Storia
partecipante al contest di ManuFury 1 su 24 ce la fa
Nick sul
forum/ Nick su EFP (segnalare quello che si vuole avere sul
Banner):_Nica89
Tributo:Cecelia
Turno:quarto
Titolo
Storia:Una mietitura alla volta
Pacchetto
(se presente): 11. Il Tributo assiste per la prima volta ad una
Mietitura (+1 punto se assiste ma non vi partecipa).
Genere:introspettivo,
Slice of life
Rating:verde
Avvertimenti:
Pairing
(se presente):
Note
(facoltative): Non dovrebbe esserci nulla in particolare. Ho dovuto
forzare un po’ le edizioni dei Giochi, per non avere dei
bambini troppo grandi nell’edizione della memoria. I
quattordici anni di mietiture sono quelle dalla prima di John
all’ultima di Jenny.
Una mietitura alla volta
Continuo
a rigirarmi nel letto, incapace di riprendere sonno. Se Richard fosse
con me, probabilmente mi limiterei a rimanere immobile a fissare il
soffitto, invece di controllare insistentemente le lancette
dell’orologio che sembrano non volersi spostare dalle quattro
del mattino.
Rimanere
ancora sdraiata mi è impossibile, così mi alzo e
mi dirigo verso le stanze dei bambini. Socchiudo appena le porte di
quelle di James e Jenny, che riposano sereni ed entro nella camera di
John. Anche lui – come i fratelli – sta dormendo,
ma il suo sonno è agitato. Non posso vedere i suoi sogni
– o, meglio, i suoi incubi – ma posso immaginare
quali paure il suo subconscio sta risvegliando.
Vorrei
svegliarlo, mostrargli che è al sicuro e che si trattava
solo di un incubo, ma già so che peggiorerei solamente la
situazione.
Da
quando, qualche mese fa, ha compiuto i dodici anni qualcosa
è cambiato e John è diventato sempre
più schivo. L’argomento “Hunger
Games” è diventato sempre più spinoso e
qualsiasi accenno a esso creava nuova tensione che si andava ad
aggiungere a quella precedente.
Nonostante
i miei propositi, non posso fare a meno di sedermi sul bordo del letto
e spostare il ciuffo di capelli che gli ricade sugli occhi. Ritraggo
velocemente la mano quando si sveglia con un sussulto. John impiega
qualche secondo, prima di riuscire a mettere a fuoco la stanza e ad
accorgersi della mia presenza.
«Mamma»
mormora, con la voce impastata di sonno, mentre si mette a sedere con
la schiena appoggiata alla testiera del letto.
«Non
volevo svegliarti» sussurro a mia volta, per
scusarmi.
John
si stropiccia gli occhi, borbottando qualcosa che assomiglia vagamente
a un «che ore sono?».
«È
presto, rimettiti a dormire» cerco di rincuorarlo, prima di
sfiorargli una gamba e congedarmi da lui.
«Aspetta»
la sua voce è bassa, insicura, ma la sua richiesta
d’aiuto è chiara, così rimango seduta
sul suo letto, in attesa di una domanda che non tarda ad
arrivare:
«Se
io dovessi essere scelto …» esita, ed io cerco di
interromperlo:
«Cerca
di non avere pensieri negativi, non è ancora detto
nulla»
«Ma,
se davvero toccasse a me, – insiste – sarai tu a
farmi da mentore?». Ha dovuto sforzarsi per lasciare che
quelle parole uscissero dalle sue labbra.
«Non
sono stata invitata a Capitol City, quest’anno»
ammetto, dispiacendomi – per la prima volta – che
sia Sarah a occuparsi dei tributi di
quest’edizione.
John
annuisce senza parlare, sul suo volto vedo l’ombra creata
dalla flebile speranza che ho appena cancellato. Mi sento in obbligo di
aggiungere qualcosa per rassicurarlo:
«Farò
comunque tutto il possibile per farti tornare a casa, se il tuo nome
venisse estratto dall’urna».
