Semi sdraiato sul letto Giacomo
respirava lentamente,
guardando con orrore a quella vita che gli era saltata addosso
brutalmente diciannove
anni prima, senza chiedergli il permesso, perché
l’esistenza è quanto di più
prepotente esista, non vi è rimedio che non siano
l’amara accettazione o la più
cupa disperazione. Si osservò di sottecchi le mani lunghe e
scarne ,
assomigliavano tanto alle mani di sua madre, al pensiero il suo corpo
venne
scosso da un lieve sussulto, perfido destino, quello di avere le stesse
mani di
colei che quasi mai durante l’infanzia aveva avuto un momento
di tenerezza nei
suoi confronti, uno dei tanti fattori che avevano contribuito a scavare
quella
voragine immensa come la sua anima cupa come la notte, profonda come il
suo
sguardo. Si appoggiò entrambe le mani sul volto e
timidamente lo accarezzò
chiudendo gli occhi e pensando che nessuno avrebbe mai voluto
accarezzare quel
volto. Sentì una spada trafiggergli il petto o forse era
solo la lucida
consapevolezza della sua prigionia a pugnalarlo senza pietà.
Si osservò nel
grande specchio di ottone e finse di essere estraneo a se stesso.
C’era
qualcosa, qualcosa di dannatamente sbagliato in lui da suscitare il
ribrezzo
nel prossimo. Strinse forte i pugni e deglutì piano, la sua
bocca era intrisa
del sapore del fiele. Riflettè sull’amara
realtà che ciò che lo faceva sentire
bene, comporre poesie o immergersi nella lettura non erano altro che
cure palliative
ad una malattia inevitabilmente mortale, incurabile: la vita. Aspettava
qualcosa, o forse qualcuno che possedesse la chiave di volta della sua
condizione esistenziale, qualcuno in grado di ribaltare per sempre le
regole
del gioco. Iniziò a mordersi nervosamente le unghie fino a
che il sapore
amarognolo del sangue lo calmò leggermente.
Osservò una goccia di sangue
scendere lungo il dito e nel suo rosso vide tutta la forza misteriosa
della
vita, che in un altro tempo, in un altro luogo avrebbe potuto dargli
così tanto…
Salì in fretta i
gradini di legno che gemettero sotto al suo
seppur esile peso. Doveva farlo. Era una piccola vendetta innocente che
per lei
significava tantissimo. Entrò nella camera dei suoi
genitori, si tolse le
scarpe e con gesti lenti si avvicinò all’anta
sinistra dell’armadio. Aprì
pregando che non scricchiolasse come tutto il legno di casa sua
consumato dal
troppo uso e dalle tarme. Se li vide davanti, i pantaloni
“buoni” di suo padre
e ancora prima di essersi resa conto di ciò che stava
facendo li strinse
avidamente fra le mani e senza esitazione iniziò a togliersi
il vestito. Rimase
con il corsetto e la biancheria intima e ansimando lievemente se li
infilò
mentre i brividi
scuotevano le sue
gambe. Mosse qualche passo incerto e sorrise a se stessa, riflessa nel
vecchio
specchio vicino all’armadio.
“Teresa…” Una voce flebile si spinse su
per le
scale fino a lei, e il mondo le crollò di nuovo addosso.
“Mamma! Vengo, vengo
subito!” gridò trasalendo. Iniziò a
togliersi i pantaloni con foga ma data la
sua scarsa
dimestichezza con quel tipo
di indumento inciampò e cadde a terra goffamente.
“Teresa” La voce si era fatta
più flebile. Gemette piano e si rialzò
sistemandosi il vestito alla bell’e
meglio. Sentiva dolore ovunque. Ripose i pantaloni
nell’armadio e si
precipitò giù per le scale e posò lo
sguardo sull’esile corpo di sua madre, oramai immobile in
quel letto da più di
tre mesi. Prese la brocca d’acqua che aveva precedentemente
riempito al pozzo,
la versò in un bicchiere e dopo averle messo le mani dietro
alla testa per
farla raddrizzare un poco le avvicinò il bicchiere alle
labbra secche. “Devo
parlarti” mormorò con affanno. “Ditemi,
vi ascolto” Rispose la fanciulla
ignorando la fitta al petto provocate dalle parole di sua madre.
