CAPITOLO I: Benvenuto a Chicago
LOS ANGELES, 14/02/2008
GIOIELLERIA WEBSTER & SANDS
Un piccolo Yorkshire abbaiava rumorosamente allo stivale
di una delle due guardie giurate che controllavano l’ingresso
del negozio.
Sorridendo, l’uomo lo allontanò leggermente con il
piede. Il suo collega scosse leggermente la testa e con un cenno del
capo, gli suggerì di ritornare a sorvegliare
l’entrata.
All’interno un cartello, sagomato come un cuore trafitto da
una freccia, proclamava l'apertura dei saldi speciali sugli anelli.
Diverse coppie di fidanzati indugiavano davanti al bancone, mentre tre
commesse sorridenti mostravano loro le migliori scelte di anelli
nuziali.
“Non so” commentò una donna sulla
trentina, bionda, rivolgendosi a un uomo brunopiù o meno
della stessa età. “Mi sembrano un po’
troppo semplici…che ne dici?” L’uomo
sussurrò qualcosa al suo orecchio, facendola ridere di gusto.
Rivolgendosi alla commessa, l’uomo accennò agli
anelli con la mano. “A quanto pare, la mia futura sposa ha
deciso di prosciugare il mio conto corrente ancora prima del
matrimonio. “Stupido” commentò divertita
la donna “Può mostrarci qualcosa di più
raffinato, per favore?” chiese poi alla commessa
più vicina. “Ma certo”
replicò sorridendo quest’ultima.
La commessa si voltò verso lo scaffale alle sue spalle.
Improvvisamente serio, l’uomo fece un cenno alla sua
accompagnatrice, che diede uno sguardo al suo orologio da polso e
annuì.
“Ecco, questi modelli sono esatta-“
iniziò la commessa, prima di essere interrotta da un
rumoroso colpo di fucile. La vetrata del negozio era stata distrutta da
un colpo d'arma da fuoco, e i clienti iniziarono ad urlare.
Le due guardie giurate si precipitarono dietro a due colonne portanti,
estraendo le loro pistole. “Buttatele a terra”
ordinò una voce alle loro spalle. Girandosi, le guardie si
trovarono faccia a faccia con l’uomo bruno e la donna bionda
al bancone, che ora puntavano due pistole alle loro teste. La coppia
aveva decisamente perso l’aria scherzosa, e nei loro sguardi
c’era solo determinazione.
La guardie furono costrette ad obbedire., e lasciarono cadere
controvoglia le loro armi. “Calciatele via”
ordinò loro l’uomo bruno, impassibile. Con una
smorfia di disappunto, le guardie obbedirono di nuovo.
Tre uomini vestiti di nero entrarono dalla porta, puntando due
mitragliette e un fucile a pompa sui clienti. L’uomo con il
fucile a pompa si avvicinò all’uomo bruno.
Soddisfatto, gli diede una pacca amichevole sulla spalla.
“Ottimo lavoro, Steven” commentò.
“Anche il tuo, Terry” rispose Steven, a sua volta
soddisfatto.
Annuendo, Terry scavalcò il bancone e puntò il
fucile alla testa di una commessa. “Potrebbe aprire la
cassaforte alle sue spalle e consegnarmi l’uovo
Fabergè che contiene, per favore?” chiese con una
calma innaturale.
La commessa lo fissò smarrita. “U-uovo? Quale
uovo?” rispose, balbettando per la paura. “Non mi
piacciono i giochetti, signorina” continuò Terry,
sempre calmo. “La cassaforte prego. So che lei conosce la
combinazione.” Singhiozzando, la donna si sollevò
in piedi e premette una serie di tasti.
La cassaforte si aprì istantaneamente ,rivelando al suo
interno un gioiello a forma di uovo d’oro tempestato di vari
preziosi. “Magnifico” commentò Terry
“Veramente magnifico. Passatemi la borsa”
ordinò poi ai suoi . Uno degli uomini armati di mitraglietta
gli lanciò un bordone nero vuoto, che Terry
afferrò al volo. Terry afferrò l'uovo, lo ripose
accuratamente nella borsa e si avviò all’uscita.