Gli
sfioro la guancia e lui si getta tra le mie braccia. Lo stringo,
lasciando che trovi quel conforto che tanto ostinatamente cercava di
rifiutare.
Sento
le sue braccia fare altrettanto dietro la mia schiena; tutte le difese
che aveva cercato di alzare sono crollate come un castello di carte e,
improvvisamente, mi appare troppo fragile per poter sopportare la
mietitura.
Lentamente,
la stretta attorno al mio busto si allenta ed io mi sciolgo dal suo
abbraccio.
«È
ancora presto per alzarsi, prova a riaddormentarti» gli
suggerisco, posandogli un nuovo bacio sulla fronte.
John
annuisce, sistemandosi sotto le coperte.
«Rimarrai
finché non mi sarò addormentato?»
domanda, trattenendo a stento uno sbadiglio.
«Solo
se lo vuoi» gli rispondo. John annuisce, chiudendo gli occhi,
mentre io rimango a vegliare su di lui.
Sussulto
quando Richard mi sveglia. Il sole ormai entra sicuro dalle persiane;
inizio a pentirmi di aver desiderato che la notte passasse velocemente:
adesso vorrei poter fermare il tempo, in modo che l’ora della
mietitura non arrivi mai più.
Guardo
mio marito, il suo volto è segnato dalla stanchezza del
turno di lavoro appena concluso, ma è ugualmente pronto a
darmi tutto il sostegno di cui ho bisogno. Mi stringo a lui e insieme
continuiamo a osservare il nostro primo figlio.
Richard
sbadiglia e subito gli propongo di andarsi a stendere, approfittando
degli ultimi momenti di tranquillità prima che si sveglino i
bambini e che arrivino i miei preparatori per oggi pomeriggio.
«Non
preoccuparti, – mi risponde – preferisco fare
colazione». Mi bacia la fronte ed io lo seguo verso la
cucina. Sono tentata di svegliare anche i bambini, per far godere loro
una delle poche colazioni tutti insieme, invece lascio che rimangano a
letto ancora per un po’.
«Com’è
andato il turno di notte?» domando a Richard, porgendogli una
delle due tazze di caffè fumante che ho appena preparato.
Lui fa una smorfia, prima di raccontare:
«Hanno
serrato ancora i tempi di produzione. Per poco, una nuova
operaia ha rischiato di stamparsi il logo di Capitol City sulla mano,
invece che sulla divisa del pacificatore …».
Scuote la testa, esprimendo tutta l’esasperazione che prova
in un sonoro sbuffo.
«Mi
chiedo fino a che punto vorranno spingersi, la gente è al
limite della sopportazione. Basta uscire in strada per
capirlo».
«La
gente ha già superato quel limite – mi corregge
Richard – la protesta in fabbrica è già
pronta a scoppiare, si stanno muovendo su un terreno minato».
Rimango
in silenzio, fissando il contenuto della mia tazza, ripensando a una
conversazione tra i miei genitori – udita, per sbaglio,
diversi anni fa – su una protesta in fabbrica e sulla sorte
che toccò a mio zio per avervi preso parte attivamente.
Torno
nuovamente a osservare mio marito, ma il discorso viene interrotto
dall’arrivo dei due bambini più piccoli. Jenny
corre subito dal padre, mentre James corre a cingermi la vita, prima di
richiedere la sua colazione. Mentre scaldo il latte per i due, ci
raggiunge in cucina anche John.
«Buongiorno!»
lo saluta Richard.
«Vuoi
qualcosa di colazione?» gli domando io.
Lui
scuote la testa. Non mi è difficile capire che ha nuovamente
indossato quella fragile corazza che ha costruito negli ultimi mesi.
Con un groppo alla gola, lascio che sbocconcelli solamente alcune fette
di pane tostato. Alzo lo sguardo verso l’orologio che segna
quasi le dieci, tra poco arriverà il mio team di preparatori.
