Scinti
Falìve
Vedo amici tenersi per mano,
e dirsi “Come stai ?”
ma in realtà loro dicono “Ti amo”
Sento bambini piangere, io li vedo crescere
Loro impareranno molto più di quello che io so
E penso tra me, che mondo meraviglioso
Sì, penso tra me, che mondo meraviglioso
Louis Armstrong, What a
wonderful world
Here weare as in olden days,
happy golden days of yore,
Faithful friends who are dear to us
Gather near to us once more
Babyface, Have yourself
a merry little Christmas
Un fiocco di neve.
E’ bastato solo un minuscolo, volteggiante fiocco di neve (quelli che
da piccola mi ostinavo a chiamare piotto,
nonostante i bonari tentativi di correzione di mia madre e delle
signorine dell’asilo). Scendeva giù pigro e lento e ostinato da un
cielo livido come una lastra di piombo, nell’attimo esatto in cui mi
chiudevo la zip del cappotto per contrastare il gelido tocco di
gennaio… mi sarebbe venuto da dire “gennarino”,
come si usa dicembrino o settembrino, ma un secondo prima di approvarne
l’uso mi ha dato l’impressione di non suonare poi così bene. Da
rivendita di pizza al taglio, per capirci…non vi pare? Comunque, stavo
dicendo?
Già. E' il solito, inguaribile vizio (uno dei)
di infiorare all’estremo i miei pensieri, prima di formulare concetti
definitivi, quasi come se traessi sommo piacere, da questo mio
personale ikebana mentale. Solo che poi rischio di
perdere il
filo. Dunque, vediamo se mi riesce, per qualche istante almeno, di
focalizzare il punto. Magari ricorrendo ad una concisione
minimalista. Allora… fiocco di neve
(o piotto,
come ero solit… Alt, FERMA LI’!)
uguale Natale.
Quello strano
Natale.
Mi
bloccai impalata sul marciapiede, sfiorata da fugaci passanti
intabarrati in sciarpe e cappelli e pesanti paltò, con la testa e le
speranze già al tepore delle loro destinazioni. Dietro di me una targa
lucida confermava autoritaria la presenza dello studio medico da cui
ero appena uscita. “Dottoressa
Zuleika Carnarollo - ginecologa”,
ammonivano seriose le parole incise nell’ottone. Originale, come nome
di battesimo, soprattutto per una seria specialista, non trovate? O
perlomeno a me ha sempre dato una strana impressione, fin dal primo
momento in cui una cara amica me l’ha consigliata. Certa che mi sarei
trovata bene e a mio agio (e ci aveva visto giusto, per quanto “a
proprio agio” ci si possa sentire al cospetto di un estraneo il cui
compito preveda, a volte, di infilarti dita in posti non troppo - o
non sempre, dipende dai gusti - graditi). Col tempo e la fiducia e la
serenità che la mia “gine” ha saputo trasmettermi sono riuscita a
sorvolare sul suo poco ortodosso nome proprio, anche se mi rimane
sempre la bizzarra convinzione che si adatterebbe di più a maneggi con
sfere di cristallo e tarocchi e pietre divinatorie. “Dalla magica Zuleika,
previsioni astrologiche e pap-test e lettura del futuro nei fondi di
caffè”.
Ad ogni modo ero appena uscita dal suo confortevole studio, cullata
dalla rasserenante conferma che
“tutto procedeva per il meglio” (e se qualcuno sostiene
che esiste qualche frase più rassicurante del “va tutto bene”
del proprio medico curante… beh, egli parla con lingua biforcuta) E
l’allettante obiettivo di scaldarmi piedi e stomaco davanti ad un buon
cappuccino schiumoso, e relativa brioche alla crema... quand’ecco che
quell’insignificante piotto
di neve arriva a incrociare il mio sguardo e la mia strada.
Spalancando un’ipotetico portone dietro cui scalpitavano, a mia
insaputa, qualcosa come un centinaio di ricordi, che non si fecero
certo pregare per invadere al galoppo le praterie della mia testa.
E’ strano,
pensai (ma su questo ci riflettei un po’ più tardi, mentre mescolavo
con voluttà la spruzzata di candida panna lascivamente adagiata sul mio
cappuccino, spaparanzata come una principessa sulle confortevoli panche
di una pasticceria… panna, sì, embè? Di qualcosa bisogna pure morire,
no?). E’ strano,
dicevo, e buffo e pure
un po’ inquietante l’anarchico meccanismo con cui le cose passate ci
tornano alla mente.