“Steven, Rebecca, copriteci le spalle. Bill, Harper, con
me” ordinò poi. Prima di uscire si girò
verso le guardie disarmate e, con un sorriso ironico, le
salutò “E’ stato un piacere fare affari
con voi”
Il sorriso gli morì in volto non appena
attraversò la porta d’entrata. Sospinto
all’indietro da una forza invisibile, il rapinatore cadde a
terra, morto. Una ferita d’arma da fuoco sporcava di rosso il
suo abito nero.
“Ma che cosa-“ commentò Bill, il
più basso e corpulento dei due uomini con la mitraglietta.
“A terra, tutti quanti!” urlò
Steven,l'uomo bruno, lanciandosi dietro il bancone assieme a Rebecca,la
donna bionda mentre Bill e Harper, l'altro uomo armato di mitraglietta,
si posizionavano rapidamente dietro le colonne.
Improvvisamente una voce amplificata da un altoparlante
riecheggiò nel locale. “Sono il tenente Mills del
sesto dipartimento della polizia di Los Angeles. Siete circondati,
uscite dal locale disarmati e con le mani dietro la testa. Avete cinque
minuti per terminare tutto questo in maniera pacifica. Altrimenti,
saremo costretti a fare intervenire i tiratori scelti”
Bill puntò la sua mitraglietta a una delle automobili della
polizia ora visibili nella strada “Beccatevi questa,
porci” sussurrò. Un colpo di pistola alle sue
spalle lo bloccò: Steven aveva sparato a pochi centimetri
dal suo braccio. “Perché?”
urlò Bill, furioso. “Per non farci uccidere
subito, idiota! “ replicò Steven, con lo stesso
tono di voce. “Steven ha ragione, Bill “
commentò Harper, evitando lo sguardo omicida del suo
compagno. “Sarebbe stata una mossa veramente stupida.
Dobbiamo rimanere fermi, almeno per ora “continuò
poi, pensieroso. “Ci serve un-“ Uno squillo del
telefono del locale più vicino alle colonne lo fece
rabbrividire.
Lentamente, sotto gli sguardi sorpresi di Steven, Rebecca e Bill,
Harper raggiunse il telefono e alzò la cornetta.
“Se volete fare un patto-“ iniziò.
“Nessun patto” gli rispose una voce rauca, la voce
di un uomo sulla settantina “Anzi, voglio darti una
informazione gratuita. Ci sono poliziotti sia fuori che dentro questo
negozio.” “Cosa?” urlò Harper,
stupefatto.
“Non urlare, idiota. Capiranno di essere stati scoperti se
strilli come una vecchietta isterica. Comunque tu mi hai capito fin
troppo bene. I tuoi complici sono poliziotti. Steven e Rebecca sono
Steven Campbell, detective e Rebecca Goldman, agente scelto. Del sesto
dipartimento” concluse soddisfatta la voce. “ Che
prove ho che quello che mi dici sia vero?”
sussurrò Harper, sconvolto. “Nessuna che io possa
darti. Ma sono sicuro che troverai un modo per verificarlo da solo. In
ogni caso, perché credi che la polizia sia arrivata qui
così presto, senza nemmeno che nessun allarme fosse
scattato? “ rispose la voce “Usa questa
informazione come meglio credi” concluse poi,
concludendo la conversazione.
UN APPARTAMENTO VICINO ALLA GIOIELLERIA
Un uomo osservava la situazione nella vicina gioielleria
attraverso un binocolo nero. I suoi lineamenti erano in ombra.
“E così comincia” sussurrò a
sé stesso, rimettendo un cellulare nel suo taschino sinistro.
Ritraendosi dalla finestra, l’uomo abbandonò il
binocolo su di una sedia. Un raggio di luce illuminò il suo
taschino destro, svelando un distintivo dorata. Un distintivo della
polizia di Los Angeles, sesto dipartimento.