Non
faccio in tempo a rassegnarmi all’idea di essere nuovamente
trattata come una bambola, che il campanello inizia a suonare come
impazzito. Jenny sobbalza e corre prontamente a nascondersi sotto il
tavolo. Questa scena mi farebbe sorridere, se solo non conoscessi
quanto sia terrorizzata dall’idea di trovarsi davanti a
Tigris, la mia vecchia stilista. Ho provato a spiegarle che –
come l’anno scorso – sarà Lumnia a
prepararmi, ma Jenny preferisce rimanere nascosta e sbirciare appena,
uscendo allo scoperto solo dopo essere sicura che “la donna
tigre” non sia effettivamente in casa.
Appena
apro la porta, la casa si riempie delle voci e dei toni tipici di
Capitol City.
Lumnia
non perde tempo ed elenca minuziosamente il suo programma, sia a me che
ai suoi due aiutanti.
«Hai
già scelto l’abito che indosserai,
cara?» mi domanda.
«Non
ancora» ammetto, anche se è difficile spiegare a
un abitante della Capitale il perché – solitamente
– non sia l’abbigliamento a preoccupare gli
abitanti del Distretto, nel giorno della mietitura.
Lumnia
zittisce i mormorii di dissenso dei suoi collaboratori e torna alla
carica:
«Vorrà
dire che lo sceglieremo insieme, in attesa che i trattamenti per i
capelli facciano il loro dovere. Visto che sono previdente, ho portato
qualcosa di davvero delizioso! Sono sicura che non hai visto abiti
più belli … » afferma,spingendomi verso
il bagno, dove inizia subito a miscelare creme e polveri in diverse
scodelline, prima di applicarmi in testa vari intrugli.
Dallo
specchio riesco a vedere il viso di Jenny sbirciare furtivamente nella
stanza. Sorrido e lei mi contraccambia, radiosa come solo una bambina
di cinque anni può essere.
«È
tua figlia?» domanda la mia stilista, mentre fruga nella sua
borsa da lavoro, alla ricerca di qualche strumento particolare.
«La
più piccola» confermo, ma non faccio in tempo a
chiamarla che lei è già scappata via, lanciando
gridolini divertiti.
Lascio
che il mio staff continui con i vari trattamenti. Rimango chiusa in
bagno per buona parte della mattinata. Dalla cucina iniziano a
provenire i rumori dei piatti di ceramica sistemati per il pranzo. Sono
costretta a rimanere con i miei preparatori, mentre Richard e i bambini
iniziano a pranzare e riesco a raggiungerli solo quando hanno quasi
terminato. Tuttavia, il piatto di John è ancora pieno e lui
continua a spostare il cibo da una parte all’altra, senza
mangiarlo.
In
un giorno qualsiasi lo sgriderei, ma la paura di una lite prima della
mietitura mi trattiene. Finito il pranzo, ho solo il tempo di
sparecchiare, prima che i tre preparatori mi rapiscano nuovamente per
la vestizione e gli ultimi ritocchi al trucco. Quando sono finalmente
pronta, manca solo un’ora alla mietitura. Richard ha
già fatto il bagno a Jenny e John si sta lamentando che il
fratello sia entrato in bagno prima di lui.
«Mi
ero messo d’accordo con Oliver, per andare insieme, ma se
James non si sbriga a uscire, come cavolo faccio?»
l’ultima frase la rivolge direttamente al fratello,
tempestando la porta di pugni. Lo allontano, cercando di farlo calmare.
Fortunatamente James esce poco dopo.
«Adesso
puoi andare a farti la doccia, intanto ti lascio sul letto il tuo
completo, va bene?» lo rassicuro. John si chiude a chiave
senza nemmeno preoccuparsi di rispondermi. Sfortunatamente, alla scena
assistono anche i miei preparatori.
«Cara,
dovevi dircelo che avrebbe partecipato alla mietitura, ci saremmo
organizzati per poter preparare anche lui! Non ci è rimasto
molto tempo adesso, possiamo comunque aiutarti nello scegliere i
vestiti e sistemargli i capelli, sono sicura che ruberebbe la
scena a tutti gli altri ragazzi presenti in piazza
…»
«No».
