Quando chiudeva gli occhi, c’era il buio.
Non era più abituata al buio. Non era più
abituata alla solitudine. Si sentiva come se fosse tornata in
quell’appartamento spoglio che suo padre aveva comprato
“Beh, sì, ci stai tu finché non finisci
l’università, poi lo affitto, non si butta via niente”
Perché lui era assolutamente convinto che
sarebbe tornata a New York, dopo. O che si sarebbe sposata, perché nel
suo mondo di convenzioni preconfezionate le ragazze prima o poi si
sposano, non sognano per tutta la vita personaggi immaginari.
Qualche volta, prima di Gingko, il Dottore le
aveva chiesto se volesse tornare a casa per una breve visita. In realtà
era curioso di scoprire se sarebbe riuscito ad atterrare nuovamente in
quella dimensione e magari raggiungerne altre da quel punto, ma si era
sempre sentito rispondere di no. A lei non mancava nessuno, non aveva
lasciato nulla in sospeso, era come se fosse nata per attendere di
essere rapita da Clara. Era così? Sì, era così.
L’acqua si andava raffreddando nella vasca.
C’erano buio e vuoto dietro le sue palpebre chiuse, ma in fondo, come
un granello di polvere o un riflesso rimasto impresso sulla retina, il
globo di luce era sopravvissuto, quasi intatto. Ora somigliava più ad
un uovo fluorescente che ad una stella, ma esisteva ancora, solo un
poco incrinato e opaco. Alcune delle informazioni che conteneva erano
colate fuori, rapprendendosi sulla superficie.
Non le importava più di cosa significasse, né
del perché il capitano Jack Harkness dovesse ricevere quel messaggio
dal futuro di Jenny. Era tutto così inconsistente, così poco importante
in confronto a ciò che avevano perso e a quel che forse stavano
perdendo…
Più tardi, quando i vestiti si furono
asciugati, Ada si avventurò fuori, incurante delle proteste di Dorium.
Doveva trovare il Dottore. Doveva ricevere una conferma definitiva a
ciò che aveva percepito e dimostrargli che poteva affrontare qualsiasi
cosa, insieme a lui.
Le sue scarpe sprofondarono in ciò che
sembrava neve di colore rosa. Un fortissimo odore di fragola le diede
la nausea. Iniziò a capire da dove venissero in realtà le granite
quotidiane - non c’era traccia della fantastica città descritta dal
Dottore, non v’era segno di civiltà passata o presente né di alture o
corsi d’acqua, solo un patchwork di neve dai colori pastello, in tutte
le direzioni.
(Il Dottore mente)
Fece il giro intorno alla TARDIS. Dal retro
poté ammirare tinte differenti, verde e blu e viola, e una sottile
differenza nel paesaggio. Il terreno, a poca distanza, iniziava a
discendere. Notò le orme, recenti e chiare, che si allontanavano verso
la valle ed ebbe un tuffo al cuore.
S’incamminò. Faceva fresco, non un gelo
insopportabile ma nemmeno un clima primaverile, il tanto che bastava
per non far sciogliere la neve. Dopo un tratto, il rosa sfumò nel lilla
e anche la fragranza nell’aria cambiò, permettendole di respirare
liberamente.
Scorse, al centro della valle, una singolare
formazione rocciosa, unica zona libera dal manto di neve che ricopriva
il territorio circostante.
Il terreno era sempre più in discesa, e Ada
temette di non riuscire a proseguire senza rischiare di scivolare.
Seguendo le orme del Dottore, però, scoprì una strada più sicura. Man
mano che si avvicinava, vide che su un lato della grande roccia si
apriva una spaccatura simile a una caverna.
Entrò, percependo immediatamente la
differenza di temperatura. Sfiorò le rocce e le sentì tiepide al tatto;
era come trovarsi in un salotto con il riscaldamento acceso
(il caminetto, nella camera degli ospiti del palazzo di
Malkon, la prima notte d’amore)
e quell’atmosfera la rassicurò, spingendola a
proseguire. Man mano che si addentrava nella caverna, la luce
proveniente dall’esterno diminuiva ma, riflessa dalle formazioni
cristalline sulle pareti e lungo gli archi che dividevano le grotte, le
permise di farsi strada finché non ebbe trovato ciò che cercava.
