1_
- …Porcccc… -
L’uomo
seduto al volante fu preso in contropiede dalla cascata di braci che
pioveva inesorabile sulla stoffa dei pantaloni. Le spazzolò via
frenetico, maledicendo l’estremità della sigaretta che aveva avuto la
bella pensata di “incollarsi” al dischetto incandescente
dell’accendisigari del cruscotto. Pestolando indiavolato le braci
superstiti che attentavano al tappetino sotto i suoi piedi, strinse gli
occhi per contrastare una rabbiosa fitta di emicrania gli azzannava il
cervello, curiosamente cammuffata dalla voce petulante di sua moglie
che gli ricordava (una volta di troppo) dove il viziaccio del fumo lo
avrebbe portato.
- In culo a cazzo di culo - ghignò irato,
contemplando in un misto di rabbia e sconforto due minuscoli ma
evidentissimi forellini bruciacchiati nella stoffa dei suoi costosi
pantaloni in lana di Ermenegildo Zegna.
Rivolse la sua sbuffante
attenzione in direzione delle vetrine illuminate a giorno al di là del
finestrino rigato di pioggia, cercando inutilmente di scorgere le
figure della moglie e della figlia tra la folla strabocchevole che si
agitava nel grande magazzino.
- Dove stracazzo siete finite… -
mormorò, lanciando un’occhiata alle cifre verdastre dell’orologino a
fianco dell’accendisigari devasta-calzoni
(Solo due minuti, caro,
il tempo di ritirare il regalo per Terry…)
“Due minuti dei miei
coglioni”,
rimuginò tirando una violenta boccata dalla sigaretta la cui
estremità sembrava essere stata vittima di una minuscola esplosione, “e
intanto fuori soldi su soldi per regali inutili e costosi… e chi porta
i dindini a casa? Io, naturalmente, tutto il giorno a farmi il culo…
tricche tricche tracche… per cosa? Perché le donne di casa li buttino
dalla finestra in un batter d’occhio…”
Il trillo del
telefonino posato sul portaoggetti tra i sedili anteriori della Ford
Focus s’insinuò nei pensieri ribollenti dell’uomo, dissipandoli.
Contribuendo nel contempo a conficcargli in gola un’acuminata spina
d’ansia. Si concesse una vigorosa boccata di Marlboro, a fomentare
un’ulteriore mini-cascata di braci dall’estremità surriscaldata, senza
peraltro curarsi della loro destinazione.
“Questi non son proprio
auguri di Natale…”,
commentò tra sé afferrando il cellulare con dita che sentiva
ghiacciate e defunte. Tentennò un secondo prima di pigiare il
pulsantino di risposta, palleggiando nella mente la dissennata ipotesi
di abbassare il finestrino e tumulare il telefonino nel canale di
scolo del marciapied. Poi il pollice agì, a metà tra l’azione
volontaria e uno spasmo nervoso.
“PubbliOsma - collegato”,
ebbe il tempo di leggere sul display luminoso, un attimo prima di
accostarlo all’orecchio. Strinse le palpebre con foga, come se si
stesse preparando ad una violenta deflagrazione. E grosso modo ci
stava andando vicino.
- Sì? - disse, cercando di mantenere un tono di voce accettabile.
-
Gianni, ciao… sono io, Paolo - l’erre moscia del suo socio in affari,
Paolo Macherio - l’altra metà dell’Osma… Ostiglia Gianni e Macherio
Paolo, cinquanta per cento in nome collettivo (almeno per il momento)
non lo colse affatto impreparato - senti, scusa se ti disturbo, so che
sei in giro con la famiglia
(Sì, la famiglia è in
giro, a cercare di azzerarmi il conto corrente… io sono solo un umile
chaffeur del cazzo…)
solo
che… ho parlato con Piacentini… dice che… dice che… - l’uomo all’altro
capo del telefono parve frugare in invisibili appunti mentali alla
ricerca di spunti - …ci sono problemi… non tornano un po’ di conti… un
bel po’ di conti, a quel che dice - Gianni Ostiglia si osservò la mano
sinistra torcere spasmodica il volante dell’auto, le nocche sbiancare
in un pallore mortale - sono sicuro che deve trattarsi di un disguido…
con tutti i casini di tipo fiscale che si inventano ogni giorno… solo
che… non capisco, parla di assegni girati a sé stessi, e che non si
trova con i giustificativi… direi che è il caso che ci vediamo… cavoli,
so che siamo ormai sotto Natale, ma magari due minuti, al volo
(magavi due minuti manco
pev il cazzo, pensò l’altro, gli occhi incollati alle
nocche cadaveriche)
tanto
per mettersi il cuore in pace… sai come sono i commercialisti, fanno di
un granello un montagna per deformazione professionale, penso che sia
previsto dal loro albo… ingigantire, allarmare, tenere sotto
pressione… ma sai com’è, voglia Dio che si tratti solo di
un’esagerazione… non ci vorrebbe proprio, in ‘sto momento… -
Gianni
Ostiglia si deterse meccanicamente una robusta goccia di sudore che
aveva preso a serpeggiargli dalla fronte, alla faccia della
temperatura per niente confortevole nell’abitacolo. Le dita assiderate
dei suoi piedi si contrassero nelle eleganti ma leggere scarpe di pelle.