Soprattutto in questa nostra epoca sempre più frenetica e senza pause,
bombardati da un miliardo e mezzo di informazioni, la maggior parte
delle quali inutili, dalle baruffe dei politici a quale detersivo “lava sì ma anche pulisce e
deterge e sbianca e fa di conto”.
Succede, ad esempio, e non ci si può fare niente, che quello che non
sia in potere ad innumerevoli Natali passati, non ultimo quello
trascorso da non più di una decina di giorni, col suo ridondante
bagaglio di luci e alberi e musichette e carta da regalo, riesca
altresì ad un minuscolo ed effimero cristallo di acqua congelata.
Eppure è così. O forse è proprio
così che deve andare. Ai ricordi, perlomeno a quelli così importanti da
essere dimenticati (afferrata la finezza filosofica da tavolino di
bar?), come ai raffreddori, bisogna essere predisposti, magari anche un
po’ debilitati, e zac che te lo becchi tra capo e collo. Il ricordo è lo starnuto
dell’anima…,
bello, no? Potrebbe essere un’efficace frasetta su uno di quei
bigliettini da cioccolatino, tipo quello che mi hanno elegantemente
servito sul piattino (certo che mi pappo anche questo, e che credete? E
poi, come dicono quelli che parlano forbito, ne ho ben donde…). In ogni
caso mi ritornò tutto alla mente...venne a galla, per così
dire... riguardo quei giorni trascorsi a cavallo del 25
dicembre. E relativi accadimenti.
Ci sarebbero altri due particolari
da premettere. Uno sul motivo della mia visita ginecologica, e il
secondo su una scoperta fatta questa mattina, subito dopo essermi
alzata per portare da mangiare a Bigolo, il nostro cucciolo. Mmh, sì,
lo so, non è un gran nome, e non farebbe certo gran effetto ad una
rassegna canina, ma a me e mio marito è venuto di getto, facendoci
rotolare sul tappeto per le risate, e a parziale discolpa va tenuto
presente che è di razza beagle… Ma comunque, tornando a bomba, vi dirò
di più: la cosa che ho trovato nell’angolo del giardino, mentre il
gelo del mattino invernale mi mordeva un pezzo scoperto di caviglia
(ero uscita in giardino in ciabatte...), avrebbe dovuto far suonare
fantastiliardi di campanelli nella mia testaccia. E invece l’ho visto e
l’ho fissato e non mi ha detto niente, mostrandosi per quello che… sembrava essere
(un po’ di pazienza, ha un senso, anche se non pare, questa mia
delirante reticenza). Ha dovuto intervenire sorella neve, affinchè i
circuiti del ricordo scattassero nella giusta sequenza. Alla luce di
tutto quello che …non ho
detto,
penso quindi che delibererò di mettervene a parte alla fine. Perché un
conto è valutare al termine di un racconto se la narratrice è matta
come un cavallo, con tutti gli elementi in mano, per così dire, e un
altro è starsene ad ascoltarla con orecchio imparziale dopo che ha
sparato le cartucce migliori (e più ostiche da bersi tutte d’un fiato,
a differenza del delizioso cappuccino che ho davanti).