“Io temo, cioè
credo di essere incinta, di nuovo.” Teresa si ritrasse
schifata. “Ma…” Mormorò
con gli occhi gonfi di lacrime “Come ha potuto…
voglio dire lo vede come state
e poi… non comprende che è molto rischioso per
voi portare avanti una
gravidanza?” Vide che sua madre cercava di scuotere la testa.
Appoggiò
delicatamente sua madre al guanciale, sentì il pianto
stridulo della sua
sorellina di cinque mesi. Strinse forte i pugni e la prese in braccio,
aveva
voglia di fare qualcosa con le mani, i pensieri e la rabbia la stavano
uccidendo. La cambiò in fretta con gesti rapidi e meccanici,
poi si interruppe
di colpo, udendo in lontananza i passi di suo padre avvicinarsi sempre
di più.
Era avvolto in un dolce torpore,
in grado, anche se momentaneamente
di attenuare la sua sofferenza. Sentì il rumore di una
carrozza, sperò che non
fosse suo padre invece riconobbe la loro carrozza e i loro cavalli e
sbuffò
leggermente. Osservò il cocchiere scendere, aprire la porta
della carrozza a
suo padre e accennare un rozzo inchino prima di
dirigersi verso casa. Lo invidiava con tutte le sue forze.
Teresa cercò a fatica
di controllare la rabbia e per fare
ciò si sforzava di non guardare sua madre ma era
più forte di lei. Aspettò di
sentire suo padre chiudere dietro di sé la porta della sua
prigione prima di
sibilare, con tutta la cattiveria che aveva in corpo “Voi
siete un mostro”. Vide
suo padre spalancare gli occhi senza accennare una risposta fu allora
che alzò
la voce sbattè i piatti sul tavolo che sua madre le aveva
chiesto di
apparecchiare gridando “Si, avete capito bene. Un mostro
della peggior specie.
Vergogna!!!” Sentì suo padre afferrarle uno dei
suoi esili polsi e
scaraventarla contro la credenza. Sua madre sobbalzò ma non
ebbe la forza di
fare altro. Cercò di chiamare suo fratello che stava
zappando nell’orto ma non
le uscì che un flebile gemito. Aveva sbattuto forte la testa
e un fiume di
sangue usciva dalle sue narici, erano giorni che mangiava un frutto a
pranzo e
un tozzo di pane a cena ed ora perdere sangue significava perdere
quelle poche
forze che le rimanevano per reggersi in piedi. Si accasciò
per terra aspettando
di morire, invece il dolore era sempre più vivo mentre
sentiva i piedi di suo
padre affondare nella sua schiena.
Sentì un urlo lontano e
si alzò in fretta dal letto, scese
lo scalone del palazzo con un leggero affanno, la luce del tramonto lo
accecò
facendogli ricordare che anche in un altro tempo, in un altro luogo non
avrebbe
potuto avere una vita normale era la vita stessa che glielo impediva.
Uscì dal
portone e spalancò gli occhi incredulo e terrorizzato allo
stesso tempo.
Teresa aveva raccolto tutte le sue
ultime forze in preda al
più crudo istinto di sopravvivenza che ti spinge a
proseguire la tua esistenza
seppure sia peggio di una perenne tortura e si era trascinata fuori
dalla porta
di casa, le usciva sangue dal naso dalle labbra e dalla fronte,
respirava a
fatica senza smettere di singhiozzare. Quando vide il conte Giacomo
avvicinarsi
a lei titubante sentì il desiderio di sparire, la sua umile
condizione non
aveva mai spento in lei l’orgoglio che in
quell’istante ribolliva e fremeva in
lei, tuttavia nel passo tremolante di quel giovane uomo e nel suo
sguardo
triste scorse qualcosa di diverso dalla commiserazione, ma forse era
un’altra
illusione confezionata dalla sua mente per sopravvivere.