Il Dottore era a terra, raggomitolato su se
stesso in posizione fetale. Le mani artigliate ai capelli, emetteva a
tratti un suono sgradevole, un singhiozzo roco - come se qualcosa gli
ostruisse la gola, o fosse troppo stremato per chiamare aiuto. Ogni
dettaglio di quella scena emanava una disperazione senza eguali.
Vederlo in quello stato era semplicemente insopportabile.
Ada si rese conto di nuovo dell’egoismo
assurdo che aveva dimostrato nei giorni appena trascorsi. Si era
impegnata ben bene ad amplificare il proprio dolore, rimestando e
aggiungendo quanto più sale possibile sulla ferita. Non si era mai
chiesta come si sentisse lui.
Perché il Dottore era pur sempre l’eroe dello show, che non
può soffrire più di cinquanta minuti perché poi la puntata finisce e
nella prossima ci sarà un’altra avventura da affrontare con il sorriso
sulle labbra…
Era tempo di liberarsi da quello schema
obsoleto e affrontare insieme tutto quanto. Che fossero pronti o no.
Che fossero innamorati o no. Ormai quella era l’unica realtà in cui
vivere… e potevano contare soltanto l’uno sull’altra.
Gli si inginocchiò accanto e lo chiamò piano.
Attese, e in quell’attesa gli accarezzò le
dita contratte, il polso sottile, lisciando la manica della sua giacca
e continuando così finché non ebbe sciolto quella stretta convulsa.
Trascorse un tempo indefinito prima che la
voce del Dottore riuscisse ad articolare una risposta, e anche allora
suonò confusa.
- Come? Cos’hai detto?
- Lei… sta morendo.
- Lei?
- La TARDIS. Non… non può farcela. Non questa
volta.
Il Dottore si mise a sedere, la schiena
contro la parete della grotta e gli occhi fissi nei suoi. Era lo
sguardo terribile che l’aveva intimorita al loro primo incontro, non
certo quello tenero e spensierato dei mesi appena trascorsi, eppure lo
sentì su di sé come la risposta ad un bisogno fisico. - Il generatore
casuale è praticamente imploso quando siamo atterrati. Già sapevo che
non si potevano più inserire delle coordinate fisse, quella parte della
console era già andata persa mentre viaggiavamo nel Vortice… ma speravo
di raggiungere un pianeta evoluto, dove avrei potuto trovare dei pezzi
di ricambio. Ma non è solo questo. Non avrebbe comunque abbastanza
energia per un altro viaggio.
Ada non aveva mostrato alcun segno di
stupore. Le aveva appena confessato la verità sulla situazione in cui
si trovavano, che lui considerava la più grande tragedia che si fosse
mai trovato ad affrontare - sì, aveva già rischiato di perdere la
TARDIS innumerevoli volte, ma era sempre riuscito a riaverla con sé - e
lei non stava gridando, non si stava strappando i capelli, non mostrava
incredulità. Sembrava essersi messa a pensare molto velocemente,
invece. La fase di autocommiserazione era finita, sembrava aver
recuperato tutto il suo coraggio.
- Puoi usare la tua energia rigenerativa.
L’hai già fatto in passato.
Il Dottore sospirò, un rumore secco che
echeggiò brevemente prima di spegnersi. - Per andare dove? Ti ho detto
che...
- A casa. - Era una parola grande e pesante,
e a sua volta Ada attese l’effetto che avrebbe sortito.
Il Dottore ebbe un sussulto, ma anche lui
fece di tutto per non dare a vedere di essere meravigliato da
quell’uscita. - Vuoi dire… - Socchiuse gli occhi, stringendo le labbra.
Forse si era già gingillato con quell’idea e gli era sembrata troppo
forte, troppo definitiva.