Decisamente
nebuloso, come esordio? Sono d’accordo, ma spero nel contempo che
possiate trovarlo anche un po’ intrigante. E’ una storia, tutto qui,
e mi piacerebbe che la ascoltaste, che vi faceste un’opinione su quello
che è successo. Anche se da un certo punto di vista si potrebbe
affermare che non è successo niente di speciale. Ad ogni buon conto, il
racconto potrebbe incominciare da una sequenza d’apertura, come nei
film. L’immagine di una casetta di campagna, in campo lungo, non
troppo grande da poter essere chiamata fattoria, ma carina. Bassa e
lunga, a due piani, con porte e finestre dipinte in un suggestivo
colore blu, di sapore provenzale. Un breve tratto di cortile ghiaioso
va a sfumare, senza soluzione di continuità, nel verde stinto e
asfittico, dato il periodo invernale, di un prato che curva lieve verso
un orizzonte di campi brulli, una specie di burrascoso mare congelato
di terra scura e spezzettata. Sul limitare del cortile, un imponente
ciliegio innalza i suoi rami massicci a rigare il cielo plumbeo. Ai
suoi piedi, un grosso ceppo posizionato a mò di rustico sedile. Una
pioggia fina e gelida rimbalza sulle pietre, sull’auto parcheggiata nei
pressi del cancello, sulle tegole lucide del tetto. Avvicinandoci ad
una delle finestre, il cui vetro diviso in quattro dall’intelaiatura a
croce è impreziosito da una cornice di neve spray, possiamo
scorgere all’interno una giovane donna accovacciata sul pavimento di
legno…
CAP. 1 - 22 dicembre
Teresa
Angeli allungò una mano ad afferrare la tazza posata sul bordo del
basso tavolino, soffiandovi dentro distrattamente, anche se la
temperatura del liquido contenuto non aveva ormai alcun bisogno di
essere attenuata. L’aroma del tè si ravvivò, salendo ad accarezzarle
le narici con un piacevole e suggestivo profumo di cannella e buccia
d’arancio. Ne mandò giù un sorso, trovando conferma al sospetto che
quel tipo di miscela sapesse dare il meglio di sé bella calda, perdendo
rapidamente gusto e vigore man mano che s’intepidiva. “Weinnachtentee”,
le aveva sussurrato complice la signora del negozietto di tè, come se
la stesse mettendo a parte di un segreto fondamentale per lei e
l’umanità tutta, “me lo
faccio arrivare ogni anno dal Teeladeen di Monaco di Baviera, e
qualcuno dei miei clienti sostiene, a ragione, dico io -
si esibì in una sussultante risata che le fece vibrare il notevole
doppio mento - che non
è Natale finchè non se ne gusta una tazza…”.
In effetti il profumo che sprigionava pareva connotare al meglio
l’avvicinarsi delle imminenti Festività, e lei pensò che sarebbe
stato bello offrirlo agli altri, come benvenuto, quando sarebbero
arrivati lì… magari con qualche tipo di biscotto o di dolce che aveva
intenzione di cimentarsi a preparare. Rimirò con sguardo ipercritico il
maestoso pino torreggiante su di lei, nell’angolo accanto al caminetto,
che stava tentando di addobbare cercando di avvicinarsi più possibile
(con risultati non troppo entusiasmanti) a quegli esempi eleganti e
raffinati che si vedono sulle pagine di ogni rivista, femminile o
maschile o specializzata o chi più ne ha più ne metta, in quel
particolare periodo dell’anno. Certo per raggiungere tali risultati
coreografici sarebbe occorsa una quantità spropositata di luci e
addobbi e decorazioni (che non venivano certo gratis), considerando
per di più l’imponenza di quell’esemplare arboreo procuratole da
Efrem, il contadino della fattoria dirimpetto, che fungeva un po’ da
factotum…
“E quel che è peggio è
vivo e vero, niente plastica made in Taiwan, ma rami e foglie e linfa…”,
rimuginò Teresa annusando il piacevole profumo di resina
sulle dita, “e già mi
sento le filippiche ecologiste di Lucia una volta che l’avrà scoperto…”
Quando
aveva preso ad “organizzarsi”, le era venuta la tentazione di non
formulare alcuna richiesta al ruvido ed efficiente vicino (temendo - a
ragione - la spropositata premurosità del fattore, che aveva preso alla
lettera un’antica raccomandazione di sua madre, con la quale si
conoscevano da secoli, di soddisfare al meglio ogni sua minima
necessità), anzi a dirla tutta si era quasi convinta che sarebbe stato
il caso, per lei e la sua inesistente voglia di sorbirsi una predica
naturalistica coi controfiocchi, di optare per un più pratico modello
sintetico (col doppio vantaggio di essere realistico quanto eterno) da
procurarsi nel più vicino centro commerciale.
Ma poi…
Ma
poi, aveva anche provato ad ammettere con sé stessa che era stata la
convinzione di quanto poco suggestiva e palesemente anti-natalizia
sarebbe stata l’eventualità di un albero di Natale plasticoso
E, per un paio di minuti, la giustificazione aveva
anche retto. In realtà, ci aveva pensato la sua volonterosa e
ammirevole coscienza a farle balenare nella mente, per l’ennesima
volta, il Proponimento
(Sono passati ormai
quattordici mesi, e quest’anno ci proviamo sul serio a festeggiare il
Natale, costi quello che costi)
L’imposizione
forzata di quel pensiero sortì l’effetto desiderato, contro ogni
previsione, anche in quel momento preciso. Facendole accantonare
l’insano impulso di mollar lì l’albero mezzo decorato e lo scatolone
spalancato come una bocca affamata, con su scritto a grosse lettere in
pennarello blu “ADDOBBI NATALISSSSI !!!”