Le parole escono dalla mia bocca ancora prima che possa addolcirle con
della falsa cortesia, tanta è la rabbia che provo
all’idea di mio figlio nelle loro mani.
«Ma,
cara, - tenta di convincermi Lumnia, mentre m’insegue insieme
al suo staff – vogliamo solo che possa risplendere!»
«Mio
figlio non è un tributo. Non ancora! – inizio,
scegliendo dall’armadio di John un paio di pantaloni stirati
e una camicia di lino – Se verrà estratto, non vi
mancherà occasione di acconciarlo come più
ritenete giusto. Fino a quel momento sarò io a occuparmi di
lui, così come sarò io a preoccuparmi della
preparazione degli altri miei figli, chiaro?»
Vedo
la mia stilista sgranare gli occhi sorpresa e, al contempo, risentita
per la mia reazione. Poi Lumnia si mette sul volto la sua miglior
espressione indignata ed esce dalla stanza, seguita a ruota dai suoi
colleghi.
Mi
rendo conto di stringere troppo forte gli abiti che ho in mano; li
appoggio sul letto, cercando di rimediare alle grinze lasciate dalle
mie dita, ma le mie mani tremano troppo per ottenere un risultato
accettabile. Mi siedo sul letto, cercando di calmarmi, con
l’unico risultato di vedere John in piedi sul palco.
Richard
entra in camera e mi trova nel momento peggiore della mia crisi di
nervi.
«Cosa
è successo? Quelle tre hanno raccolto tutto in fretta e
furia e hanno puntato dritte verso la porta! Pensa che non ho dovuto
neppure prendermi il disturbo di aprirla!». Mi scappa un
mezzo sorriso nell’immaginarmi la scena, poi torno
seria.
«Volevano
preparare anche John ed io non sono riuscita a controllarmi»
gli spiego, cercando protezione tra le sue braccia.
«Non
so cosa mi sia preso, Lumnia lo considerava già come un
tributo mentre mi proponeva di vestirlo e pettinarlo,
affinché si distinguesse dagli altri ed io
…» cerco di impedire alle lacrime di cadere,
mentre parole incoerenti continuano a uscire dalla mia bocca. Richard
mi zittisce. Continua a stringermi delicatamente, la sua mano scivola
lungo la mia schiena, per poi risalire fino alla base del collo. Mi
aggrappo a lui, per non affogare nelle mie stesse paure. Quando mi
scosto appena, Richard mi fissa per assicurarsi che io stia meglio e in
lui vedo riflessi i miei stessi timori.
«Non
so se riuscirò a sopportare tutto questo per i prossimi
quattordici anni» ammetto.
«Nemmeno
io, – confessa a sua volta, poi mi prende il volto tra le
mani – ma dobbiamo essere forti. Per loro. Non dobbiamo
affrontare tutto adesso. Una mietitura alla volta, ricordi?»
domanda mio marito, io annuisco e accenno a un debole sorriso, nel
riconoscere le parole con le quali mi aveva dato coraggio il primo anno
da mentore.
Siamo
ancora abbracciati quando John rientra in camera. Richard mi trascina
fuori dalla stanza, congedandosi da lui con un semplice: «Ti
aspettiamo di sotto».
In
salotto, James gioca insieme a suo padre, mentre io finisco di
allacciare l’abitino di Jenny.
«Sono
pronto» annuncia John. Cerca di sembrare sicuro, ma
è evidente quanto sia spaventato. Richard gli dà
una pacca sulla spalla, per incoraggiarlo. Io gli sistemo il colletto
della camicia, poi lo stringo a me, sussurrandogli
all’orecchio:
«Mi
raccomando, cerca di non salire su quel
palco!»
