1900 1
La
mano di lei gli sfiorò il petto, stringendo con le unghie e
lasciandogli piccoli segni a mezzaluna.
Mentre dormiva aveva
un'aria distesa da ragazzina, che da sveglia
lasciava spazio a quella ruga di ostinata spavalderia che non
l'abbandonava mai. Solo con gli occhi chiusi e la bocca semi aperta
sembrava docile.
Anche dopo le
gravidanze rimaneva la donna più bella che avesse
mai visto. La scostò con delicatezza, tenendo la sua mano
minuscola nella sua, tremendamente in contrasto: enorme, rozza, piena
di calli.
Anche se Olga lavorava
nei campi aveva la pelle liscia e vellutata di
quando era nata e nessuno riusciva a spiegarsi il segreto, quando gli
veniva chiesto lei si limitava a tirare indietro la testa e scoppiare
in una di quelle sue fragorose risate a bocca spalancata.
Si alzò in
piedi, tirandosi su i calzoni e allacciando le
bretelle, rimase ad osservarla, seminuda, la pelle imperlata dalla
calura estiva.
Si ritrovò
a sorridere, poi camminò fino alla culla e si
sporse per controllare che il piccino dormisse, poi con qualche altro
passo raggiunse anche il minuscolo giaciglio sul quale dormivano Orso,
Demetrio e Tina. Il sole stava per sorgere e, nel giro di una manciata
di minuti sarebbe arrivato il fattore per aprire i cancelli e
permettere loro di andare nei campi. Si passò il dorso della
mano su tutta la faccia, rimanendo a occhi chiusi.
Il vibrare caldo di
un corpicino contro il suo lo fece sussultare.
- Ehi, piccinin, che
ci fai già in piedi?-
Orso aveva 4 anni, ma
lo sguardo sveglio della madre, i capelli lisci e
scuri scompigliati sulla fronte già ustionata dal sole.
Il piccolo si
limitò a sbadigliare, rimanendo ancorato al petto del padre.
Nella cascina
dormivano ammassate tutte le famiglie che lavoravano le
terre dei Catellani e il caldo già alle prime luci del
giorno
era insopportabile mescolato agli odori, rumori di centinaia di persone
costrette assieme.
-Vai accanto alla
mamma, papà deve andare...-
Il piccolo
tirò su col naso e si trascinò sulle sue gambe
rinseccolite accanto alla mamma, ancora addormentata, poi
salutò
il padre con la manina.
Fernando
agguantò la camicia sdrucita e se la abbottonò
frettolosamente addosso. Uscendo nella corte trovò gli altri
parenti e amici già con gli attrezzi di lavoro in mano.
- La siora non si
è mica più vista da quando è
successo...quello che è successo...-
Il sole stava
spuntando dietro le colline, ma già la fresca
brezza della notte lasciava spazio alla calura e l'afa. Fernando si
stropicciò di nuovo la faccia mentre afferrava la sua zappa
e la
falce arrossata dalla ruggine.
- Oh Fernandin!
Buongiorno-
Guardò in
direzione della voce, strizzando gli occhi, poi senza
risposta, arraffò una pietra e iniziò a passarla
sulla
superficie erosa.
- Non è
stato facile nemmeno per il Catellani, questo è poco ma
sicuro -
Aveva preso a limare
il piatto della falce, lentamente, con un
movimento quasi esasperato, a testa bassa e senza fiatare. Gli altri
continuavano a parlare, in cerchio appena dentro i cancelli che di
lì a qualche minuto sarebbero stati spalancati.
L'aria era pesante,
si percepiva e non era certo per il caldo imminente.
- E' un peccato che
l'abbia presa così, la signora dico... Ci
saranno altre possibilità, è ancora giovane...-
- Son passati 4 anni,
è stato un colpo troppo duro-
- Non è la
prima ne' l'ultima a cui capita una cosa del genere. E' brutto ma
è così...-
Ancora la pietra
raschiava il ferro. Fsss Fsss Fssss. Quasi sovrastava le voci. Le
cicale iniziavano il loro canto infinito.
- Una tragedia
altrochè, una tragedia bella e buona!-
-Ma quale tragedia,
si vede che questo è il Signore che si rifà di
qualche cattiveria!-
La pietra si
fermò e così anche le voci. I visi cotti al
sole guardarono tutti dalla stessa parte. Ferdinando sollevò
la
mano, fece scivolare il sasso e poi si alzò, ergendosi in
tutta
la sua mastodontica stazza. Gli altri ammutolirono.
