When I was fifteen

di Sara Scrive
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Dedico questa storia a Giovanni, Martina e Asuka Asami
 
Capitolo 1
 
«Ehi Cher!- Macy mi posò una mano sulla spalla – piaciuta la festa?!»
Un party a sorpresa non era male. Insomma, una cosa intima con alcuni amici era sempre gradevole e divertente in fin dei conti, soprattutto perché bisogna sempre festeggiare nel migliore dei modi il proprio compleanno … peccato che realizzare di avere vent’anni e una vita monotona da sfigati era abbastanza deprimente.
Così me ne stavo appoggiata alla ringhiera del terrazzo a guardare il cielo, rimuginare sulla mia non-ammissione all’università e sul ‘devi trovarti un lavoro’ di mia madre e a paragonarmi con i miei coetanei e con tutti i loro successi che io non avevo ottenuto.
«Sei stata davvero gentile – risposi dato che non mi sembrava il caso di coinvolgere chi mi stava accanto nella mia tristezza – Non sono mai stata così felice».
Improvvisamente venni avvolta da una coperta  e mi ritrovai al fianco una buffa Macy con un cerchietto, azzurro come i suoi occhi, che mi offriva una tazza di latte fumante.
«Non me la dai a bere – ed era proprio per questo che lei era la mia migliore amica – Lo so che è stata dura, ma vedrai che il prossimo anno  passerai sicuramente l’esame».
Era una ragazza robusta, aveva sempre il sorriso sulle labbra e i suoi occhi chiari, combinati con quei capelli biondi dal taglio sbarazzino, le donavano un aspetto simpatico. Era strano vederci camminare per strada insieme e immaginare che fossimo amiche: il suo look era molto vivace e solare mentre io ero molto più sobria e vestivo con abiti larghi e comodi. Nonostante, peró, non avessimo molte cose in comune ci capivamo sempre al volo.
«Certamente» le risposi poco convinta e mi fiondai sulla tazza di latte mentre lei mi abbracciava dolcemente.
«Lo sai- iniziai dopo un po’ alzando lo sguardo verso il cielo – Vorrei veramente che  le leggende sulle stelle cadenti funzionassero davvero»
«Dici sul serio?- chiese curiosa con un sorriso bonario – Proviamo a trovarne una, stanotte non ci sono nuvole, strano eh?»
Sorrisi di rimando, pensando che, almeno il giorno del  mio compleanno, quella maledetta pioggia e le nuvole che coprivano la mia città erano sparite e mi concentrai su un punto fisso.
Forse per uno scherzo del destino, dopo solo mezz’ora riuscii a distinguere una scia luminosa.  «Una stella cadente!» esclamai sorpresa come una bambina, sbrigandomi ad esprimere un desiderio: ‘Vorrei avere un’occasione per migliorare la mia vita.’
«Uffa- si lamentò Macy mettendo il broncio – io non ho visto nulla!»
«Ragazze! – sentii la voce di mia madre provenire dal salotto – Macy, David ha citofonato. Ti sta aspettando in macchina»
Ci voltammo verso la porta che dava sul terrazzo e senza troppe cerimonie tornammo dentro casa dandoci dei pizzicotti per gioco.
«Ciao, Chocolat. Buona notte e ancora buon compleanno!» disse la mia migliore amica dandomi un bacio sulla guancia prima di mettersi il cappotto.
Mia madre, Eveline, si avvicinò a lei, le diede un contenitore tupperware con della torta e l’abbracciò calorosamente: «Grazie ancora per essere venuta!»
Nessuno avrebbe mai detto che fossi sua figlia, perché, benché fosse una donna sulla quarantina, aveva un look curato che la faceva sembrare più giovane e, inoltre, aveva gli occhi chiari a differenza dei miei color nocciola. I capelli della donna erano neri e aveva qualche meches bionda per nascondere i primi accenni di capelli bianchi. Aveva qualche ruga ma que sto era colpa solo del tempo e di una ed unica gravidanza.
«Si figuri signora Ross, anzi grazie a lei per la disponibilità»
«Tu va a dormire – esordì mia madre quando Macy fu uscita di casa – ci penso io a pulire»
Non dissi nulla, mascherai con un sorriso la riflessione che avevo iniziato a fare mentre mi dirigevo in camera.
La mia stanza aveva le pareti rosa pallido, il parquet ormai pieno di graffi e strisciate e un letto con le coperte fucsia contro la finestra. A parte un armadio e una piccola scrivania con un portatile affianco a qualche libro, era una camera abbastanza spoglia.
C’erano tante cose che avrei voluto cambiare nella mia vita.
Quella sera, mentre chiacchieravo con i miei amici, li sentivo fare tanti progetti: c’era chi aveva affittato un appartamento vicino l’università, chi aveva iniziato a lavorare in un salone di bellezza e chi si stava preparando per l’ennesimo esame.
Infine c’ero io che ascoltavo tutti in silenzio senza poter raccontare di avere da studiare perché durante il liceo non avevo mai pensato che a volte la sufficienza rasentata non sarebbe bastata in futuro. Non potevo dire di aver trovato un lavoro perché, oltre a disegnare, non ero brava in niente e di conseguenza non avevo un soldo in tasca per intraprendere iniziative.
‘Sono sicura però – pensai mettendomi il pigiama – che in tutta Bristol non sono l’unica ad essere in questa situazione’. Usavo spesso queste parole per confortarmi, promettendomi che sarebbe andata meglio.
Sarei stata ammessa all’Università, avrei trovato un lavoro, un appartamento tutto mio e … l’amore della mia vita.
 