«Farò
del mio meglio» mi risponde, come se davvero questo
dipendesse da lui. Lo bacio un’ultima volta, prima di
lasciarlo uscire di casa.
Aspetto
a raggiungere la piazza principale finché la sirena non
inizia a suonare, annunciando l’imminente inizio della
mietitura. James tiene per mano Jenny sul vialetto del Villaggio dei
Vincitori, mentre io e Richard li seguiamo a breve distanza. Le sue
dita stringono le mie ed io mi concentro solo su questo piccolo gesto,
per riuscire a compiere il tragitto da casa fino al Palazzo di
Giustizia. La strada principale si sta riempiendo velocemente di
persone, così Richard richiama i bambini, in modo da non
perderli tra la folla.
Rimango
con loro a lato del palco, cercando di controllare la crisi di panico
che sento crescere. Lo spazio riservato ai potenziali tributi va
lentamente riempiendosi. Più volte cerco John sia tra i
dodicenni, sia tra i ragazzi non ancora registrati; finalmente lo
scorgo, mentre si allinea accanto ad alcuni suoi compagni di classe.
Sento una stretta allo stomaco nel realizzare che – da ora in
poi – non potrò più fare nulla per
tenerlo al sicuro.
Scorgo
tra la folla anche Daniel, il mio vecchio mentore che si sta facendo
strada verso di me. Quando mi raggiunge nota subito che la mia famiglia
non è al completo, io gli indico con un cenno della testa i
recinti ormai quasi al completo.
«Capisco»
si limita a dire, prima di scambiare qualche parola anche con Richard,
prima di suggerirmi di entrare nel Palazzo di Giustizia dalla porta a
noi riservata.
A
giudicare dalle espressioni preoccupate sui visi che mi circondano,
devo essere impallidita improvvisamente. Richard è subito al
mio fianco a cingermi la vita, per impedirmi di cadere.
«Mamma,
sei tutta bianca!» esclama allarmata
Jenny.
«Non
è niente, tesoro, è tutto a posto. Adesso la
mamma sale sul palco insieme a Daniel e Sarah, ci vediamo dopo. Va
bene?» cerco di tranquillizzarla, accarezzandole il visino
paffuto.
«Ti
accompagno» si offre subito Richard. Gli poso una mano sul
petto e scuoto piano la testa:
«Sto
bene, rimani con loro» rispondo a bassa voce, prima di
allontanarmi da lui che, a malincuore, mi lascia andare.
Scortata
da Daniel, mi unisco al sindaco, a Sarah e a Nahe,
l’accompagnatrice di Capitol City che sorteggerà i
due tributi. Quando l’orologio batte le quattro in punto, il
portone principale del Palazzo di Giustizia si spalanca e noi facciamo
il nostro ingresso e noi facciamo il nostro ingresso sul palco. Con
passo tremante, riesco a raggiungere il posto che mi è stato
assegnato.
Non
è la prima volta che assisto alla mietitura da un punto di
vista così privilegiato come il palco, ma ogni mietitura
è differente: ne ho vissute tante, alcune confusa tra gli
spettatori, altre nei recinti delle ragazze sorteggiabili, altre come
vincitrice, ma mai – fino ad oggi – come madre. Da
semplice spettatrice, mi chiedevo chi sarebbe salito; da candidata,
speravo di non essere io; da mentore, mi domandavo quali ragazzi mi
sarebbero stati affidati; da madre, spero solo che non estraggano mio
figlio, anche se questo vuol dire vedere un altro ragazzo strappato
alla propria famiglia.
Il
colpo d’occhio sulla piazza è davvero notevole:
l’ordine marziale dei ragazzi sorteggiabili, rigorosamente
divisi tra loro per sesso ed età, contrasta con la folla di
spettatori, assiepata caoticamente accanto a loro. A fare da
spartiacque tra i due gruppi, solo un cordone umano di pacificatori
dalle divise candide.
Quest’anno,
però, tra quei ragazzi c’è anche John.