(vergato nella squadrata
calligrafia di Carlo, col Volonteroso Programma di Ritorno alla
Normalità che aveva impedito la sostituzione della scatola, anche se
il cuore le si lacerava ogni qualvolta gli occhi vi si posavano)
abbandonando
la tazza di tè ormai freddo al proprio destino, per ritirarsi di sopra,
come una vecchia e stanca lumaca che rientri nel guscio. Con l'unico,
costruttivo obiettivo di raggomitolarsi sul letto per i prossimi due o
tre secoli a venire. Non era stato facile deciderlo, non era stato
facile nemmeno
ipotizzarlo.
Le era parso improponibile, o assurdo, o addirittura blasfemo, a
seconda del momento e dello stato d’animo, ma ce l’aveva messa proprio
tutta. Tornare alla normalità. O perlomeno provarci, ma da convinta,
con impegno. Si era trattata di una specie di furibonda lotta con sé
stessa, una violenta e rabbiosa rissa con la propria sfuggente e
apatica anima, al termine della quale nessuno aveva avuto la meglio.
Con l’unico, doloroso risultato che le ferite erano state doppiamente
brucianti. Questo prima di sviscerare a fatica il titubante compromesso
che il punto NON era, da un giorno all’altro, di mettersi a ballare la
samba per strada o iscriversi a corsi di cucito e windsurf e ippica o
ancora, nel caso specifico, di abbigliarsi da Santa Claus per essere lo
spirito stesso del Natale. Quella non sarebbe stata affatto normalità,
bensì follia, pazzia, totale e ingannevole dabbenaggine. Che comunque,
chissà come mai, a volte le era sembrata ben più affascinante e meno
ostica da attuare che non quello che stava ripromettendo a sé stessa.
Suo
marito era morto in uno stupido e inspiegabile incidente stradale, in
una fredda sera di ottobre di poco più di un anno prima (volato fuori
in un tratto di strada dritta come un fuso, che conosceva come le
proprie tasche, e l’ipotetica giustificazione del “malore o colpo di
sonno” che le era stata fornita da un impacciato poliziotto non aveva
contribuito certo a lenire gli strazi dell’improvviso vuoto),
lasciandola sola e indifesa e vulnerabile al centro del mondo. Pensava
di conoscere il significato della parola “sola”, prima di quel
terribile momento, e ancora una volta era stata costretta suo
malgrado a sperimentare di persona che troppo spesso, in quel consueto
tran tran quotidiano che chiamiamo vita, quello che si crede non sempre
corrisponde al reale significato. Sola, fino a quell’orrenda notte di
autunno inoltrato, per lei voleva dire doversi organizzare al meglio
un pomeriggio o una serata in cui l’uomo che aveva sposato aveva
qualche impegno che lo portava lontano da lei. Sola significava, al
massimo, dover decidere cosa prepararsi per cena, se sforzarsi per
cucinare qualcosa di sano piuttosto che cedere alla tentazione di
sgranocchiare nefandezze nocive e obesizzanti sul divano. Se guardare
la tivù finchè gli occhi non le facevano… giacomo-giacomo,
appisolandosi in sala dove l’avrebbe trovata Carlo al rientro, o
utilizzare altrimenti il tempo a disposizione, per un bagno
rilassante, due bigodini, magari un po’ di ceretta alle gambe. Cose di
donne, insomma, di donne momentaneamente
sole con un po’ di tempo da riempire…
(Sai che c’è di nuovo?
Che sta per arrivarti, assolutamente non richiesto, un buono per
un’infinita vita intera da occupare…)
Quelle
comunque erano le occasioni che Teresa riteneva costituissero l’esser
sola, il sentirsi sola, non sospettando nemmeno lontanamente (forse
non volendolo sospettare, ma d’altra parte, chi ha così tanta
dabbenaggine e tempo da perdere nella vita per prepararsi al peggio?)
quali altri maligni e orrendi significati poteva rivestire
la
questione.