Fece qualche passo,
arrivò nel centro del semicerchio e rimase
lì fisso, osservando negli occhi Pasqualino, il figlio di
uno
dei suoi cugini.
- Non ti vergogni di
quello che dici?-
Quasi si
potè sentir deglutire il giovane.
- Ti auguro di non
provare mai un dolore simile a quello provato dai padroni. Sei solo un
caprone imbecille.-
Proprio in quel
momento il catenaccio fu fatto cadere e i contadini si avviarono in
marcia verso i campi.
Fernando la conosceva
bene la sensazione di perdere un figlio, di
tenere quel corpicino minuscolo e inerte tra le braccia, ancora
sanguinante.
La speranza cieca e
ingenua che il petto così piccino prenda di
colpo ad alzarsi ed abbassarsi, le manine ad agitarsi e stringere.
Era successo subito
prima della nascita di Orso, appena un anno. Nell'aspettare Olga era raggiante di felicità, non vedeva
l'ora di
stringere fra le braccia il frutto del loro amore.
Fernando stava
lavorando nei campi, era quasi sera e il pensiero della
moglie in travaglio lo stava facendo uscire di senno. Lo vennero a
chiamare mentre portava l'acqua alle stalle, aveva mollato tutto,
rovesciando i secchi colmi ed era corso verso la cascina.
Le donne erano tutte
nella stessa stanza, il vociare dei bambini appena
fuori la porta. Olga stesa su un letto di paglia e stracci che urlava
come un ossesso. Gli fu vietato di entrare finchè non si
sentì un urlo disumano, disperato.
- Fate entrare il mio
uomo!!!!-
Lui aveva spalancato
la porta, il sudore acre ancora gli gocciolava
dalla fronte, gli incollava i vestiti. Le aveva preso la testa fra le
mani, baciando dolcemente le lacrime salate sulle ciglia. Poi si era
voltato, smarrito, solo anche se la stanza era piena. Sua moglie, la
sua bellissima e forte moglie stava per dargli il suo primo figlio.
Aveva paura. Sentiva un peso sopra al cuore, un misto tra terrore e
un'esplosione di felicità, il battito che sembrava volergli
squarciare le vene. Anche lei era terrorizzata, gli occhi blu sgarrati
e la bocca martoriata dalle strette contro i denti.
- Rimani qui con me,
ti prego...-
Olga aveva
sussurrato, bianca in faccia, distrutta e abbattuta.
-Andrà
tutto bene, piccinin, tutto bene-
Aveva continuato a
ripeterlo ad ogni spinta, ad ogni urlo soffocato
contro il suo avambraccio, ogni volta che una donna correva a prendere
altra acqua bollente. L'aveva ripetuto anche quando si era iniziato ad
intravedersi la testolina e anche quando era completamente uscita,
senza il minimo rumore, senza turbare il moto perpetuo del mondo al di
fuori di quella stanza.
Il sangue era
dappertutto, inzuppava le coperte, la paglia, il
pavimento di assi. Anche la piccola ne era ricoperta, sembrava un
involucro intoccabile, fragile, che al primo scossone avrebbe potuto
distruggersi in mille pezzi.
La donna che l'aveva
fatta uscire scosse la testa impercettibilmente,
evitando di incontrare gli occhi di Fernando, che già gli
pizzicavano di lacrime.
Olga era rimasta
inerme, gli occhi chiusi, le labbra serrate, senza emettere suono. Lei
lo sapeva, una madre lo sente.
Fernando l'aveva presa
delicatamente tra le sue immense braccia,
tenendola come si tiene una reliquia santa, tenne la testolina nel
palmo della mano, la piccola schiena contro il braccio. Pianse in
silenzio mentre lavava via gli ultimi lembi di legame materno, la
asciugò con cura con un pannetto pulito e poi
tornò a
stringerla come se fosse viva. Era minuscolo quel corpicino appena nato
e mai vissuto, che non aveva conosciuto le gioie e le disgrazie della
vita, che mai avrebbe compreso la differenza tra giusto e sbagliato,
tra ricco e povero, morte e vita. O forse sì, nella sua
seppur
breve esistenza ovattata la piccola aveva capito molto più
di
tutti loro cosa significasse morire e cosa invece vivere e lo aveva
insegnato proprio quel giorno.
