Buongiorno
a tutti!
Come
vedete, ho deciso di postare molto presto il capitolo conclusivo;
questo perché ho altri progetti dei quali devo occuparmi, in
primis
la conclusione di Paternità,
e perché comunque, essendo la storia conclusa, non aveva
senso
tirarla per le lunghe. Desidero molto ringraziarvi anche solo per
averla aperta; in particolar modo, i miei più sentiti
ringraziamenti
vanno a Andy Black e a cristal_93 per le loro cortesissime
recensioni.
Vi
lascio alla lettura; spero che questo ultimo capitoletto possa
chiarire ogni cosa. In ogni caso, in fondo al testo metterò
una
piccola noticina per eliminare ogni dubbio. Detto questo, buona
lettura a tutti!
Afaneia
Lo trovarono seduto
vicino alla tomba di Seel, cogli occhi vacui e assorti, completamente
nudo, con la pelle irrigidita, illividita dal freddo. Ma quando lo
scossero, lo agitarono, lo chiamarono, egli neppure mosse gli occhi,
eppure non era cieco, né sordo: semplicemente, sembrava
instupidito.
Sua
madre urlò, pianse
di gioia al vederlo, ma egli neppure volse lo sguardo su di lei. La
donna non si perse d'animo: lo portò a casa, avvolto in una
coperta,
lo lavò con vigore, lo fece sedere in giardino; rimase
seduta al suo
fianco, tenendogli la mano, parlandogli con voce chiara e calma,
invogliando la sua sorellina a fare lo stesso; a sera lo
portò in
camera sua, lo mise a letto, appoggiò sulle coperte vari
pupazzi e
vecchi giocattoli, sperando che la loro memoria lo stimolasse. Lo
stesso, instancabilmente, continuò a fare ogni singolo
giorno per
settimane, muovendolo, lavandolo, vestendolo come fosse paralizzato,
parlandogli, leggendogli storie come se ancora fosse un bambino
piccolo. Sua sorella sedeva ai suoi piedi, giocando con lui per
quanto la sua immobilità lo permetteva: gli appoggiava dei
bambolotti sulle ginocchia, fingendo che fosse lui a dar loro la
voce, e talora si arrabbiava perché non proprio non riusciva
a
convincerlo a partecipare; ma egli a malapena muoveva gli occhi a
seguire i suoi giochi.
Sua
madre giunse a
spingersi lungo il percorso 8 per catturargli un Pokémon,
sperando
che una creatura capace di dedicargli affetto e attenzioni potesse
riscuoterlo. Tornò a casa un giorno con un Meowth
dall'aspetto
fragile e malaticcio, e lo portò in camera sua dicendo con
voce alta
e chiara: "Ti ho portato un Pokémon molto debole. Ho pensato
che potresti prendertene cura tu."
Ma
per vari giorni egli
continuò a rimanere immobile e apatico, scrutando con occhi
spenti
la creatura che si aggirava, per la camera o il giardino, o dormiva
in fondo al suo letto o persino sulle sue ginocchia. Sua madre lo
stimolava, lo invogliava, gli ripeteva di occuparsi lui stesso del
Meowth, ma a nulla serviva: la sua mente sembrava irrimediabilmente
compromessa.
In
qualche modo fu proprio quel Meowth a salvarlo. Il Pokémon
gli si
avvicinava ogni giorno di più, cominciava a giocare con le
sue dita,
a inseguire i suoi piedi sotto le coperte; quando sua madre lo
conduceva in giardino, il Meowth lo seguiva, dormiva sulle sue
ginocchia, leccava la sua mano. Un giorno, finalmente, dopo aver
vagato a lungo per il giardino, tornò da lui trotterellando
e gli
depose qualcosa di caldo in grembo. Egli chinò un momento lo
sguardo, come obbedendo a un istintivo impulso, e d'un tratto lo
colse un senso profondo di orrore e disgusto: forse pensando di
portargli un regalo gradito, Meowth gli aveva deposto in grembo un
topolino morto! Reagendo d'istinto, egli cacciò un grido
disgustato
e balzando in piedi gettò sul prato il topolino e
gridò a Meowth:
"Non farlo mai più!". Poi, come se quel suo slancio vitale
avesse esaurito tutta la sua forza, egli ricadde pesantemente sulla
sedia e rimase immobile e pensieroso.
Sua
madre aveva udito il suo grido ed era accorsa, e ora ristava immobile
sulla soglia di casa, a guardarlo con occhi pieni di lacrime. Era la
prima volta ch'egli si riscuoteva da quella sua terribile paralisi.