- Sì, certo, capisco… - rispose con una voce che sentiva
sorprendentemente calma e saggia - solo che… pronto? Paolo? Ci sei? -
- Sì, pronto… Gianni, mi senti? -
L’uomo al volante si raggomitolò su sé stesso, mentre una bolla acida e
dolorosa gli saliva dallo stomaco alla gola:
- Paolo? Paolo?!? Mi senti? Sto passando sotto le gallerie… e no… mi
pa… no ti se… no rie -
Balbettò quelle ultime sillabe come in un tartagliante rap, stupendosi
lui stesso di quello che stava mettendo in atto. Del fondo a cui
stava arrivando.
- Gianni? Pronto, Gianni, mi senti? - la vocina del suo socio (per poco, ancora per poco)
fioca ma perfettamente nitida, gracchiava dal
telefonino abbandonato in grembo - riesci a sentirm ? Provo a
richiama
L’uomo abbandonato sul sedile di guida osservò con occhi inespressivi
il display del cellulare che aveva appena spento.
- Grossi dubbi che mi richiami - biascicò assaporando un pessimo gusto
che gli aveva invaso la bocca - groooosssi dubbi… -
Si
frugò nelle tasche della giacca, alla ricerca di una
sigaretta, prima di rendersi conto di averne già una accesa,
mezza
stritolata tra le dita che si aggrappavano al volante. L’emicrania che
lo aveva assalito stava sfociando in una specie di nebbia ovattata
che gli bloccava il cervello.
Sbirciò al di là del vetro abbassato del finestrino: vetrine tirate a
lucido, commesse sorridenti, clienti carichi di pacchi.
Sicuramente sdolcinate musichette natalizie a volume quasi subliminale
diffuse da altoparlanti nascosti.
Ma di sua moglie e sua figlia nemmeno l’ombra.
(Non ci vovvebbe in
questo momento… sai com’è, disse l’erre moscia del socio
da qualche parte della sua testa)
Sai com’è? Lo sapeva, oh, se lo sapeva! Più che bene, soprattutto
perché ne era concausa attiva.
Anzi, a dirsela tutta lui, Ostiglia Gianni, consulente pubblicitario
quarantatreenne
(cala
le arie, amico, e non riempirti la bocca di paroloni, sei solo un
rappresentante fallito di una sconosciuta dittarella che, nonostante il
roboante “agenzia pubblicitaria” inciso sulla targa di ottone del
campanello, sopravvive - e Dio sa per quanto poco ancora - facendo
stampare marchi di aziende su penne biro e improbabili cappellini
promozionali)
affascinato da film e articoli su yuppie
prestigiosi e senza scrupoli, sul loro mondo dorato zeppo di
segretarie mozzafiato, consigli d’amministrazione e party esclusivi,
era il minuscolo granello di sabbia che aveva preso a rotolare a
valle, dando inizio alla più catastrofica e devastante valanga di tutti
i tempi. Almeno per quello che avrebbe riguardato la sua vita e quella
del suo anonimo socio, unitamente a quelle delle loro famiglie. E quel
che era peggio (anche se la sensazione che ne traeva era di estremo
sollievo) era il fatto che non provava il minimo senso di colpa, o di
rimorso. La barca stava affondando, perché lui in persona stava per
toglierne il tappo dal fondo, ma era una barca così noiosa, e
invischiante, che non gli dava, da tempo ormai, il più minuscolo
brivido di emozione.
