osservarle imbarazzata.
Dopo
un po’ decisero di sospendere la conversazione, e con mio orrore
ancora maggiore tornarono a concentrarsi su di me. «Hai viaggiato
tutta la notte vero?» Mi chiese Silvia guardandomi come si guarda
un cucciolo di cane coperto di fango. Non mi sembrava di averlo detto,
ma probabilmente di vedeva dai vestiti stropicciati e dall’aria
da reduce di guerra. Annuii, ancora più imbarazzata. «Ho
preso un intercity ieri sera tardi…»
«Allora vorrai fare una doccia? Vieni, ti faccio vedere il bagno.»
Marta
mi afferrò energicamente una mano e mi trascinò di nuovo
nell’ingresso, e poi attraverso un’altra porta mezza
mimetizzata. Il bagno era piccolo e pieno di trucchi e di creme che non
sembravano essere sue. «Puoi usare il mio shampoo, e anche il mio
accappatoio se non ne hai uno. Per l’acqua calda dovrai aspettare
qualche minuto.» Ascoltai le istruzioni annuendo in silenzio e mi
lasciò da sola nel bagno.
Quando la porta si chiuse mi sedetti un minuto sul bordo della vasca, guardando i miei occhi scuri e cerchiati nello specchio. Ti sei fatta raccattare dalla spazzatura come i cuscini del divano. Bella mossa. Mi
si formò un’immagine mentale di Marta vestita da massaia
che mi passava addosso la pulitrice a vapore. Sorrisi al mio riflesso
scuotendo la testa. Me ne ero andata perché ero stufa che gli
altri si prendessero cura di me, e invece ci ero ricascata dopo nemmeno
ventiquattro ore.
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