Nick
forum:
Ethel00
Nick
EFP:
ethelsgonnabeokay
Titolo:
You
can read me like a book (but the pages are all torn and frayed out)
Fandom: Sherlock (BBC)
Genere: Angst, Fluff,
Introspettivo
Rating: Giallo
Pairing/personaggi: John Watson, Sherlock
Holmes, John/Sherlock
Pacchetto
scelto:
Free 5
Elementi
utilizzati:
Fluff, pairing a scelta, Dolore (anche Fuoco, ma pochissimo,
perciò non credo di poterlo includere)
Avvertimenti/Note: (una sorta di) AU
Nda
(facoltative): Perché
è una sorta di AU? Praticamente, è ambientata nei
luoghi della serie tv, perciò non è proprio un
universo alternativo, ma ho deciso di aggiungere comunque
l'avvertimento perché nella mia storia gli insulti si
tatuano sul corpo delle persone – un'idea che ho avuto
leggendo del progetto Weapon
of Choice su
Tumblr, nel quale sono stati fotografati dei ragazzini truccati in modo
di avere sul viso degli insulti scritti a mo' di cicatrici.
Le parole non
lasciano traccia, dicono, è come far cadere la neve
sull'asfalto bagnato, tanto poi si scioglie. Tutto scorre, dicono, e
allora perchè tenere a freno la lingua? Perché
risparmiarsi i pettegolezzi, gli insulti sussurrati e quelli gridati al
mondo, se alla fine passa tutto? Evidentemente, chi insulta non ha mai
ricevuto insulti a sua volta, oppure capirebbe perché stare
in silenzio qualche volta è meglio. Gli insulti si tatuano a
fuoco sulla pelle, marchiandola per sempre – o almeno fino a
che qualcuno non riesce a guarire le ferite, con tempo e dedizione.
Nessuno vede
queste cicatrici, perché è molto raro che
rimangano impresse sul viso, o sulle mani, sulla pelle che i vestiti
non possono nascondere – chi vorrebbe avere mai a che fare
con qualcuno che ha “grasso” o
“quattrocchi” tatuato sul volto? Almeno da questo
punto di vista, la natura è stata clemente. Sì,
perché è facile tenere nascoste le ferite e
fingere di non sentirle bruciare, è semplice lasciare che il
fuoco ti passi attraverso e non fare una piega, se sei solo.
Sherlock si
guardava allo specchio con attenzione, sperando, all'insaputa di se
stesso, di vedere i marchi un po' più sbiaditi, di rivedere
la pelle del suo petto di nuovo cucita insieme. Poggiò le
dita sulla sua spalla sinistra, seguendo con i polpastrelli il contorno
delle lettere che formavano la parola “mostro”. Per
l'ennesima volta riconobbe quella scrittura come propria,
attorcigliando con dolcezza un dito intorno alle curve delle lettere.
Il fatto che fossero riportate con la sua grafia era solamente un
ulteriore modo per incolpare se stesso di averle causate. Premette un
po' di più il polpastrello contro la pelle infiammata, per
vederla impallidire e per sentirla sfrigolare sotto le dita.
Sentì
la porta di casa aprirsi, e le sue mani volarono sui bottoni per
richiuderli. Quando John comparve sulla soglia, aveva ripreso la sua
solita espressione apatica. Sollevò appena gli angoli delle
labbra, mentre l'uomo si gettava in una delle sue lamentele senza fine
sulla modernità di Londra.
«Se
rischi di nuovo di farti uccidere, io... io ti ammazzo!»
sbottò John, trascinandolo su per le scale del 221B, fino al
loro appartamento.
«Non
credo ti convenga, John... non avresti risolto un granché
facendo così» ribatté Sherlock,
seguendolo senza fare resistenza fino alla cucina, per poi ritrovarsi a
fissare la schiena di John, che stava cercando di raggiungere uno
scaffale fin troppo alto per lui.
«È
un modo di dire, era una battuta...» disse
esasperato l'ex-militare, con la lingua tra i denti per la
concentrazione. Chi aveva avuto la grande idea di conservare la
cassetta del pronto soccorso così in alto? Doveva essere
stata un'idea di Sherlock, sicuramente.
Si
ritrovò improvvisamente circondato da un profumo di nicotina
e di Sherlock così
intenso da fargli girare la testa, tanto che gli ci vollero degli
interi secondi per realizzare che il detective stava provando a
raggiungere le garze e il disinfettante. John trattenne il fiato e
cercò di concentrare la sua attenzione altrove, fino a
quando Sherlock non gli porse quello che stava cercando con uno dei
suoi ador- con uno dei suoi soliti sorrisetti sarcastici.