“Per cui, a strapicco
tutto quanto”, rimuginò picchiettando nervoso con la punta
delle dita sull’alloggiamento dell’airbag, “anche
perché il sottoscritto, signori e signore, ha tutta l’intenzione, e la
possibilità, e la concreta speranza, di uscirne asciutto e col culo al
caldo… molto al caldo…”
Infilò le mani gelide nelle tasche
del cappotto. La punta delle sue dita incontrò la sagoma di un
oggettino e, appena sotto, un secondo oggettino plasticoso e cedevole
al tatto
(un sacchettino, per
amor di precisione, và)
A
quel fugace contatto la lingua saettò su labbra aride e
nervose e,
per un brevissimo istante, nella mente gli sfrecciò una tentazione
assolutamente folle e dissennata
(non sarai così da pazzo
da pensare di…)
poi
gli sportelli della Focus si spalancarono, facendo turbinare
nell’abitacolo surriscaldato le chiacchiere di sua moglie e sua figlia,
e quella strana, umida aria dicembrina.
2_
- Giacca e pantaloni blu, li portiamo ? -
La
frase pronunciata da Lucia Anelli sembrò addirittura
rimbombare un
pò, mentre metà di lei era immersa nell’antro scuro e incasinato
dell’armadio di suo figlio Amedeo. Spostò con delicatezza alcune
camicie appena stirate, in attesa di una risposta che tardava ad
arrivare. Si raddrizzò, massaggiandosi vigorosamente la parte bassa
della schiena, lanciando un’occhiata severa in direzione del ragazzino
steso sul letto a pancia in giù.
- Ame, dammi retta un secondo o
quel giochino fa il volo dalla finestra, maledetta quella volta che hai
convinto tuo padre a comprartelo - sbottò, passandosi una mano nervosa
sulla fronte che sentiva sgradevolmente umidiccia, a causa del maglione
in pile e il riscaldamento dell’appartamento
(e un po’ di sano
nervosismo, no?)
-
dai che papà sarà qui sotto con la macchina da un momento all’altro, e
devo ancora finire di preparare la tua borsa e quella di tua sorella… -
Il
ragazzino, ipnotizzato dal minuscolo schermo elettronico del Game Boy,
agitò fulmineo le dita, in un gesto sfrontato che le fece prudere le
mani. Sei fortunato che
non mi sei a tiro di scapaccione…
-
Sì, un attimo, mamma, che sono in punto CRUCIALE… - ribattè suo figlio,
non smettendo un secondo di far mulinare i polpastrelli sui
lillipuziani tasti di quella diavoleria elettronica, simile ad un
minuscolo dattilografo allucinato - …sto cercando di superare il Boss
del quarto livel… -
- Ame, ascoltami che siamo in RITARDO! - lo investì lei, con un tono di
voce appena un po’ più alto del normale
(Non sto gridando. Non
voglio gridare e non sto gridando… diede una rapida
occhiata all’orologio della cucina che intravedeva attraverso il
corridoio, cazzarola,
che tardi…)
sufficiente
però a suggerire al ragazzino steso sul letto che, forse, era il caso
di rimandare a più tardi la cruciale sfida col Boss. Amedeo pigiò un
po’ a malincuore il tasto di spegnimento del giochino, dedicando a sua
madre un’espressione esageratamente attenta.
- Il completo blu,
quello elegante - riprese Lucia estraendolo dall’armadio, per meglio
avvalorare la sua richiesta - pensi di metterlo, almeno il giorno di
Natale
(o insisterai per
indossare una di quelle tue felpe assurde piene di ORRENDI supereroi
giapponesi?)
-
Io il vestito blu lo porto - esclamò una vocina comicamente seriosa
alle sue spalle. Sua figlia Emma, quasi-sei-anni, come si premurava di
precisare impettita a chiunque le chiedesse l’età, transitò nella
stanza del fratello, per lei assolutamente off-limits a meno che, come
in quel caso, non vi stazionasse anche uno dei genitori. Con una mano
trascinava un peluche di un gatto bianco
(un ex-peluche di un gatto
grigiastro, visto le condizioni in cui era ridotto da una lunga e
affezionata simbiosi con la piccola)
mentre nell’altra agitava un
disegno a matite colorate dal vago stile impressionista. L’occhio
allenato di sua madre fece in tempo a riconoscere il soggetto
dell’opera d’arte. LA MIA FAMILIA, era la scritta sulla parte inferiore
del foglio, a sottolineare le figure stilizzate di loro quattro, papà
Renato, mamma Lucia
(perché mi disegni
sempre con le braccia e i capelli alti, come se stessi dando in
escandescenze, Emma?)
(forse perché tendi
spesso a dare in escandescenze, cara la mia Lucia…)
Amedeo, Io.