ALL’INTERNO DELLA GIOLIELLERIA
Harper, ancora sconvolto, stava fissando Steven come se
non lo avesse mai visto prima di quel momento. Sorpreso, Steven lo
fissò a sua volta. “Che ti hanno detto?”
gli chiese. “Cosa vogliono?”
Con uno sguardo indefinibile, Harper sollevò la sua
mitraglietta e la puntò alla testa di Steven.
“Getta la pistola” gli ordinò
freddamente.
“Harper, che diavolo fai? Sei impazzito?” chiese
Bill dalla sua colonna. Rebecca alzò a sua volta la sua
pistola , mirando alla testa di Harper. “Cosa stai facendo?
” urlò.
“Non mi sei mai piaciuto” commentò
Harper “Ma non avrei mai pensato che ci stessi
fregando.” Steven scosse la testa “Non capisco
nulla di quello che stai dicendo” rispose, aggrottando la
fronte . “Abbassa l’arma”
ordinò Rebecca a Harper. “Cosa
succede?-“ chiese di nuovo Bill, perplesso. "E' uno sbirro!"
lo informò Harper.
Approfittando di un attimo di perdita di concentrazione di Harper,
Steven puntò la sua pistola verso la testa di Bill.
“Posiamo le armi, tutti quanti” suggerì.
Lo sguardo di Bill vagava da un volto all’altro.
“Rebecca…Steven… Harper!
Non…cosa…insomma, facciamola finita!”
urlò. Innervosito, Harper urlò nella sua
direzione “Sono tutti e due sbirri, idiota!"
annunciò Harper, digrignando i denti.
“Che-“ commentò Bill, stupito.
“Poliziotti, imbecille. Sbirri. Rebecca e Steven ci hanno
fregato!” “Maledetti maiali”
sussurrò Bill, scioccato “Schifosi
traditori”. ebecca colpì il muro vicino alla sua
testa e rivolse a Bill uno sguardo minaccioso “Lascia la
mitraglietta” gli ordinò.
Steven scosse la testa. “Lasciamo cadere tutti le armi e
ragioniamo” propose. “Non c’è
nulla da ragionare. Siamo in trappola” replicò con
furia Harper. Il piccolo Yorkshire scelse proprio quel momento per
guaire. Nervoso, Bill allungò un calcio
all’animale, che corse fuori dalla porta
d’ingresso. Le pallottole dei tiratori scelti lo colpirono in
pieno, facendo sussultare anche Steven e Rebecca, che si scambiarono
uno sguardo preoccupato.
Per diversi istanti, nessuno osò muoversi. Gocce di sudore
scesero sulla fronte di Bill. Harper digrignava leggermente i denti,
arricciando le labbra. Steven faceva del suo meglio per apparire
impassibile. Rebecca muoveva lentamente il suo sguardo da Harper a
Bill, e da Bill a Harper.
La voce del tenente Mills spezzò la calma innaturale.
“I cinque minuti stanno per scadere. Arrendetevi“
annunciò. “Non spareranno se non usciamo,
vero?” commentò Harper “Non vorranno
uccidere i loro preziosi agenti sotto copertura”
“E’ finita, Harper” disse lentamente
Steven “Siete in trappola.” “Io non
credo” replicò il criminale, sorridendo
leggermente “Abbiamo degli ostaggi, qui. Posso minacciare di
uccidere un ostaggio ogni dieci minuti se non mi lasciano via
libera”
“Sei finito, Harper. Chiunque al tuo posto si sarebbe arreso.
Finchè noi siamo qui, non puoi fare nulla” gli
ricordò Rebecca. “Vero. Ma a questo si
può rimediare…” rispose Harper,
sorridendo e mettendo in mostra i suoi denti candidi.
Con un gesto rapidissimo, il criminale fece uscire dalla sua manica un
lungo coltello che scagliò verso il petto di Rebecca,
aprendo immediatamente il fuoco su Steven.
La donna poliziotto crollò con un gemito, mente il suo
collega si rifugiava dietro il bancone. Le pallottole di Harper e Bill
esplosero vicino alle sue orecchie.