E, oltretutto, solitudine
non era nemmeno la sensazione più appropriata. Almeno non tanto come
quella di “vuoto”. Un vuoto gelido e soffocante che magari non iniziava
subito, negli attimi successivi il ricevimento di una notizia tanto
drammatica. Né nei minuti, nelle ore seguenti, quando una mesta
processione di facce e sguardi e voci ti tengono su ripetendo cose
inutili e prive di energia, perlomeno alle tue orecchie, cercando di
confortarti con certezze inappellabili sul fatto “che non se ne è
neanche accorto” o “che, nella tragedia, è meglio così che dopo una
lunga e dolorosa agonia”. No, in quei flash immediatamente successivi
non riesci ad avvertirlo, il vuoto, maldestramente celato dal tepore di
una tazza di camomilla che ti infilano tra le mani e gli abbracci e
l’umido luccicore di lacrime altrui che si mischiano alle tue. Anche se
Lui è già lì intorno, paziente, sicuro di sé, forte del fatto che non
hai la più microscopica possibilità di evitarlo, di scapolare
via. Volente o nolente, presto o tardi te lo saresti trovato accanto,
indesiderato compagno di strada, non appena gli ultimi sfiniti parenti
avessero riassettato il tavolo della sala ingombro di tazzine sporche
e portaceneri colmi di mozziconi, al di là di un notte che sarebbe
stata nera e inerte e priva di sensazioni solo per l’efficace lavoro
dei tranquillanti. Ma al mattino, quando la nebbia e l’oblìo
dell’ultimo Tavor fossero evaporati, Lui, il Grande Vuoto, sarebbe
stato lì pronto a mettersi all’opera
(smettila)
La
sensazione di quei giorni, ora che con cautela poteva ritornarci su con
la mente, era gelida e ORRENDA, e mai Teresa avrebbe osato augurarla
nemmeno al peggior nemico, come si usa dire. E ancora di più
supplicava il cielo affinchè non le ricapitasse MAI più di provarla,
anche se si rendeva conto che era una pia speranza destinata a rimanere
tale, a meno di non isolarsi per il resto dei propri giorni sulla
classica isola deserta.
Per sfuggire alla solita, opprimente
sensazione che l’aria le si stesse rarefacendo intorno, come le
succedeva ogni qualvolta in cui si azzardava ad avventurarsi nei gelidi
sentieri mentali del ricordo, Teresa si tirò su dal parquet del
pavimento, lanciando un’occhiata sconsolata al di là dei vetri della
finestra. Altro che suggestiva atmosfera natalizia, la fitta cortina di
pioggia che cadeva incessante e monotona nella grigia luce del
pomeriggio ormai avanzato era perfetta per uno sconsolante promo
pubblicitario dell’autunno. Ma
che diavolo di fine han fatto le stagioni?, rimuginò tra
sè,
quelle che da piccoli sembravano avere delle date di inizio
rigorosamente precise e rispettate, come se tenessero d’occhio
scrupolose il calendario? Quelle che erano illustrate con dovizia di
particolari nelle prime pagine dei sillabari delle elementari? Chissà
cosa ci sarà in quelli degli scolari di adesso… forse le magiche
avventure di Harry Potter...
Sarà stata colpa
dell’effetto-serra piuttosto che degli esperimenti nucleari
sotterranei, come inveiva sempre la sua amica Lucia, fatto sta che
nemmeno l’inverno era più quello di una volta, con temperature troppo
elevate per riuscire a trasformare le gocce di pioggia in candidi e
delicati fiocchi di neve. E
non c’è proprio niente di più deprimente di un inverno tiepido,
borbottò ancora la donna, accostandosi al minuscolo ma efficiente rack
stereo posato sulla mensola della libreria.
-
Io comunque la buona volontà ce la sto mettendo tutta… - borbottò,
rivolta alla propria guardinga coscienza, mentre scorreva i titoli di
un cd (un doppio
cd, troppa
grazia) di canzoni specificatamente natalizie - quando e se smetterà
di piovere vedremo pure di fissare una fila di lucine intorno al telaio
delle finestre… di certo non riuscirò a trasformare la casa in quei
tripudi sfolgoranti che si vedono nei film americani… - pigiò il
pulsantino che fece sputar fuori l’alloggiamento del cd - oh, ma
d’altra parte quelli sono americani… e, si sa, gli americani sò
fforti! -
Una risatina le sfuggì, a sottolineare il suo maldestro
tentativo di imitare Albertone Sordi, poi lo sguardo le cadde sulla
sfilza di cd che la osservavano dalla mensola sopra l’impianto stereo.