«Stupido
Holmes» borbottò, mentre cercava di calmare i
bollenti spiriti e rientrare nel ruolo di medico, che era quello che
avrebbe dovuto avere fin dall'inizio. Sherlock strizzò
appena gli occhi, attendendo una delle solite scariche di dolore che
riceveva dove ogni insulto, e rimanendo sorpreso per l'ennesima volta
di non sentirne nessuna. Era strano, John. Tutto in lui era strano.
Come gli si rivolgeva, la dolcezza che riusciva a nascondere dietro una
semplice parola.
«Togliti
la camicia, Sherlock, devo disinfettare la ferita» disse
allora John, cercando di mantenere il suo tono di voce stabile e
asettico, di non far trasparire quanto quella situazione lo stesse
mettendo in agitazione. Si sorprese quando vide i grandi occhi
trasparenti del detective spalancarsi e implorare silenziosamente di
non farlo.
«E
se mi limitassi ad alzare la manica?» chiese a bassa voce.
John annuì e si mise al lavoro. «Fa
male?» domandò dopo poco. Sherlock, che sentiva la
pelle bruciare a causa dell'acqua ossigenata, si morse le labbra e
scosse la testa. Aveva sopportato di peggio.
«Ecco
fatto» sussurrò John dopo una decina di minuti,
abbassandogli la manica. Sherlock gli fermò una mano prima
che potesse ritrarla e, d'istinto, la strinse appena, dicendo:
«Grazie».
Con il tempo,
John aveva costretto Sherlock ad accettare dei piccoli riti. Nonostante
le prime lamentele del detective, l'insistenza dell'altro lo aveva
portato addirittura ad apprezzarli – John sosteneva che i
riti fossero qualcosa di obbligatorio nella vita di due persone,
“Proprio come quando io vado a comprare il latte e tu fai
esplodere la cucina”, e Sherlock aveva dovuto ammettere che,
dopo aver passato una giornata intera a rincorrere dei criminali, una
serata a tema Doctor Who era abbastanza rilassante.
Quella sera,
avevano deciso di fare quello che amavano di più: John
preparava il tea per entrambi e si sedevano vicini, sul divano che
fronteggiava la televisione spenta. Allora cominciavano a raccontare
della giornata appena passata; il più delle volte, era solo
John a parlare, mentre Sherlock lo ascoltava con attenzione, incantato
dalla sua voce come si lasciava incantare solo dalla musica del suo
violino.
John aveva la
testa in grembo a Sherlock, che guardava fisso davanti a sé,
scavando con gli occhi nel muro, in cerca di chissà quali
segreti.
«Sai,
oggi è successa una cosa davvero strana in
ambulatorio» cominciò il medico, più
serio del solito. «Un bambino è venuto da noi, da
solo, e ha chiesto che gli togliessimo delle cicatrici. Le ho esaminate
io stesso – sai, erano quelle cicatrici da bambini, quelle
con su scritto “stupido” e
“secchione”, per intenderci. Quando gli ho spiegato
che potevano andarsene solo col tempo, mi ha risposto che nessuno lo
amava, perciò pensava che non se ne sarebbero mai anda-
Sherlock!» protestò John, mentre il detective si
alzava di scatto dal divano, facendogli sbattere la testa contro il
bracciolo.
L'uomo prese
tra le mani il violino e cominciò a suonare come un
forsennato, rincorrendo note che John non aveva mai sentito. Si
alzò e gli andò vicino, poggiandogli una mano sul
braccio. «Ho detto qualcosa di sbagliato?» Sherlock
non rispose, lo ignorò imperterritamente, e John
capì che voleva essere lasciato solo. «Va bene,
buonanotte» disse piano, alzandosi in punta di piedi per
baciarlo su una guancia. Sherlock lo seguì con la coda
dell'occhio fino a che non lo vide uscire.
«Sherlock...»
John ripeteva il suo nome come un mantra, lasciando che le loro labbra
si incontrassero e si separassero ripetutamente, in un movimento
perfetto, familiare e sempre diverso, lasciando che tutte le parole non
dette, tutto l'amore che avevano represso per troppo tempo fluisse
attraverso le loro bocche e diventasse sia dell'uno che dell'altro.
Combaciavano come pezzi di puzzle, magari rovinati e un po' malridotti,
ma creati per completarsi. Le dita di John, delicate in modo
impensabile per qualcuno che era stato un soldato, volarono sul petto
dell'altro e si fermarono sul primo bottone della camicia viola.
Sherlock allora lo fermò, trattenendogli i polsi in una
stretta decisa. «Cosa ho fatto?» chiese piano il
dottore.