 
 
Una parte del mio inconscio mi diceva che sicuramente stavo dormendo:  ero in quel momento del sonno in cui stai per svegliarti e di conseguenza il tuo cervello è ancora in dormiveglia, ma riesce a vedere le immagini che stai sognando.
Per essere un sogno mi sembrava tutto così nitido: mi trovavo vicino ad una finestra e non riuscivo a vedere molto; pioveva a dirotto e, non vedendo nulla di interessante, mi voltai dall’altra parte e realizzai che mi trovavo in una classe.
L’aula era piena di cartelloni e poster attaccati al muro e davanti a me c’erano una ventina di studenti che seguivano una professoressa sulla cinquantina mentre scriveva alla lavagna.
Più precisamente ero seduta al penultimo banco della terza fila tutta a sinistra.
‘Che sogno strano – pensai – cosa ci faccio a scuola?’
«Ehi, che giorno è?» chiese una ragazza davanti a me.
«È il ventisette» rispose un ragazzo dalla fila accanto.
«Grazie»
Abbassai lo sguardo e lessi sul quaderno aperto sopra il mio banco la data per intero: 27 Marzo 2009.
‘Che strano, è la data del giorno dopo il mio compleanno di cinque anni fa’.
In quel momento sentii che dovevo fare la pipì e pregai con tutta me stessa di svegliarmi per evitare di farmela a letto, ma stranamente il mio braccio si alzò da solo, senza che lo decidessi.
«Sì, Chocolat?» disse la professoressa appena finì di scrivere l’equazione alla lavagna.
«Potrei andare in bagno, per favore?» di nuovo avevo compiuto un gesto senza averlo deciso, le mie labbra si erano mosse da sole e la voce era uscita in automatico.
‘Tipico dei sogni. – pensai. – Mi trovo sicuramente in un liceo’ aggiunsi mentre camminavo per il corridoio.
La mia mente era l’unica cosa che riuscivo a controllare, i pensieri non erano manipolati da niente, ma il mio corpo si muoveva da solo verso la toilette; entrai in bagno e feci la pipì.
Quando mi avvicinai al lavandino per sciacquarmi le mani, per poco non mi prese un colpo vedendo il mio riflesso allo specchio.
‘Cos’è? Un sogno stile 17 Again?’
La mia espressione su un viso da quindicenne in divisa scolastica sembrava non mostrare alcuna emozione nonostante dentro di me fossi sorpresa da tutta quella situazione.
‘Che carina che ero: un po’ più paffutella e bassa, ma graziosa, tutto sommato.’
E pensare che a quell’età odiavo il mio aspetto, non mi piacevano i capelli castani che ritenevo monotoni quanto i grandi occhi color scuri e le labbra carnose. Non sopportavo neanche la mia carnagione pallida, ma di quello non mi lamentavo tanto visto che il mio paese era sempre coperto dalle nubi.
Di solito nei sogni il tempo scorre in modo indefinito: una volta ti trovi in spiaggia pensando sia mattina, passa qualche secondo e sei davanti un falò in montagna al tramonto. Mi ritrovai quindi a chiedermi per quale motivo stessi vivendo un sogno in cui le ore erano ore e passavano lentamente, vivevo istante per istante quella giornata al liceo, ma il mio corpo si comportava senza rispettare quello che volevo, parlavo con persone che non conoscevo, ascoltavo lezioni su argomenti già sentiti e prendevo appunti inutilmente.
«Ragazzi, oggi ci sono ancora da finire i preparativi dell’Open Day per questo sabato – disse il professore di letteratura prima che finisse l’ora – perciò le lezioni pomeridiane sono sospese, dovete dare tutti una mano!»
Al suono della campanella, ognuno si alzò dal banco per uscire dall’aula, compresa me che ovviamente non mi stavo muovendo perché lo volevo, ma era il sogno a volere che io mi alzassi dal banco e seguissi tutti gli altri.
«Cher?» udii una voce femminile.
‘Chi mi sta chiamando!?’
«Ehi, Rose! – risposi sorridendo – finalmente la tortura è finita»
Non conoscevo assolutamente la ragazzina della mia ‘età’ che sembrava un incrocio fra Hermione Granger e l’attrice che interpreta la protagonista di Hunger Games.
Era molto carina, molto più carina di me. Portava i capelli  rossi, corti da un lato e lunghi e mossi dall’altro. Nonostante quel look bizzarro con l’aggiunta di un sacco di lentiggini e occhi verdi scuro, ispirava simpatia e si comportava come se avesse una certa confidenza con me.