E ancora una volta, come se la reazione fosse collegata ad un
interruttore interno solerte e automatico, quella vista trasferì
l’insistente pioggia esterna nel profondo del suo cuore
(non posso farci niente!,
annaspò mentalmente come una scolaretta ottusa che non riesca a darne
fuori di una rognosa operazione aritmetica)
(Non pensarci, e basta,
le rispose una voce pacata e fredda che conosceva ormai fin troppo
bene, da qualche parte nella sua testa)
Non
pensarci, già. Facile a dirsi. Tenendo presente oltretutto, a sua
labile discolpa, che la situazione si era attenuata di molto,
rispetto a qualche tempo prima, quando ogni cosa, praticamente tutto
quello che le capitava sotto gli occhi (esclusi, forse, prodotti e
aggeggi tipicamente femminili, tipo assorbenti o trucchi) le ricordava
suo marito. O perché erano stati acquistati insieme, il 95% di essi, o
perché comunque facevano parte delle loro abitudini, dei loro “usi e
costumi”, della loro quotidianità
(Non pensarci, allontana
il pensiero)
“Della nostra vita,
cazzo di budda!”,
sibilò nella mente per cercare di farlo comprendere anche a quella
stronzissima vocina che tentava di applicare geometrici metodi
psicanalitici da rivista femminile, “quasi nessuno si rende conto di
QUANTE cose facciano parte di questo, in un banale matrimonio… cavoli,
praticamente TUTTO!!!”
Parole
sante, naturalmente. All’inizio ogni cosa era mutata all’istante, come
in un indesiderato film horror, rivelando di possedere invisibili e
acuminati artigli che scattavano nell’attimo esatto in cui entrava nel
suo campo visivo. Tutto. Dagli oggetti più personali e ovvi, i vestiti,
i libri, i documenti, via via a tutti gli altri, fino ai più assurdi e
insospettabili. Quante volte il suo corpo si era liquefatto in lacrime
improvvise, sussultanti e inarrestabili, di fronte alla videocassetta
di un film di Totò,
“registrato per vederselo ogni tanto e tirarsi su di morale”,
o all’accendigas della cucina, o ancora al bracciolo sformato
dell’estremità destra del divano
(Siediti meglio, che si
rovina!)
Senza contare poi quelli che potevano essere definiti come “i ricordi”
(allontana il pensiero,
lascialo cadere… o sarà solo peggio per te…)
le
cose acquistate insieme, i souvenir dei viaggi, le stupidaggini
apparentemente inutili che rivestivano un qualche particolare
significato per la “famiglia Angeli”. Come il tappo di sughero fatto
saltare da un euforico Carlo il giorno in cui avevano terminato, con
molta volontà e pochi soldi, di rimettere in sesto quella piccola
casetta di campagna, in cui era nata e vissuta Teresa fino
all’adolescenza. Il tappo era ancora lì, sulla stretta mensolina del
caminetto alle sue spalle, le sarebbe bastato girare un po’ la testa
per vederlo. Minuscolo e muto e tozzo, come tutti i tappi che si
rispettino, con la scritta
“il nido per la vecchiaia” che gli correva intorno
incerta e tremolante
(avete mai provato a scrivere su un tappo di sughero con una biro?)
Sarebbe
bastato girare lo sguardo di pochi gradi, per vederlo, ma lei tenne
gli occhi fissi davanti a sé, cercando di attenuarne a tutti i costi
l’improvviso solletico sul bordo delle palpebre
(Hai voluto andare
avanti? Hai voluto fare di testa tua, certa di poterlo sopportare?)
anche
perché le era sufficiente l’insistente sguardo che il tappo le stava
rilanciando a sua volta, picchiettandole la nuca con maligna
insistenza.
Accese distrattamente il cd, e la canzone le augura di avere un
piccolo, personale Buon Natale
(…have yourself a merry
little Christmas… let your heart be light…)
(lascia che il tuo cuore diventi luminoso… grazie, ma come può
illuminarsi un pezzo di ghiaccio?)