Il detective
sfuggì al suo sguardo. «Spegni la luce, non voglio
che mi guardi...»
«Sher-»
«Sul
mio petto ci sono più cicatrici che pelle, non voglio... tu
non...»
«Sono
pronto a tutto per te» sussurrò John,
abbracciandolo piano. «Posso, Sherlock?»
L'uomo scosse
la testa, artigliandosi con le lunghe dita alla schiena dell'altro.
«Per
favore, fidati di me».
Sherlock
poggiò la testa sulla sua spalla e allentò un po'
la presa, lasciando lo spazio necessario perché le mani di
John riuscissero a togliergli la camicia. Quando sentì la
stoffa scivolare per terra, Sherlock chiuse gli occhi. «Posso
guardarti?» chiese ancora il dottore, determinato a fare solo
e soltanto quello che l'altro voleva.
Il detective
fece un passo indietro, gli occhi ancora chiusi, e annuì.
John alzò la testa e vide parole su parole intrecciarsi su
quel corpo, come se un pennarello rosso fosse passato su una lavagna
bianca, scrivendo oscenità: “mostro”,
“strambo”, “stupido”,
“sbaglio”, erano tutti incisi così in
profondità che John rabbrividì solo a vederli. Ma
c'era qualcosa, in quel corpo maltrattato, che gli conferiva un'aria di
forza, di perfezione. «Sei bellissimo, Sherlock.»
«Stai
scherzando?» chiese Sherlock, aprendo gli occhi di scatto,
sorpreso.
«No,
no. Per niente.» John deglutì. «Fanno
male?»
«Come...
Mi sento come se avessi del fuoco, sotto la pelle...»
«Aspettami.
Torno tra un secondo.» Sherlock si stese sul letto, a
guardare il soffitto. Sobbalzò quando sentì la
voce di John vicinissima al suo lobo sinistro. «Il bruciore
scomparirà un po', ma ci vorrà molto per farlo
andare via. Hai fatto infiammare le ferite, e non si sono cicatrizzate
bene...» Parlando, si era messo a cavalcioni dell'altro
– che aveva sentito distintamente la propria salivazione
azzerarsi e raggiungere un livello che si sarebbe potuto esprimere solo
con i numeri negativi – e aveva cominciato ad accarezzargli
il petto con un asciugamano umido che sapeva di fresco.
«Credimi, so come anestetizzare queste ferite...»
Sherlock
rimase silenzioso, godendosi il graduale scomparire del dolore. Gli
sembrava che John stesse accarezzando via le ferite di una vita in un
battito di ciglia. Sentì il panno allontanarsi e
tentò di protestare, ma prima che riuscisse ad aprire bocca
sentì le labbra del dottore percorrere i bordi frastagliati
delle ferite, e gemette piano. Solo quando le labbra di John arrivarono
sulle sue capì la verità contenuta nelle parole
che aveva appena pronunciato. «Hai anche tu delle
cicatrici?»
«Ne
è rimasta solo una... non brucia più come prima,
sta guarendo. La stai guarendo».
«Posso
vederla?»
John
sospirò. «È sulla spalla... la spalla
in cui mi hanno sparato, sì.»
Sherlock gli
sbottonò la camicia con gesti incerti, e gliela
sfilò via facilmente. Poi gli prese il mento tra pollice e
indice e lo costrinse ad alzare lo sguardo, catturando i suoi occhi.
«Ti fidi di me?» gli chiese sulla falsa riga di
quello che l'altro aveva detto poco prima. John annuì e si
sedette sul bordo del letto, per mostrargli la spalla.
La cicatrice
che aveva lasciato il proiettile si vedeva ancora, ma sembrava quasi
innocua; col tempo si era ristretta fino a diventare simile a una
bruciatura di sigaretta. Poco sotto, in lettere cangianti, la parola
“abominio” riluceva sulla pelle chiara. Sherlock
sentì una mano invisibile che gli stringeva il cuore e i
polmoni, lasciandolo senza fiato. Non sapeva cosa fare,
perciò decise di imitare i gesti di John; si
avvicinò a lui e lo abbracciò, poggiando le
labbra sulla ferita. «Sei la persona migliore che io abbia
mai conosciuto, John Watson» sussurrò piano,
lasciando che il peso dell'ex-militare gli gravasse addosso,
sorreggendolo.
Stettero
così, in silenzio, fino a che John non si voltò
verso di lui, cercando le sue labbra con la stessa foga e con la stessa
riverenza con cui un assetato cerca un'oasi nel deserto. «Ti
guarirò, Sherlock» sussurrava tra un bacio e
l'altro. «Te lo prometto, te lo prometto».
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