La morte li aveva
guardati in faccia uno ad uno e aveva strappato nel
modo più terribile una creatura alla madre, una futura
donna,
futura madre.
Il padrone si
presentò di persona appena seppe della notizia e
dette loro le sue personali condoglianze, anche a nome della moglie.
Sembrava addolorato quanto loro. Non era raro che i bambini morissero,
specie durante il parto, ma nella fattoria quel giorno aleggiava lo
stesso una malinconia generale, come se la perdita fosse stata di tutti
e non solo di quei due giovani genitori.
Ma la vita continuava,
lo dicevano tutti, lo avevano detto anche alla
Olga, ancora a letto, qualche giorno dopo. Lei era rimasta in silenzio
per settimane e Fernando era stato ad un passo dalla follia.
La colpa non era di
nessuno, dicevano. Le cose dovevano andare
così... Il Signore vi ha tolto questa creatura
perchè
possiate averne molte più in futuro. Parole comunque troppo
vuote per colmare una disgrazia così profonda.
Ma anche quella
sconfitta, come tante altre, col tempo sarebbe stata superata.
L'avevano chiamata
Maria, come la defunta madre di Olga ed entrambi si
erano separati dal suo corpicino promettendosi l'un l'altro che mai
l'avrebbero dimenticata, anche se aveva appena appena fatto in tempo a
far parte delle loro vite.
La signora Catellani
era diventata un fantasma, un'essenza, una
presenza, o meglio un'assenza, con la quale spaventare i bambini e
riempire le gelide serate invernali. Da quattro anni a questa parte era
diventata l'argomento principale di discussioni e speculazioni del
circondario. Era sempre bella come una volta? Tutti avevano
più
o meno fantasticato su quel corpo perfetto, da attrice del cinema, la
pelle diafana e i capelli setosi.
Appena sposata, quando
era venuta ad abitare nel casale le donne
avevano malignato, schioccando le lingue come fruste: una donna del
genere non avrebbe resistito a lungo in un posto come quello,
così altolocata, delicata e schifosamente ricca di famiglia.
No,
doveva esserci qualcosa sotto. E il bell'aspetto di Enrico Catellani
era soltanto un surplus.
Alcuni dicevano che
era diventata una strega, invecchiata e incattivita dal dolore.
Sembra un angelo,
dicevano altri, la sofferenza non ha fatto altro che preservare quel
suo candido splendore.
Ma nessuno l'aveva
più vista da quando era successo il fatto.
Quella mattina di
luglio la signorina Bianca non era stata la sola ad uscire dal ventre
della madre.
La signora aveva dato
alla luce due gemellini, quello nato morto, un
maschio. A niente erano valsi gli urli strepitanti della piccola, i
vagiti, i primi passi, qualcosa nel cuore della donna si era rotto per
sempre.
Per Enrico Catellani
forse era stato anche peggio; oltre che un figlio
quel giorno aveva perso anche una moglie, una compagna per la vita.
La signora si aggirava
leggiadra e totalmente distante, come uno
spirito, per le stanze della villa, senza mai parlare con anima viva,
un vuoto profondo negli occhi, pozzi scuri su quella pelle di
luna.
Il signor Catellani
aveva interpellato i migliori medici del Paese e
eminenti luminari stranieri, ma a nulla erano servite le cure, le
visite, le sedute; la signora continuava a respirare, il suo diaframma
si alzava ed abbassava, il sangue le scorreva nelle vene sì,
ma... Era come se fosse già morta.
Fu durante un
pomeriggio d'autunno di quello stesso anno,il 1904, che Fernando Grossi
la vide.
La villa pareva
deserta, lui era entrato per consegnare alcune casse da
sistemare nello scantinato. Nessuno gli rispose, vagò per
qualche tempo alla ricerca di una cameriera.
Non seppe nemmeno lui
perchè aveva iniziato a salire le scale,
gradino dopo gradino si era sentito sempre più in colpa,
come se
stesse deflorando un paradiso vergine, il cui accesso era vietato a
tutti. Lei era lì in cima alle scale, eterea, quasi irreale,
leggiadra in un vestito svolazzante candido. Fernando era rimasto con
la bocca spalancata e, lesto come una lepre aveva fatto per andarsene
se non che quella lo aveva chiamato.
