Storia
che partecipa alla Challenge "Otto fandom e una valanga di prompt"
indetta da kuma_cla
Immagina di stare in un posto
che non sai dov'è.
La cosa che non sai, in
realtà, è dove rimane quel posto rispetto a un
altro, o quanto è lontano.
Ma questo non cambia nulla
rispetto al posto in cui sei.
[Non è un paese per
vecchi, Cormac McCarthy]
Rumori.
Indistinti.
Il bollire di una pozione, il tintinnio di chiavistelli che sbattono
fra loro, porte che si chiudono.
Sensazioni.
Flebili.
Il calore soffocante delle coperte grezze, il freddo di tubi infilati
in un braccio immobile, il bruciore della gola secca, il delicato tocco
di una mano gentile.
Ma dov'era Audrey? Dov'era finita?
Perché non riusciva ad aprire gli occhi? Perché
sentiva il suo corpo così pesante, infossato fra le pieghe
di un duro materasso?
Ricordava il bosco, il vento che sferzava sul suo viso, gli occhi scuri
di suo padre mentre le lanciava trionfo una maledizione senza perdono.
Dolore.
Sordo e perpetuo che percorreva tutto il suo corpo senza concedergli
fiato.
Si domandò più volte se fosse morta, ma la morte
non doveva portare alla pace dei sensi? O forse questa era la sua
condanna? Un inferno impregnato dall'odore dei disinfettanti e di
pozioni nauseanti?
Nessun pensiero che riusciva ad elaborare fra uno stato d'incoscienza e
l'altro cancellava l'ultima immagine di sé e del mondo che
aveva.
Sangue colava sulle sue mani, sangue scendeva dallo squarcio che aveva
inflitto sul corpo di suo padre.
Antonin Dolohov era morto per mano sua, rendendola così
un'assassina.
Poteva essere morta o rinchiusa in un ospedale, quella piccola certezza
albergava nel suo cuore e la trascinava giù nei meandri
della follia.
Quattro mesi dopo
Le imposte chiuse impedivano al sole cocente di fine agosto di
soffocare la stanza.
Audrey si tirò su a sedere con qualche difficoltà
e quasi gioì nel sentire un formicolio alle gambe, era la
novità della settimana. Passava gran parte della sua
giornata a pensare. Con gli occhi ancora bendati e zuppi di
medicamenti, un braccio ancora immobile e le gambe fragili, le era
stato imposto il riposo assoluto con la proibizione di qualsiasi
attività e la confisca della bacchetta. Un'unica eccezione,
l'ascolto della musica.
In breve la sua stanza divenne un teatro dove Schubert,
Fauré, Debussy, Bach, Chopin e molti altri ancora,
s'incontravano con le loro serenate, pavane, preludi, concerti per
orchestra o per pianoforte.
Stava ascoltando attentamente Schubert quando sentì una mano
appoggiarsi sul braccio malato.
Dita lunghe, mano calda, tocco gentile.
Se avesse potuto usare la vista era certa che vi avrebbe trovato delle
macchie d'inchiostro.
Sorrise.
-Come stai oggi?- chiese Percy sedendosi sul letto e stringendole una
mano.
-Bene. E tu?- domandò Audrey cercando di leggere fra le
righe. Sapeva che mentre lei dormiva sonni agitati e cercava di
sopravvivere, Percy aveva perso suo fratello.
Ne era rimasta sconvolta persino lei che non lo conosceva.
Di fronte a lei, il giovane funzionario del Ministero, appariva calmo
ma la sua voce si colorava di note tristi e dolorose. Soffocava dentro
di sé tutti i sentimenti e cercava di mostrarsi sereno,
tuttavia non riuscì mai ad ingannare Audrey.
Con la mano guarita, aveva notato l'estrema magrezza delle sue guance,
i capelli arruffati, la barba che poteva crescere anche per giorni
prima che trovasse la forza di rasarsi, il nervosismo che lo percorreva
e i sensi di colpa che lo irrigidivano.
Quando la veniva a trovare, Audrey non chiedeva mai niente, non lo
forzava a fare nulla se non abbracciarla.
In quei lunghi momenti passati stretti, potevano entrambi lasciarsi
andare. Percy piangeva la morte del fratello, Audrey smetteva di
convincersi di aver fatto la cosa giusta.
|