- È un dispositivo meccanico, una… patch di
fabbrica - rifletté - Quando una TARDIS sta per… morire, e il suo
equipaggio decide che non può abbandonarla senza rischi, la fa tornare
a casa. Ma Gallifrey non è in questa dimensione, che riesca a spezzare
il blocco è una probabilità infinitesimale.
- È comunque una probabilità. Una patch
meccanica? Significa che non entrerebbe in gioco l’istinto di
autoconservazione. Quando hai creato il blocco, quando hai mandato
Gallifrey dove si trova ora, la TARDIS era cosciente. Non aveva
intenzione di utilizzare tutta la propria energia perché non voleva
esaurirsi. Per questo hai dovuto coinvolgere ogni tua incarnazione
passata, così da sommare le forze sin dall’inizio del suo viaggio. Ma
ora, ora userebbe tutta la forza vitale che le rimane. Può farcela. È
orribile da dire, lo so, ma sarebbe il suo canto del cigno. Il
Guardiano degli Incubi non avrebbe vinto. Non avrei… non avremmo perso
Clara invano.
Gli occhi del Dottore si fecero due fessure e
le sue narici fremettero. Annuì lentamente.
- Ada, forse è come dici. Ma resta il
problema dell’avviamento. Con i comandi manuali non potrei predisporre
un timer. Dovrei partire con lei. Lasciarti qui,
lasciarvi da soli. E se non tornassi, se…
- Andremo insieme - lo interruppe lei,
orripilata anche solo al pensiero di restare sola in quella desolazione
di brina.
- Ma potremmo schiantarci contro il blocco,
rimbalzare via, perderci nel vuoto. Potrebbe non funzionare affatto e
allora...
- Insieme. Soltanto insieme.
Il Dottore tentennò. Sapeva che non c’era
altra via, che era ciò che lei desiderava per
loro, che era arrivato il momento, quel momento e quell’occasione, come
un punto fisso nel tempo che puoi soltanto assecondare, ma si aggrappò
ugualmente a flebili alternative. - Qui c’è comunque del cibo. Non è un
granché, ma… un giorno potrebbe atterrare qualcun altro, portarci in un
pianeta abitato. Devo proteggervi!
- Ho fiducia in te. Ho fiducia in lei.
Lentamente, il Dottore cominciò ad annuire.
Ada si rese conto di ciò che stava per succedere; tutte quelle teorie
che stavano così bene in una fanfiction erano sul punto di diventare il
loro futuro, e faceva paura. Ma la paura era soltanto una sfumatura di
quel dipinto. Rivide Clara, pensosa e sorridente tra gli alberi
fioriti, che trasformava l’immagine di un Silente nel ritratto del
Dottore. Rivide la Galleria Sotterranea, il sorriso enigmatico del
Curatore e la promessa nel suo sguardo. Era tempo che quel sogno si
avverasse.
Quando raggiunsero la TARDIS, il vento si
alzò d’improvviso, e il Dottore si strinse le braccia all’altezza del
petto, come a tenere insieme i pezzi di se stesso. Ada temette che una
delle raffiche più forti riuscisse a portarlo via con sé. Non l’aveva
mai visto tanto fragile, tanto vulnerabile.
- Sì, dobbiamo farlo. - La sua voce era
irriconoscibile, quasi l’eco della caverna gliel’avesse restituita
distorta e così dovesse rimanere in ricordo di quei giorni vuoti e
gelidi. - Lei non vuole spegnersi così, nel
nulla. Non vuole lasciarmi. Ha ancora una possibilità… e anche noi. -
Sfiorò il ventre di lei con devozione. Entrarono insieme, le mani quasi
insensibili, intrecciate a farsi forza vicendevolmente.
La Campana del Chiostro li accolse con un
suono breve e doloroso.
I preparativi furono silenziosi. Le scarpe
del Dottore non facevano mai chiasso, ma più che mai i suoi passi
furono impercettibili.