Mentre l’inno di Panem riecheggia dagli altoparlanti,
continuo a tenere il mio sguardo puntato su mio figlio: ho voluto
fargli vivere un’infanzia serena, lontana dalla logica degli
Hunger Games e adesso mi domando se non avessi fatto meglio a
prepararlo per i Giochi, ad allenarlo come un favorito o –
quantomeno – ad abituarlo ad affrontare l’Arena.
La
cerimonia continua e Nahe guadagna il centro del palco per sorteggiare
i due tributi della Settantaquattresima Edizione. Imitando gli altri mi
siedo meccanicamente al mio posto. Questo è sempre stato il
momento che ho temuto e odiato maggiormente, ma mai avrei creduto di
poter sentirmi tanto terrorizza e impotente come in questo momento. Per
la prima volta, capisco realmente l’ansia che provava mia
madre, e anche i suoi dubbi quando le avevo annunciato di voler avere
dei figli: sapeva cosa mi sarebbe aspettato, lo aveva già
passato a causa mia e voleva evitarmi almeno questa sofferenza.
Fa che non tocchi a John,
imploro mentalmente, mentre Nahe sta ancora scegliendo il bigliettino
nell’urna delle ragazze.
«Zoe
Needle» annuncia pimpante. Non ho mai sopportato il suo vizio
di aspettare qualche secondo prima di pronunciare il cognome del
sorteggiato. Dalle file centrali una ragazza si fa avanti, mentre la
piazza rumoreggia riconoscendo la figlia del
sindaco.
Rivolgo
uno sguardo di solidarietà alla moglie, come se questo
potesse esonerare la ragazza dal partecipare agli Hunger Games.
Nahe
la accoglie sul palco, prima di saltellare verso l’urna
opposta. John segue i suoi movimenti con volto terreo. Vorrei poter
essere accanto a lui, stringerlo per affrontare insieme questo momento,
invece sono costretta a lasciarlo solo.
Fa che non sia lui,
ripeto mentalmente. So che è un pensiero egoista, ma non
posso farne a meno.
«John
Wool».
John.
Il nome di mio figlio continua a rimbombarmi nella testa, mentre il
sangue mi rimbomba nelle orecchie e tutti gli altri rumori svaniscono e
il mondo mi pare improvvisamente ovattato. Alla fine è
successo proprio ciò che temevo.
Guardo
mio figlio e lo vedo immobile al suo posto, con i pugni ancora serrati,
ma sul suo viso inizia a dipingersi una traccia di
sollievo.
Quando
vedo un ragazzo uscire dalle ultime file e avviarsi verso il palco, mi
rendo conto di non aver sentito il cognome del ragazzo, troppo colpita
dal nome pronunciato da Nahe.
Il
senso di liberazione che provo è talmente forte da
provocarmi le vertigini.
«È
salvo» sussurro appena, lasciando che un debole sorriso
compaia sulle mie labbra.
La
prima mietitura di John è finita e presto sarà di
nuovo insieme ai suoi fratelli. Mi alzo in piedi per l’inno
che conclude la cerimonia. I due tributi vengono scortati
all’interno del Palazzo di giustizia per poter dire addio ai
loro familiari. Con la coda dell’occhio vedo il sindaco
sorreggere la moglie e accompagnarla oltre la porta.
Raggiungo
Richard e i due bambini più piccoli, mentre la folla inizia
a diradarsi. John ci raggiunge poco dopo. Lo stringo forte, mentre
tutta la sua tensione si scioglie in un pianto liberatorio.
«È
finita, sei salvo» cerco di rassicurarlo, lui annuisce,
mentre con i pollici gli asciugo le lacrime che ancora rigano il suo
viso. Il peggio – per quest’anno –
è passato e possiamo tornare a casa tutti insieme.
Rientrare
nel Villaggio dei Vincitori non mi è mai sembrato tanto
dolce, anche se il mio pensiero non riesce ad allontanarsi dalle due
famiglie che questa sera ceneranno con un posto vuoto in più
alle loro tavole.
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