Approfittando di una brevissima pausa dei criminali, che dovevano
ricaricare le loro armi, Steven si alzò in piedi e
centrò Bill alla tempia. Immediatamente dopo si
lanciò su Harper, strappandogli la mitraglietta di mano.
I due rotolarono sul pavimento. Harper morse la mano di Steven e
strisciò sul pavimento, cercando di recuperare la sua arma.
Un calcio del poliziotto glielo impedì. Steven
puntò poi la sua pistola al petto del criminale, ma una
testata di quest’ultimo gli fece perdere la mira.
Harper afferrò la pistola di Steven con forza, cercando di
togliergliela di mano. I due uomini lottarono per l’arma,
finchè Steven non afferrò un pugnale da
esposizione caduto lì vicino. Il criminale glielo tolse con
un manrovescio.
Il poliziotto comunque, grazie a questo diversivo, riuscì a
recuperare il controllo della pistola e sparò tre colpi al
petto di Harper. Con un ultimo sussulto, il criminale cadde
definitivamente a terra, immobile.
Abbandonando la sua arma, Steven corse dalla sua collega, che respirava
a fatica.
“Tieni gli occhi aperti, Rebecca. Ce la farai” la
esortò il suo collega. “Temo…che non
riusciremo a fare…quella cena” commentò
la donna, sorridendo debolmente. “La faremo, invece. Aragoste
e champagne-le migliori del mondo, ricordi?“ le rispose
Steven, teggendole la mano e scrutando la ferita che la sua partner
aveva al petto. Un brutto taglio,sicuramente il polmone era danneggiato.
“Respira piano” la esortò “Non
ti sforzare, e soprattutto non chiudere gli occhi. Me lo
prometti?” “Certo” rispose Rebecca,
sempre sorridendo debolmente. “Ce la farai” promise
Steven. Rebecca annuì debolmente, prima di tossire sangue.
La sua testa d’improvviso cadde di lato, e i suoi occhi si
chiusero. “No…no!” commentò
Steven , scioccato, tentando inutilmente di rianimare la collega.
“No..” sussurrò un ‘ultima
volta, lasciando cadere le sue braccia ungo i fianchi e chinando la
testa.
LOS ANGELES, 24/09/2008
PRIGIONE DELLA CONTEA DI KERN
“Quando potrò vederlo?”
chiese con impazienza un uomo bianco sulla sessantina a un
vice-sceriffo, un giovane ispanico dai folti baffi. “Anche
subito” rispose il vice, squadrando il suo interlocutore da
capo a piedi. Lo giudic più vicino ai settanta che ai
sessanta. Vestito bene, perfino troppo per una visita in prigione,
aveva un’indefinibile aria da ex-poliziotto o ex-militare. O
tutte e due.
“Non sarà un bello spettacolo. Lo abbiamo beccato
ieri sera, fuori da un bar. Ubriaco fradicio, il barista diceva che lo
aveva aggredito. Personalmente non credo che fosse in grado di
aggredire nemmeno un topo, puzzava di alcool peggio di una
cantina”.
“Ubriachezza molesta, quindi?” chiese
l’uomo anziano. “Aggressione”
replicò il vice-sceriffo, scrollando le spalle “Il
giudice era amico del gestore del bar. E’ nella cella
23” “Potrei vederlo da
solo?”domandò il visitatore. “Mi spiace,
ma il parlatorio individuale è attivo solo fino alle cinque.
Dovrò presenziare.”
L’uomo anziano allungò silenziosamente due
biglietti da dieci dollari al vice-sceriffo. Sogghignando, il
poliziotto accettò il denaro “Magari questa volta
chiuderò un occhio” commentò, lisciando
delicatamente le banconote fra le sue dita.
Il visitatore proseguì rapidamente verso la cella. Al suo
interno, un uomo si era raggomitolato sulla branda, la testa contro il
muro.
“Hai fatto davvero una pessima figura ieri, vero,
Steven?” gli chiese l’uomo anziano.