Ma cosa deve fare una
persona colpita da un dolore così grande, per non impazzire?,
le venne in mente di aver chiesto, con la voce incrinata e un
incolpevole fazzolettino fradicio stritolato nel pugno, e l’uomo seduto
di fronte a lei per alcuni secondi non era riuscito a trovare, o
inventare, una risposta, limitandosi ad osservarla con occhi quieti e
affettuosi, cosa
bisognerebbe fare,
bruciare tutto, ogni cosa, anche la più minuscola, come fanno gli indù
con i loro morti, e andare a vivere in una casa nuova, vuota,
anonima?!?
La disperata (e
inesistente) risposta a questa domanda aveva supplicato dall’amico
Renato, incidentalmente anche valente psicoterapeuta, per cercare di
trovare un sentiero che la conducesse fuori dall’incubo. E un piccolo
passo avanti lo aveva anche fatto, decidendo di lasciare l’appartamento
di città per trasferirsi nella casetta di campagna, utilizzata solo nei
week-end e in alcune festività, in cui per forza di cose i momenti
vissuti e i conseguenti ricordi avrebbero dovuto essere un po’ meno
pressanti
(Oh sì, le balle di
budda!)
E poi, chi aveva parlato di un’incubo solo? Lo volesse il
cielo…
Incubo
numero due, o dell’inesorabilità degli eventi, come l’aveva
etichettato, con un perspicace e non richiesto virtuosismo
psicanalitico. Vale a dire l’insopportabile presa di coscienza che le
cose del mondo (tutte le cose del mondo, a maggior ragione quelle più
banali e frivole) procedevano. Il mondo, la vita, gli eventi andavano
avanti
(bella scoperta, no? Da
candidare al Nobel per l’Ovvietà)
e
chi si fermava, perché decideva magari di spiaccicarsi con l’auto in
una notte d’autunno, era perduto. Quando aveva preso atto di questo si
era sentita annaspare, soffocare di angoscia, come se un’acqua
limacciosa e turbolenta l’avesse ormai raggiunta alla gola. E
l’improvvisa, orrenda consapevolezza l’aveva colta nella ben poco
decorosa situazione di sé stessa seduta sul water, le mutande
desolatamente adagiate sulle caviglie, in balìa dei “morsi” pungenti di
una diarrea nervosa. Non volendo e non potendo reggere lo sguardo
vagante su conosciuti e incandescenti oggetti di uso quotidiano (il
bicchiere con la coppia di spazzolini, che non aveva avuto il coraggio
di far “divorziare”, l’adesivetto - mezzo staccato - di Vicenza
Pedala ’94 che le mani di lui avevano appiccicato nell’angolo in
basso a destra del grande specchio sopra il lavandino), aveva cercato
un neutro diversivo sfogliando indolente una copia di Telepiù posata
sul minuscolo termosifone accanto al “Bianco Trono degli Sforza”
(spiritosa farina del
sacco di lui, occorre dirlo?)
Ma
sì, va, anneghiamo il pericolo Oggetti Conosciuti nelle facce beote e
colorate di Fabrizio Frizzi, Siusy Bladi e Patrizio Roversi, Elisabetta
Gardini
(ah ah ah, sghignazzarono crudeli i beffardi artefici del destino degli
sciocchi umani…)
e vediamo quali alti momenti di cultura hanno in serbo per noi…
Per
alcuni secondi scartabellò le pagine variopinte senza nemmeno vederle.
Pagine patinate e senza neanche la più minuscola piega. Non più, ormai
(possibile, Carlo, che
tu debba fare l’”orecchio” persino alle pagine della guida tv?!?,
si sentì chiedere al marito con un mezzo sorrisino finto-burbero,
mentre il suo amore perduto si stringeva nelle spalle come uno
scolaretto colto in flagrante)
Fissò per un pò il giornaletto con
occhi appannati da lacrime di disperazione e sofferenza intestinale,
in egual percentuale, prima che la consapevolezza la colpisse come
una bastonata sulla fronte. Mise a fuoco le fitte parole stampate in
corpo minuscolo, per farci stare tutta la marea di programmi che la
tivù moderna sapeva e doveva offrire, cercando di inghiottire un nodo
irreale dall’asprigno gusto di sale e dolore.
Le avventure del
giovane Indiana Jones, Tele Montecarlo… tredicesimo episodio. Jarod, il
camaleonte, rete Due… quindicesima puntata
(a
me non entusiasmavano i telefilm di Jarod, ma lui non se ne perdeva
uno, rilassato sul divano con la cravatta allentata in attesa della
cena, uno dei tanti banali e impagabili riti di una coppia normale)
90° Minuto, Rai Uno, commenti e servizi filmati sulla diciassettesima
giornata del campionato di Serie A.