"Oh,
Sakaki!" esclamò con voce spezzata. Alla
sua voce egli
si riscosse e alzò su di lei gli scuri occhi cupi. Poi, dopo
un
momento, domandò: "Chi è Sakaki?"
La
sua domanda cadde come un fulmine tra loro: una luce terribile, una
luce di angoscia e comprensione, si accese negli occhi di sua madre.
La donna lo fissò come fissando uno sconosciuto,
aprì la bocca, poi
la richiuse. Infine, avanzò lentamente e andò a
inginocchiarsi
accanto a lui, prendendo la sua mano. Il suo petto si muoveva
affannosamente, ed ella a fatica riuscì a parlargli.
"Sei
tu Sakaki" mormorò infine. E, con sforzo ancora maggiore,
soggiunse: "Vuoi forse dirmi che non te lo ricordi?"
Egli
tacque lungamente. Poi, scuotendo il capo, rispose: "No. Tu sei
mia madre?"
Ma
la donna emise solo un singhiozzo disperato, angustiato, e lentamente
reclinò il capo sulle sue ginocchia. Gli occorsero lunghi
secondi
per comprendere che, facendole quella domanda, le aveva dato un
grande dolore.
"Mi
dispiace" disse, e realmente provò una fitta di rimorso
guardandola piangere. Incerto, confuso sul da farsi,
appoggiò una
mano sui suoi capelli; balbettò: "Sento, percepisco che sei
mia
madre, che questa è la mia casa, quella è mia
sorella, ma... non ci
riesco. Mi dispiace tanto" soggiunse, e gli dispiaceva ancor
più
per il fatto stesso che percepiva il suo pianto come se fosse quello
di un'estranea, non di sua madre. "Non ricordo nulla, non...
tutto è nuovo per me. Vorrei ricordarmi di voi, di me" disse
con voce tremante, e l'avrebbe voluto davvero, vedendo tutto l'amore
che quella donna, quella bambina provavano per lui. Ma poi non seppe
più cosa dire, e tacque.
Finalmente
la donna si riprese un poco, si asciugò gli occhi, rimase in
silenzio. Fissando i suoi cupi occhi muti egli, Sakaki, se questo era
il suo nome, trovò il coraggio di chiedere: "Mio padre...
non
c'è?"
Temette
per un attimo che la donna avrebbe ripreso a piangere e si
pentì
subito di averle posto quella domanda, ma ella rimase ostinatamente,
rigidamente immobile e disse lentamente: "Tuo padre è morto
da
più di quattro anni."
Sakaki
non seppe bene come accogliere questa notizia e rimase immobile,
pensieroso. Non ricordava nulla di suo padre, per lui avrebbe potuto
non essere esistito mai: ma proprio questo gli causò un
grande
dolore.
Sua
madre si alzò finalmente dal suo fianco, traendo un sospiro
profondo
e dolcemente appoggiò una fresca mano sul suo volto; egli
percepì
un caro tocco materno e affettuoso, e provò un terribile
senso di
colpa all'idea di essersi scordato di lei.
Quando
parlò, la sua voce sembrava profondamente spezzata, eppure
carica di
speranza e di quiete. "Va tutto bene" disse dolcemente.
"Non importa. Chiameremo il medico. Faremo qualunque cosa per
te, Sakaki, mio caro tesoro... ma per favore, nel frattempo"
soggiunse, e la tonalità della sua voce gli fece intuire che
questa
postilla era molto importante "ti prego, non farlo ancora capire
a tua sorella."
Quella
sera, Sakaki tornò da solo in camera sua, senza l'aiuto di
nessuno,
e da solo si cambiò, ma non si mise subito a letto. Sentiva
sua
sorella, nell'altra stanza, insistere con sua madre perché
la
lasciasse andare in camera sua; ma la donna, irremovibilmente, la
tratteneva ripetendole: "Tuo fratello è stanco. Lascialo
stare.
Ci sarà tempo domani per giocare."
Gli
pareva di essersi risvegliato quel giorno da un sonno incredibilmente
lungo, e ora non aveva voglia di andare a dormire. Cominciò
ad
aggirarsi per la camera, senza scopo, e si soffermò davanti
all'ampio cassettone nell'angolo della stanza, dove lo attiravano
alcune foto incorniciate, vagamente impolverate, sorridenti.
Sì:
lui, sua madre, sua sorella... era quello suo padre? Rimase a lungo a
fissare quella foto, il suo volto spigoloso e virile, i suoi neri
occhi sorridenti; nella foto, suo padre era alle sue spalle, entrambi
chini su una torta di compleanno con dieci candeline. Assomigliava
molto a suo padre, pensò: quanto avrebbe voluto ricordarsi
di lui!