Steven Campbell sporse la testa fra le sbarre. Una barba di tre giorni
gli copriva il mento e i suoi occhi erano vitrei. Era quasi
irriconoscibile, rispetto al poliziotto che era stato solo pochi mesi
prima.“Chi sei?” chiese a bassa voce, quasi
mormorando. “Lasciamo indovinare: non sei un
assicuratore”
“Mi chiamo Daniel Weissman. O Dan, se non vogliamo perdere
tempo” rispose l’uomo anziano “E sono un
amico di tuo padre”
“Fantastico” commentò Steven, furioso,
volgendo la schiena al suo interlocutore “ E ora che hai
visto lo spettacolo del figlio del tuo amico in cella, cosa farai?
Chiami papà che mi mette in castigo? E’ un
po’ tardi, credo.” “So che no vedi tuo
padre da molto, Steven…” continuò
“Dodici anni” lo corresse Steven “Direi
più che da molto, da una vita intera.”
“E’ morto” replicò Dan
“Quattro anni fa”.
Per un attimo ci fu silenzio. “Bene”
commentò sommessamente Steven “Bene. E come mai lo
vengo a sapere solo ora?” “Avevate avuto i vostri
problemi, me ne aveva parlato. Ma mi ha fatto promettere di badare a
te, se ne avessi avuto bisogno” “Non ne ho bisogno.
Addio” rispose laconicamente Steven, sdraiandosi sul letto
della cella.
“Io credo di sì, Steven. So molte cose sul tuo
conto: sette mesi fa sei stato coinvolto in uno scontro che ha ucciso
una tua collega; ti sei dimesso dalla polizia di Los Angeles; hai
iniziato a bere e sei stato arrestato due volte per guida in stato di
ebbrezza, e altre tre per ubriachezza molesta…”
Furioso, Steven diede un pugno alle sbarre della sua cella, facendo
sussultare Dan. “Sono qui per aiutarti, Steven”
specificò quest’ultimo. “Non mi serve il
tuo aiuto…né le tue preziose analisi sulla mia
vita”ribattè Steven.
“Invece hai bisogno di aiuto,Steven. Tremendamente bisogno. E
io posso aiutarti. Dirigo un’ agenzia a Chicago, e ho bisogno
di un dipendente. Ho già pagato la tua cauzione.”
“Non voglio il tuo lavoro, e non puoi obbligarmi ad accettare
“ replicò Steven. “Posso, invece. Ti ho
fatto rilasciare a garanzia di controlli continui. I miei
controlli” “E io che credevo che lo schiavismo
fosse illegale” commentò poi, sferzante Steven.
“La scelta in realtà è tua”
replicò Dan. “Ma riconosco che non hai margini di
trattativa. Se non vieni con me a Chicago, dovrai rimanere qui. E non
c’è futuro per te a Los Angeles. Quanto
passerà prima del tuo prossimo arresto? Cosa speri di
ottenere qui? Ha un senso, questa vita?” concluse, guardando
l’ex-poliziotto dritto negli occhi. Steven non rispose.
“Tornerò qui domani mattina.” Concluse
Dan , allontanandosi a passi lenti della cella. Steven lo
osservò attentamente, senza dire nulla.
FLASHBACK
LOS
ANGELES, 23/01/2008
UFFICI DEL SESTO
DIPARTIMENTO DI POLIZIA
Steven
sedeva alla sua scrivania, senza nulla da fare. Per distrarsi, stava
piegando un foglio di carta.
“Ancora
qui?”gli chiese una voce femminile. Voltandosi, Steven
riconobbe Rebecca, stavolta in uniforme. Si scambiarono un sorriso.
“Mi serviva
del tempo per riavermi dallo shock.” Rispose. Rebecca scosse
la testa, squadrando la targa di metallo sulla scrivania del collega.
“Tu, promosso
a detective" annunciò, in tono falsamente preoccupato
“Dove andremo a finire di questo passo?”
“E’
quello che mi chiedo anche io, agente Goldman” rispose
Steven, imitando il tono scherzosamente tragico di Rebecca.