La stanza si era spogliata di tutto, fuorché
dell’essenziale. Nessuna porta, che comunque non avrebbe condotto in
nessun luogo; nessuna decorazione tonda alle pareti, né scritte in
gallifreyano sul sostegno superiore del rotore. Lei
sapeva e accettava.
Il Dottore mormorò all’orecchio di Dorium
qualche parola dolorosa e gentile, ed egli strizzò forte gli occhi per
non vedere la quarta parete sigillare la sua dimora per l’ultima volta
- il rumore del cacciavite sonico fu straziante a sufficienza.
- Non è un addio. Non lo è - gli sentì
ripetere con voce sempre più flebile.
Era ora di partire.
Il Dottore sfiorò la console con dita
leggere, così come si accarezza una creatura agonizzante, ma
all’improvviso Ada gli vide afferrare una manopola con decisione,
facendole fare un mezzo giro. L’intero pannello scivolò di lato,
mostrando un semplice pulsante scuro attorniato da minuscoli morsetti.
Ada dischiuse le labbra per domandare, ma il Dottore la attirò a sé,
contro il suo petto, affinché non guardasse.
Agganciò le pinzette in diversi punti della
mano sinistra, poi fece lo stesso con la destra, sempre costringendo
dolcemente Ada a non voltarsi, le spalle strette come se volesse
fonderla in sé.
Più sotto, ignari di tanti sacrifici e
infinitesimali speranze, fra loro pulsavano due piccoli cuori.
Il Dottore premette il bottone.
Gli sembrò di schiacciarlo a vuoto, come se
la sua molla interna fosse rotta, ma il meccanismo di
approvvigionamento dell’energia sostitutiva si attivò alla perfezione.
Un leggero formicolio alle braccia si tramutò in spasimi a tutto il
corpo, così dolorosi da costringerlo ad affondare le unghie nei palmi.
Non si mosse di un millimetro, però. Lo abbandonava, inesorabilmente,
il potenziale delle sue vite future - volti che non avrebbe mai potuto
indossare, persone che non avrebbe mai incontrato, luoghi su cui il suo
sguardo non si sarebbe mai posato.
- Va tutto bene. Si sta nutrendo. Tra poco
decollerà.
La TARDIS non prese per sé più di quanto
fosse necessario. Sentì che era rimasto un poco di energia in lui, ma
se questa fosse sufficiente per una o due rigenerazioni ancora non lo
poteva indovinare.
Il dolore svanì, lasciando un’estrema
spossatezza a cui però non poteva ancora arrendersi. Si strappò i
morsetti con un unico movimento delle braccia, senza accorgersi del
sangue che raggiunse in fretta la superficie dei graffi e gocciolò sul
pavimento. Il rotore temporale iniziò a muoversi.
- Mia cara - furono le sue parole prima che
la TARDIS lasciasse la superficie di Freon e si gettasse nel Vortice
per tornare a casa un’ultima volta - e nessuno seppe a chi fossero
rivolte, se a lei, a Ada o alla loro creatura.
Forse alla vita, che ora più che mai non era pronto a lasciare.
Questa long-fic è stata per me una vera e propria sfida in molti sensi.
Mi sono data una disciplina ferrea e sono riuscita a rispettare le
"consegne" autoinflitte di un capitolo a settimana. Ce ne sono almeno
un paio che non mi convincono affatto, ma sono andata avanti ugualmente
e sono contentissima del risultato complessivo.
Sto scrivendo il seguito, anche se non sono sicura di cosa verrà fuori.
Se vi fa piacere tenete d'occhio la serie di cui fa parte, e che
include anche alcune flash-fic, per lo più missing moments della storia.
Grazie ad Allons-y, che ha letto e commentato la trama originale della
storia (anche se è cambiata abbastanza dallo scorso inverno...), grazie
a Nykyo e Lia, che l'hanno seguita fino alla fine, e soprattutto a
Charlotte che fangirla con me quotidianamente e si prende cura della
mia Musa con crocchette per gatti e grattini dietro le orecchie... ma
anche un po' di severità quando serve!
Un inchino,
Saki
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