Lei, che non parlava
se non a monosillabi, i cui occhi spenti sembravano vedere tutto e
nulla, senza coglierne il significato.
Fernando si
arrestò a metà scala, dove era già
arrivato nella sua fuga. La signora ripetè il suo nome,
dolcemente.
Ricordò i
primi tempi, quando i signori erano appena sposati e
lei era tanto gentile e affabile con tutti, quel sorriso aperto sempre
sul viso. Era diversa, lo era sempre stata. Non c'era
superiorità nei suoi modi, ne' spocchiosità,
anzi...
- Signora...-
- Fernando tu, mi
trovi brutta?-
I suoi occhi verdi lo
avevano ancorato e lui non potè fare altro
che boccheggiare come un pesce appena pescato, la mano che stringeva il
corrimano così tanto da imbiancargli le nocche. Lei
iniziò a scendere, aveva i piedi nudi e sembrava quasi non
toccare terra. Fernando si sentiva impotente, stranito. Non voleva
trovarsi lì, gli sembrò sbagliato e ingiusto che
lei si
comportasse a quel modo, anche se dopotutto non stava per niente bene.
Non doveva stare lì con la padrona nella condizione in
cui essa si trovava, senza nessuno intorno. Qualcuno poteva vedere e
interpretare male.
- Perchè mi
fate questa domanda, signora?-
Abbassò lo
sguardo, indietreggiando di qualche scalino, mentre
lei avanzava sempre di più, gli occhi illuminati da uno
strano
bagliore. Sembrava sotto un incantesimo che la rendeva insensibile a
tutto, estranea ma al contempo incredibilmente audace. Una mano
affusolata e bianchissima risalì dal basso ventre, con una
lentezza disarmante. Fernando si morse la lingua, gli occhi che quasi
uscivano dalle orbite. Le dita fecero scivolare un bottone dentro
l'asola, uno dopo l'altro, lasciando scoperto la pelle liscia del petto.
- Signora, dovrei
tornare a lavorare... Vi prego-
Lei finse di non
udirlo o forse non lo sentì veramente, era come
se fosse in trance, completamente assuefatta. Scostò la
veste,
mostrando i seni piccoli e turgidi, immacolati come il resto del suo
incarnato, l'ombelico faceva capolino dall'ultimo bottone aperto.
- Sono brutta?-
Fernando scosse la
testa meccanicamente, non riuscendo ad alzare lo
sguardo per incontrare quello di lei, sempre più vicina. Li
separava ormai meno di qualche spanna.
- Mio marito non mi
vuole più...-
Cantilenò
lei, con voce mesta e infantile. Il vestito le scivolò dalle
spalle, finendole tra i piedi.
- Devo essere
tremendamente brutta se mio marito non mi vuole
più toccare... Ma sono brutta, Fernando, guardami, lo sono?-
Gli occhi si posarono
inevitabilmente su quel corpo pallido, dal
chiarore lunare, le forme leggere dei fianchi, le gambe affusolate e
lisce. Un tremore viscerale si prese possesso dell'uomo che sentiva
dentro, ma ad avere la meglio fu il contadino.
La cinse con le sue
braccia possenti, quasi poteva farle due giri
attorno al corpo da quanto era esile, con una mano arraffò
il
vestito e lo calò sulle sue spalle.
- Prenderete freddo
così, dovete andarvi a riposare...-
La signora
annuì, assente, mentre gli si aggrappava al collo, la
testa appoggiata contro il petto. La sollevò senza alcuna
difficoltà arrivando fino in cima alla rampa.
Stette attento quando
la poggiò a terra. Sembrava una bambola di
cartapesta che da un momento all'altro sarebbe potuta volare via,
rimanere accartocciata e stropicciata da qualcosa di più
grande
di lei. Gli fece pena, una tenerezza incredibile stretta miseramenta in
quel vestito troppo leggero, la pelle d'oca che gli percorreva tutto il
corpo, gli occhi enormi come smeraldi spauriti. Poi iniziò a
piangere, lacrime dense, spesse, corpose. Il viso le rimase
impassibile, ma fradicio di tristezza.