Quando mi chiese di portare un mucchio enorme di scatoloni pieni di decorazioni al posto suo, io non mi opposi, anzi le risposi: «Certo Rose, ci vediamo in palestra ».
Anche se mentalmente mi ero opposta, non potei fare nulla perché il mio corpo faceva di ‘testa’ sua.
Ad un tratto, mentre sceglievo l’angolazione più adatta per prendere quegli scatoloni, notai un buffo cappello di paglia, identico a quello del pirata che faceva parte di una serie animata che guardavo da piccola.
‘Oh ti prego mettitelo- pensai rivolgendomi a me stessa- dai mettitelo e renditi ridicola, tanto è un sogno.’
Evidentemente anche la ‘me’ del sogno era attratta da quel cappello, tanto che se lo mise in testa senza troppe cerimonie ed iniziò a trasportare gli scatoloni.
Non riuscivo a vedere nulla perché la visuale era coperta e fu l’unica volta in cui fui contenta che il mio corpo faceva come voleva, almeno sapeva dove andare.
Improvvisamente iniziai a sentire il rumore della pioggia intensificarsi sempre di più e, non riuscendo a vedere dove stavo andando, ipotizzai che mi stessi avvicinando a qualche uscita della scuola.
Dovetti ammettere che, per essere un sogno, avevo immaginato un edificio davvero carino e ben curato: era molto accogliente soprattutto per le numerose decorazioni fatte dagli studenti, anche se mi accorsi che alcune finestre non erano chiuse bene e che la pioggia ogni tanto riusciva ad entrare.
All'improvviso sentii dei passi e sperai vivamente che la persona a cui mi stavo avvicinando non mi venisse addosso, perché avevo l’impressione che il minimo oscillamento avrebbe fatto cadere tutto il carico che trasportavo.
Non feci in tempo neanche a pensare, che calpestai qualcosa di scivoloso e finii per sbilanciarmi in avanti.
Cercai di riprendere l’equilibrio, ma ormai era troppo tardi, feci un paio di passi in punta di piedi e, sempre con la sfortuna dalla mia parte, scivolai nuovamente facendo un inutile saltello.
Lo scatolone più leggero che si trovava in cima si slanciò verso l’alto e, capovolgendosi, fece cadere come pioggia una marea di coriandoli.
In quei pochi istanti mollai la presa sul resto degli scatoloni e finii per sbattere contro qualcosa che cadde per terra insieme a me con effetto domino.
Chiusi gli occhi e mi preparai a sentire il pavimento contro la mia faccia, dato che non ero riuscita a proteggermi con le braccia durante la caduta.
«Porca puttana- mugugnò qualcuno sulle le mie labbra - Non che mi dispiaccia essere baciato ma…»
Ero atterrata su qualcosa di morbido.
Con una mano stringevo ancora il bordo di uno di quegli stramaledetti scatoloni, con l’altra stavo toccando il braccio di qualcuno e le mie labbra si erano appena scontrate con quelle del ragazzo che mi stava fissando con una smorfia dolorante ma divertita.
Nonostante non potessi controllare il mio corpo, ero sicura di essere arrossita al cento per cento.
«Sc-scusami… - balbettai - Harry».
Quindi la 'me' del sogno, conosceva quel ragazzino con la faccia da bambolotto, qualche brufolo e gli occhioni verdi. Un’altra cosa tipica dei sogni: creare personaggi bizzarri. Questo tizio non era brutto come ragazzo ma sembrava un incrocio fra un bambino ed un cespuglio, dato che aveva una matassa indistinta di ricci scuri in testa.
«Stavo portando questi scatoloni – esordii cercando di rialzarmi – il pavimento era bagnato e…»
«Sto bene – rispose mettendosi sui gomiti e levandosi dai capelli tutti quei coriandoli – sto bene».
Che vergogna, se fosse stato tutto vero mi sarei sotterrata per l'imbarazzo: avevo appena travolto e baciato un ragazzo indossando un capello di paglia, mentre una marea di coriandoli lo aveva ricoperto dalla testa ai piedi.
Ad un tratto, mentre mi levavo quel ridicolo cappello, lo sentii gemere di dolore e quando riposai il mio sguardo su di lui lo trovai a massaggiarsi la nuca.
'Che begli occhi che ha' mi ritrovai a pensare distrattamente.
«Ho solo dato una leggera botta – disse, guardandomi con un sorriso – tranquilla Chocolat.»
 