La diciassettesima, e
poi la diciottesima e la ventesima e la centomillesima, e te le stai
perdendo tutte, caro mio.
Era rimasta immobile, impietrita tra i miasmi delle sue viscere
infuocate. Le cose
andavano avanti.
Gli eroi dei telefilm preferiti continuavano imperterriti a sgominare
malfattori e criminali. Gli assi del pallone a gonfiare le reti, a
scorazzare sui prati degli stadi, a rilasciare scontate e deprimenti
interviste.
- Ehi, ehi, un momento,
c’è qualcosa che non va!!! - aveva assurdamente esclamato
ad alta voce nella minuscola stanza da bagno silenziosa e deserta - non eravamo d’accordo così! A
Carlo piacevano tanto le partite di calcio, e non parliamo poi delle
imprese di Jarod… -
(le
MIRABOLANTI imprese di Jarod, era così che puntualmente le chiamava,
convinto forse che quell’aggettivo ci fosse realmente, nel titolo...)
La
voce, stridula e sgraziata come quella di una gallina, le si era
affievolita spegnendosi in un lamento acquoso, e lei stessa si era
affievolita ripiegandosi sul “trono” come una pianta inaridita
dall’arsura.
Le cose andavano avanti. Comunque.
Come aveva potuto essere così stolta da non rendersene conto?
Ritornò al presente, scuotendo la testa come per liberarla da una una
nebbia invisibile e ipnotica.
Lascia cadere il pensiero.
Sì, va bè, ci provo.
Dedicò
un’ultima, generale occhiata di controllo all’albero di Natale sopra di
lei. Il puntale dorato sulla cima (decisamente in alto) pendeva tutto
storto, come il cappello di uno che abbia alzato un po’ il gomito.
Decise che andava bene così, anche perché sporgendosi al massimo dalla
malferma scaletta, salendo oltretutto sul penultimo scalino, meglio non
era proprio riuscita a fare. Perlomeno senza rischiare seriamente di
precipitare sul pino decorato, abbattendolo sul tavolino e il divano
sottostante, nella miglior tradizione di una comica degli anni
ruggenti o uno di quei film demenziali con Steve Martin e Chevy Chase.
E adesso, prova luci,
si disse recuperando la spina lungo il cavo elettrico che si dipanava
tra i rimasugli di festoni dorati e palline mezze rotte o prive di
gancetto. Gattonò fino alla presa, esitando per un breve secondo
prima di collegare il tutto.
In
genere è a questo punto che Steve Martin riesce a far fulminare tutte
le luminarie dell’albero e le luci di casa, facendo nel contempo
saltare la corrente a tutto lo Stato della California.
Oltre naturalmente a
mandare a fuoco l’intero quartiere.
Vediamo se ho lo stesso
culo…
Senza
volerlo, trattenne il fiato nell’istante in cui i due cilindretti
metallici della spina si inserirono nei fori della presa.
Non successe niente.
Le
decine di minuscole lampadine che avvolgevano il possente albero
(minilucciole, c’era scritto sulla confezione, ed erano proprio “mini”,
tanto che Teresa si era chiesta quando avevano smesso di produrre
quelle tradizionali, con la punta aguzza e il grosso supporto verde)
restarono desolatamente spente.
Perlomeno non è esploso
niente, si consolò la donna tormentandosi con l’indice il
labbro inferiore,
certo che se è un “difetto” elettrico siamo a posto, non saprei nemmeno
da che parte com…
Facendola
quasi trasalire, le lucine (le minilucciole, please) la colsero in
contropiede, prendendo ad accendersi e spegnersi allegre e scanzonate
in una sequenza fantasiosa che le “antiche” luminarie dei vecchi tempi
neanche si sognavano.
- E Buon Natale sia! - esclamò di getto,
battendo le mani come una bambina di fronte ad un regalo
inaspettato e, per un rapido attimo, quell’augurio le
intiepidì il
muscolo ghiacciato che le batteva in petto. Fu questione di un
secondo, come il rapido lampeggìo di una minilucciola, ma successe
davvero.
E prima che potesse rifletterci su, prima ancora di poter
valutare se era accaduto davvero o no, saggiandone le conseguenze in
termini di stupore, o peggio, di rimprovero, il telefono nell’ingresso
prese a trillare sguaiato…
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