Era stato un uomo affettuoso, severo, irascibile, pigro, sportivo,
silenzioso? Sentì una fitta di rimpianto a quel pensiero, il
pensiero non solo d'aver perduto suo padre, ma soprattutto di averlo
dimenticato. Anche la sua sorellina era orfana come lo era lui; ma a
lui, quelle identità che vedeva vagamente riemergere dalla
nebbia
della sua memoria, avevano strappato i soli ricordi che mai avrebbe
potuto avere di suo padre... e non solo. Era dunque quello che doveva
scontare per qualche peccato che aveva commesso? Perdere tutto, il
suo passato, la sua stessa identità... non avrebbe mai
ritrovato suo
padre, pensò dolorosamente, strappandosi bruscamente da
quella foto;
si sentiva gli occhi bruciare. Ah, ma egli sapeva a chi doveva tutto
ciò! Egli ricordava, come primissima memoria nella sua
mente, ciò
che quelle presenze gli avevano fatto...
Udì
un ticchettio sonoro proveniente dalla finestra: quando si
voltò,
scorse il suo Meowth che graffiava il vetro per farsi aprire. Povera
creatura! pensò lanciandosi ad aprire la finestra
per farlo
entrare: doveva essere scappato quando lui gli aveva urlato quel
pomeriggio in giardino, ed egli insensibilmente se n'era scordato...
"Vieni
dentro, caro" mormorò. "Ti ringrazio per l'aiuto che mi
hai dato oggi. Perdonami: non avrei dovuto urlarti contro. Oggi mi
hai aiutato a riprendermi, e io mi prenderò cura di te,
d'ora in
poi..." Accarezzò il suo morbido capo peloso, e la creatura
fece le fusa e cominciò a pulirsi il pelo.
Sakaki
riprese le sue riflessioni: era ancora davanti alla finestra aperta e
la brezza accarezzava il suo volto già di giovane uomo.
Sì: egli
sapeva chi gli aveva tolto la memoria, chi lo aveva privato l'unico
ricordo che mai avrebbe potuto avere di suo padre... chi, per finire,
gli aveva rubato il suo nome, la sua identità, sottraendolo
a se
stesso! Erano state quelle presenze che lui aveva percepito nello
svegliarsi al buio in quella stanza, quegli spettri che aveva visto
chiaramente ridere di lui! Sì, egli sapeva che essi avevano
tentato
d'ingannarlo per mantenere il segreto sulla loro identità,
sul
potere con cui tenevano avvinta la città... Essi avevano
voluto
fargli credere di essere sue allucinazioni, ma avevano fallito: egli
ricordava quel loro aspetto di spettri; sapeva che avevano un potere
tanto grande da fargli scordare persino il suo nome...
Le
sue dita strinsero spasmodicamente il davanzale della finestra, le
nocche illividirono: ebbene! poiché essi per impedirgli di
scoprire
la loro identità gli avevano sottratto il suo nome, egli per
vendetta avrebbe scoperto il loro! A qualunque costo egli avrebbe
dato loro un corpo fisico, un corpo su cui potersi vendicare,
poiché
da spettri era per lui impossibile agire su di loro: ma come
miserabili, impotenti Pokémon mortali li avrebbe catturati,
avvinti
come essi avevano avvinto lui! Avrebbe svelato, mostrato a tutti le
presenze di quella Torre, che volevano restar nascoste!
Avrebbe
avuto bisogno di qualche cosa, certo, di un qualche strumento,
probabilmente di molto aiuto, ma non avrebbe desistito, a costo di
impiegare anni. La sua mente lavorava già meccanicamente,
incessantemente su quel progetto, che di tutta la sua vita era la
sola cosa che gli fosse rimasta. Accarezzò pensierosamente
il capo
di Meowth, sentendosi il petto pieno di eccitazione e ambizione, del
desiderio grande della sua vendetta, continuando a meditare: si
sentiva preso da un'emozione folle, avida, ambiziosa. Gli sarebbe
occorso uno strumento capace di mostrargli il vero volto di quelle
creature, la loro vera identità... un oggetto che lo
aiutasse a
sondare quei corpi ectoplasmatici, impalpabili, quegli spettri...
Sì...!
egli aveva bisogno di una Spettrosonda!
Nota
dell'autrice: come forse alcuni di voi già
sanno, Sakaki è il nome
giapponese di Giovanni. Ho scelto di utilizzare il nome giapponese
per differenziare questa versione di Giovanni da quella che compare
nella mia Saga
della Prescelta
Creatura, in quanto questa storia non fa
riferimento a
quella serie.
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