 
 
Mi svegliai di soprassalto e la prima cosa che feci fu controllare il letto. Non era bagnato, nessuna traccia di umido.
Istintivamente mi portai una mano sulle labbra e ripensai a tutto quello che avevo vissuto nel sogno. Perché quello era sicuramente un sogno. Ancora non mi capacitavo di ricordarmi bene ogni dettaglio di quello che avevo visto, era stato tutto molto reale ed ogni sensazione l’avevo vissuta in prima persona, nonostante il mio corpo facesse come voleva.
Quando mi alzai per andare a fare colazione, trovai mia madre in cucina mentre poggiava una tazza di latte sul tavolo.
«Ciao mamma…» mugugnai ancora con la voce impastata dal sonno mentre mi stringevo nel pigiama.
«’Giorno Cher – esordì indaffarata – dormito bene?»
Prima di rispondere guardai l’orologio digitale appeso al muro e mi resi conto che quella mattina mi ero svegliata davvero presto per i miei standard e forse mia madre credeva mi fosse successo qualcosa.
«Ho solo fatto un sogno strano, nulla di che».
Mi sorrise bonaria avvicinandosi velocemente all’appendiabiti all’inizio dell’ingresso e mi chiesi dove stesse andando così di fretta.
«Devo fare delle commissioni urgenti – spiegò, notando la mia espressione interrogativa – alle dieci e mezza viene zia Martha e ti lascia Charlie».
‘Perfetto…- pensai scocciata – mi tocca fare da babysitter’
«E non fare quella smorfia – aggiunse mettendosi il cappotto – tanto non hai nulla da fare oggi».
Alzai gli occhi al cielo.
«Vestiti. Non farmi dire da zia Martha che ti ha trovato in pigiama. Ormai hai vent’anni!»
«Va bene – alzai le mani – mi preparo, stai calma»
Mio padre era morto quando avevo quattordici anni a causa di un incidente stradale; da allora le cose in casa erano cambiate, soprattutto perché mia madre, invece di rifarsi sul serio una vita e cercare un compagno, aveva deciso di riempire il suo tempo facendo commissioni e dedicandosi interamente al lavoro e a me.
Dato che eravamo due donne, capitava spesso che litigassimo, anche per cavolate e, ultimamente, anche a causa del periodaccio che stavo vivendo e della mia intrattabilità, le discussioni erano aumentate.
Dopo che mia madre fu uscita, consumai lentamente la mia colazione, andai a vestirmi e rifeci il letto prima che zia Martha arrivasse e mi trovasse impresentabile.
Mentre mi lavavo la faccia e i denti mi guardai allo specchio, paragonandomi con la 'me' del sogno. Avevo sicuramente più petto ed ero alta, senza brufoli e crosticine coperte da chili di correttore, avevo sempre una faccia da schiaffi e gli stessi occhi e capelli.
Non persi tempo neanche per truccarmi. Quando suonarono alla porta andai ad aprire e salutai mia cugina di sei anni e mezzo con un finto sorriso perché, sì, avrei preferito buttarmi di sotto piuttosto che fare da badante a quella peste. Dopo aver congedato mia zia, mi buttai sul divano e accesi la televisione.
«Mi leggi questo, mi leggi questo – ripetè mia cugina per la decima volta  – dai, dai, dai».
«Charlie, per favore, sto guardando questo programma. Ti leggo la rivista quando finisce».
«Cugina Chocolate…».
«Mi chiamo Chocolat, non Chocolate».
Quella bimbetta idiota non sapeva pronunciare neanche il mio nome.
«Cuginona Chocolate - allora mi ignorava del tutto quella bambina – è importante: c’è questo articolo sui miei cantanti preferiti, ma non so ancora leggere bene».
Charlie era la tipica bambina viziata che otteneva tutto quello che voleva. Pregai il cielo che gli zii non facessero ed educassero con il loro strambo metodo altri figli, perché altrimenti sarei scappata in Messico piuttosto che fargli da babysitter.
Mia cugina era molto graziosa nonostante celasse un carattere da bambina pestifera, era bionda con gli occhi azzurri e il nasino all’insù che le donava un’aria da super snob, più inglese di così non poteva essere.
Andava pazza per tutti quei programmi stupidi che guardava in televisione e anche per quegli artisti di cui sentiva parlare a scuola, tanto che ogni settimana comprava una rivista – che ovviamente non sapeva leggere – e me la sbatteva in faccia pretendendo che la informassi su tutto quello che facevano i suoi ‘idoli’.
‘Ah le generazioni di oggi’ pensai scocciata mentre mettevo in pausa la televisione e prendevo in mano quel maledetto giornale per disadattati che mia zia aveva il coraggio di comprarle.
«Solo una pagina – decretai, guardandola con aria severa – quale devo leggere?»
Lei mi sfilò la rivista dalle mani ed iniziò a sfogliare le pagine, soffermandosi sui mini poster di Justin Bieber e di Bella Thorne per poi indicare un articolo sul gruppo musicale più famoso del momento: gli One Direction.
«Vuoi davvero che ti legga un’intervista su cose inutili come queste?».
«Sì» rispose convinta e, a quel punto, alzai gli occhi al cielo senza obbiettare.
Mi soffermai per qualche secondo ad osservare uno di loro, li avevo visti benissimo altre volte su altri giornalini o su facebook, ma in quel momento, sentivo che c’era qualcosa di familiare che mi spingeva a guardare il ragazzo in basso a destra nella foto, quello con i capelli semi ricci e gli occhi chiari. Lasciai perdere.
«Oltre il canto, sapete suonare qualche strumento? Niall dice: ‘Beh sì, suono anche la chitarra’» iniziai a leggere.
«Oh, sa suonare la chitarra» mi fece eco Charlie.
«Cosa fate quando siete in viaggio? Louis:’Di solito dormiamo, durante il tour abbiamo così tante cose da fare che non abbiamo un attimo per riposarci, così mentre siamo in aereo, in macchina o sul bus facciamo sempre qualche pisolino’».
‘Ma come fanno ad esistere persone che si interessano di queste cose? Bah’ pensai mentre leggevo.
«Chi di voi è fidanzato? Louis, Liam e Zayn alzano la mano».
«Sono io la loro fidanzata» proclamò Charlie mentre si sedeva sul divano accanto a me.
‘Credici – pensai sarcastica – ma come fa a dire cose del genere ed esserne convinta?’
«Qual è stato il bacio più strano o buffo che avete dato?...»
 