Fernando non sapeva
cosa fare, avrebbe voluto stringerla a se',
scuoterla, ripetere che non vi era niente per cui stare a quel modo,
che lei era la padrona.... Che cosa avrebbe voluto più dalla
vita? Che il marito l'amava, sebbene non fosse proprio uno stinco di
santo, che la piccola Bianca aveva bisogno di una madre e che
sì, era tremendamente bella, splendida, algida e sensuale.
Ma
non lo fece. Non lo fece perchè ricordava il suo posto,
quale
erano i loro rispettivi ruoli, cosa avrebbe rischiato a toccarla di
nuovo, a trovarsi in quel posto ancora a lungo.
Ma fu lei ad
avvicinarsi, piano, quasi temesse di infrangere un momento
prezioso. Rimase sospesa, quasi sollevata da terra, per una manciata di
secondi che parvero infiniti.
Si accostò
a lui, si poggiò al suo petto. I seni appena
coperti dalla veste che gli sfioravano la pelle. Lui chiuse gli occhi,
dolorosamente cosciente. Lei invece li aprì, dischiuse la
bocca
e gli donò un bacio umido, sincero, salato di lacrime.
Fernando
non oppose resistenza, ma frenò le mani che già
la
stringevano forte alla vita.
Poi d'improvviso si
separò da lui con uno scatto, arrivando al
muro, appiattendosi contro. Lo guardò come se lo vedesse per
la
prima volta, la fronte corrucciata, disorientata.
- Vattene!-
Urlò
rabbiosa, con la voce gutturale, quasi un abbaio.
- Ho detto vattene!!!!
Esci fuori! Vattene!!! VATTENE!!!!-
Fernando si
precipitò giù per le scale, seguito dalle
urla convulse della signora. Uscì dalla villa come un
forsennato, sparendo poi tra i campi. Solo quando fu abbastanza
lontano, quasi arrivato alla cascina decise di riprendere fiato,
accasciandosi a terra.
- Ehi Fernandin,
cos'hai visto un fantasma, ne'?-
Fu quella l'ultima
volta che qualcuno vide la signora. Attorno alla sua
figura negli anni a venire si erano addensati misteri sempre
più
fitti, storie rocambolesche e incredibili che la vedevano protagonista
di una fuga con un gruppo di acrobati del circo di Vienna, oppure come
fredda assassina, che vagava per la pianura uccidendo capi di bestiame,
bevendone il sangue. Fernando comunque non raccontò a
nessuno di
quell'incontro e presto si convinse che si fosse trattato solamente di
un sogno, di una strana fantasia provocata dal caldo.
Faceva caldo nella
cascina, un caldo tremendo. L'aria si era fatta
densa di odori del pasto, le donne mescolavano la polenta in un grosso
pentolone ammaccato mentre i bambini giocavano a rincorrersi sotto le
arcate, i piedi scalzi e graffiati dagli sterpi.
Gli uomini avevano
già preso posto lungo le tavolate di legno, i
cappelli calati sugli occhi, il fumo dei sigari ad offuscare l'aria.
- Non siete certo
voialtri che siete andati al comisio della Lega.
Voialtri pensate solo a tirar avanti come muli.... Volete questo,
volete? Che ci trattino come bestie da soma ancora a lungo?-
Vittorio Grossi, detto
Labriola, come il capo della corrente
rivoluzionaria del partito socialista, si alzò in piedi
indicando uno ad uno i parenti, a suo dire troppo moderati e passivi.
In tutta risposta il
cugino Ettore gli sputò sul muso, lasciando
che il suo fervore politico si estinguesse in una risata generale.
- Sempre a discorrer
di politica tu... Cosa ne vuoi sapere? A me non
sembra che ce la stiam passando troppo male. Ci son stati momenti
peggiori... -
Labriola
sbuffò col naso, un mezzo sorriso strafottente sulla faccia
sporca di terra.
- Siete solo delle
bestie.... Delle bestie assuefatte dalle false
promesse del padrone. Non vi rendete conto che ci sfrutta come fossimo
animali? I buoi giù nella stalla hanno più
diritti di
noi! In quelle zucche vuote non avete nemmeno un grammo di cervello per
capirlo? La rovina di questo Paese siete voi e la gente come voialtri!
Turati! E' lui la rovina! Con la sua apertura liberale! ALLA ROVINA!
ANDREMO ALLA ROVINA!-
Sputò a
terra tre volte e poi uscì come una furia, lasciando che gli
altri lo guardassero come si guarda un pazzo.