-
Tu non hai un vestito blu, grazie al Cielo - ribattè la donna - anche
perché sarebbe tale solo per alcuni brevi istanti, prima di
impiastricciarsi di pastelli a cera, o lasagne o chissà che altro… -
La
bimbetta si accovacciò sul tappeto ai piedi del letto, aggiustandosi
distratta il cerchietto che le teneva a bada (a fatica) una cascata di
boccoli biondi, mostrando nel contempo all’impassibile Giggio
(discutibile nome, per un gatto grigiastro di peluche, ma così era
stato battezzato)
il disegno spiegazzato:
- Oh bè, sono così buone, le lasagne… - commentò lieve - sì, sì, ne
mangerei proprio volentieri... -
Un’ombra di sorriso attraversò il viso surriscaldato di Lucia, che
prese a sventolare il vestito blu reggendolo per la gruccia:
- Allora, Amedeo? - lo sollecitò impaziente.
- Uh, beh buh, direi di sì… - tergiversò suo figlio occhieggiando
impaziente lo schermo scuro del Game Boy
(viene anche Vanessa, la
figlia di Cristina e Gianni… te la ricordi, vero? Abbiamo fatto quel
week-end ad Asiago, due anni fa…)
- anzi no, direi proprio di no… assolutamente no -
Quegli
assurdi (ed infantili) voltafaccia di suo figlio le facevano saltare la
mosca al naso. Pareva che praticamente su tutto il ragazzino non
fosse in grado di prendere una decisione definitiva, come se cercasse
in qualche modo di lasciare aperta ogni alternativa
(lo sai, è un momento
delicato, disse nella sua testa la pacata voce, quasi
professionale, di suo marito Renato, ha
dodici anni, è giusto sul limite, e dentro di lui c’è l’inevitabile
conflitto tra il bambino e l’adolescente… bisogna dargli tempo…)
“Sarà, ma a me per il
momento sembra proprio che la parte infantile stia vincendo alla grande…”
-
E’ Natale, siamo in casa d’altri, e saranno tutti vestiti a modo… -
allargò le braccia a mostrare il variopinto maglione in pile che
indossava su un paio di pantaloni dai toni orientaleggianti - anche a
me non va a genio l’idea di mettermi in ghingheri, ma papà ci tiene, e
per una volta… -
Il ragazzino si immaginò impettito e fasciato da quello scomodo vestito
da festa
(anzi,
anche se non ne era del tutto cosciente, si vide attraverso gli occhi
verdi di una ragazzina di un anno più vecchia di lui, con cui aveva
piacevolmente giocato e chiaccherato, un paio di inverni prima, e di
cui ancora ricordava l’inspiegabile senso di… dispiacere provato alla
fine di quei due giorni in mezzo alla neve)
e scosse il capo vigorosamente:
- No, mamma, per favore
(Non piagnucolare come
un… bambino, Amedeo, per carità!)
mi
tira tutto sotto le ascelle… - si agitò gesticolando per avvalorare la
sua tesi - e poi quando lo metto ti ostini a pettinarmi come un babbeo…
-
- Che babbeo e babbeo… - ribattè la donna, riponendo sconfitta il
vestito nell’armadio - ti faccio la riga, e cerco per una volta di
domare quella… tua zazzera di spinaci che hai in testa…non ci sono
dubbi che sei proprio figlio di tuo padre… -
- La zanzera
degli spinaci sulla testa… che schifo! - commentò la piccola Emma a
beneficio del suo interlocutore muto e peloso.
In quell’istante il campanello dell’ingresso trillò un paio di volte in
rapida successione.
-
Papà!!! - esclamò la bimba tirandosi su di scatto, dimenticando
all’istante il foglio da disegno che finì miseramente calpestato sotto
una minuscola scarpina con la faccetta sorridente di Titti.
- Già -
commentò suo fratello Amedeo, riaccendendo quasi casualmente l’ambito
Game Boy, non prima di aver lanciato una prudente occhiata di sottecchi
in direzione della madre. Scampato pericolo. Lucia Anelli stava
uscendo dalla stanza per affrettarsi ad afferrare la cornetta del
citofono:
- Sì? - chiese.
- A che punto stiamo? - s’informò la voce di suo marito da giù in
strada.
-
Stiamo come al solito, Renato - replicò la donna, cercando di scampare
ai salti euforici che Emma stava eseguendo tutt’intorno a lei, come
una minuscola danzatrice vodoo - in ritardo spolpo… Sarà il
caso che tu faccia un salto su, o non ne usciamo vivi… -
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