“Harry: Non so se si può ritenere un vero bacio, ma questa storia è davvero divertente. Avevo circa quindici anni, credo, e stavo camminando per il corridoio, quando ad un tratto una ragazza che trasportava tanti scatoloni scivolò sul pavimento e mi trascinò nella sua caduta *ride*, la cosa comica è che uno di quegli scatoloni conteneva coriandoli, che ovviamente mi finirono addosso e dopo aver dato una bella botta mi accorsi che avevo le labbra di qualcuno sopra le mie. Aprii gli occhi e mi ritrovai davanti una mia compagna di classe con un  ridicolo capello di paglia in testa”
 
‘Non ci credo…’

 
#Here I am
Sono tornata a scrivere una long. Adesso sinceramente non mi viene nulla da dire, spero solo che vi piaccia e che se non vi fa troppa pena la seguiate (?).
Credo che non avendo una cippa da fare durante queste vacanze avrò il tempo di aggiornarla regolarmente e soprattutto di continuare anche Shari. Scusate veramente per i miei errori e tutte le attese.
Ah, la prestavolto della protagonista sono io. Che strano eh? 
Comunque Chocolat si legge Sciocolà, come la streghetta di sugar sugar che andava in onda su Italia1 qualche anno fa (ho scelto questo nome proprio perchè seguivo e mi riguardo ancora quella serie).
Bene, che dire?
Grazie a tutti per essere rimasti con me fino alla fine <3
 
 
 
 
 




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