Fernando non capiva
niente di politica, ma una cosa la sapeva...
Sentiva che stavan per accadere grossi cambiamenti, si avvertivano
fermenti sotterranei, sconvolgimenti latenti.
La gente iniziava
sempre più ad interessarsi di cose politiche,
di affari che esulavano dal piccolo mondo fatto di fatiche nel quale
sembravano tirare avanti giorno dopo giorno. Il Partito Socialista, la
Lega dei Lavoratori, le sommosse popolari contro i padroni, i primi
scioperi. Qualcosa stava mutando davvero.
- Quel toso
lì è passo, come fa a dir che il padrone ci
sfrutta se ha appena comprato uno di quegli arnesi che trebbia in
automatico? Basta una bestia che traina e riesce a far il lavoro di 5
uomini in meno di metà del tempo. Si fatica meno e io sto
apposto così-
Un grugnito di
approvazione serpeggiò tra le tavole. Ma molti altri non si
trovavano d'accordo.
- A me pare solo un
arnese diabolico. Fra un po' non ci sarà
nemmen più lavoro da fare... Sarà pieno di quegli
affari
e di noi? Di noi chi avrà più bisogno?-
- Ci saran sempre dei
poveracci di cui aver bisogno e sta pur certo che saremo sempre
noialtri...-
I discorsi si
interruppero all'arrivo dei piatti di polenta fumante e
per un po' si rimase in silenzio, le mosche che serpeggiavano
indisturbate sulla tavola.
Fu proprio in quei
giorni che il Paese fu attraversato da un'ondata rivoluzionaria di
sommossa.
Nelle giornate tra il
15 e il 20 settembre 1904 infatti, fu proclamato
dalla Camera del Lavoro di Milano il primo sciopero generale della
storia d'Italia, promosso proprio dai sindacalisti rivoluzionari di
Arturo Labriola, scaturito dal clima di terribile tensione sfociata a
seguito delle mattanze avvenute in Sicilia e Sardegna dagli scontri con
le forze dell'ordine.
Le giornate di
sciopero furono una vera follia, un pericolo crescente e
concreto per la borghesia, che richiese o meglio quasi
supplicò
Giolitti di intervenire in maniera armata. Ma il capo del governo
lasciò che l'ondata di proteste e sommosse si sedasse da
sola,
evitando altri spargimenti di sangue che avrebbero senza dubbio
alimentato il malcontento, invece di stroncarlo una volta per tutte.
La mossa di Giolitti
fu quella di sciogliere la Camera ed indurre nuove
elezioni i cui risultati sancirono l'evidente sconfitta dei socialisti,
i cui seggi in Parlamento diminuirono notevolmente, facendo emergere
tra l'altro la vittoria schiacciante del riformista Turati.
Ciò che
risultò chiaro a seguito del sommovimento
proletario fu la fine del sodalizio fra socialismo e giolittismo,
ques'ultimo inevitabilmente avvicinatosi alle masse cattoliche
conservatrici.
Il primo sciopero
d'Italia fu comunque il primo passo verso una nuova
impronta, fino ad allora mai sperimentata nel Bel Paese: la lotta
sociale come violenza necessaria, contrapposta al dogmatismo utopistico
di Marx.
La tesi che il sindacato, non il partito, dovesse essere la massima organizzazione di lotta della classe operaia e che lo sciopero generale dovesse diventare un' arma insurrezionale per rovesciare il regime borghese stava progressivamente affermandosi tra gruppi di operai e di intellettuali che capivano l'insufficienza del riformismo.
Molti si avvicinarono
al pensiero socialista, la promessa di un mondo
in cui l'uguaglianza tra pari sembrava possibile alimentava le speranze
di chiunque si trovasse in una condizione difficile e ciò
non fu
diverso nemmeno nella cascina dei Catellani. L'interesse politico,
l'inasprimento nei confronti dei cosidetti ''padroni'' andò
a
rafforzarsi nei mesi di quell'anno pregno di stravolgimenti.
Da parte sua Enrico
Catellani non si preoccupava ancora di quel grosso
problema, finchè i suoi lavoratori erano chini sulle sue
terre,
niente poteva sfuggire dal suo controllo. O almeno questo era quello di
cui sembrava profondamente convinto.
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