“Dove andremo mai a finire quando i sottoposti non
organizzano una cena al nuovo capo?”
“Una
cena?” domandò la poliziotta, divertita.
“Con te? Sognatela, bello”
“Guarda che
l’onore sarebbe tutto tuo” rispose Steven
,sogghignando. “Urgh, allora mi toccherà venire.
Spero almeno che il cibo sia buono” commentò
Rebecca.
Dopo un attimo di
silenzio , proseguì più seriamente “Sei
sicuro di volere questa cena proprio ora?” “Non
vedo momento migliore” replicò Steven, sempre in
tono falsamente cerimonioso.
“Sto parlando
sul serio, Steven. Sono passati solo due mesi da Claire
…sicuro che tutto sia a posto?”
Sospirando leggermente,
Steven replicò “No, Rebecca. Non sono
sicuro…ma non posso aspettare più prima di
ricominciare a vivere. Voglio solo una cena, ora, una semplice cena fra
amici. E la spalla non mi fa più male” aggiunse
poi, in tono più allegro. Rebecca si morse leggermente le
labbra, ma non aggiunse nulla.
Si rigirò fra
le mani l’aereo di carta che aveva costruito poco prima. Con
un gesto rapido,lo scagliò nel cestino.
“Bell’atterraggio” commentò
Rebecca.
CHICAGO, 25/09/2008
“Siamo atterrati” esclamò
asciuttamente Dan.
Steven riaprì gli occhi di scatto. Si massaggiò
il mento rasato di fresco e diede un’occhiata
all’ambiente in cui si trovava.
L’aereo su cui i due avevano viaggiato si stava lentamente
svuotando. I passeggeri recuperavano i loro bagagli a mano e si
avviavano verso l’uscita, dove una hostess giovane e carina
li salutava con un sorriso.
“Avrei preferito che mi svegliasse lei”
commentò Steven. “Comprensibile…ma
nella vita non sempre si ottiene ciò che si vuole”
rispose Dan, sorridendo leggermente “Non perdiamo tempo, in
ogni caso. Il mio taxi mi aspetta all’uscita del
terminal.” Steven annuì, alzandosi dal suo posto.
PIU’ TARDI
Il taxi si fermò di fronte ad un edificio
piuttosto basso, per la media di Chicago. Solo quattro piani. Steven
scese rapidamente dall’auto, ammirando la vista con un
sorrisetto sarcastico sulle labbra. Dan lo seguì, osservando
le sue reazioni. Dan, si avvicinò alla porta di ingresso
dell’edificio e premette un campanello.
“Weissman Investigations, discrezione ed efficienza al vostro
servizio. Avete un appuntamento?” rispose meccanicamente una
voce femminile dal citofono . “Jane, sono io”
replicò Dan “Oh, capo, finalmente! Ha portato i
rinforzi?” rispose la voce, più allegra.
“ Il rinforzo, Jane.”
“Uhm…spero che sia un bel biondone
californiano…proprio quello che mi
serve”commentò scherzosa la voce, mentre la porta
si apriva con uno scatto.
Dan invitò Steven ad entrare. Con una smorfia di disappunto,
l’ex-detective lo seguì.
WEISSMAN INVESTIGAZIONI-TERZO PIANO
La porta di ingresso dell’agenzia si
aprì a sua volta di scatto, rivelando a Dan e Steven una
ragazza sulla ventina, bionda, che indossava jeans e una maglietta
rosa. Sorridendo soddisfatta, la ragazza squadrò Steven da
capo a piedi “Beh, capo, non è biondo ma
è passabile” commentò.
“Steven Campbell, Jane Shelby” li
presentò Dan “La mia segretaria. Spero che
possiate lavorare bene insieme” Jane gratificò
Steven di un sorriso gentile e gli porse la mano, che
l’ex-poliziotto strinse con scarsa convinzione.
Un colpo di tosse trattenuto a stento fece girare Dan e Steven verso
l’interno dell’ufficio, da dove un’altra
donna, una mora sui venticinque anni, stava fissando Steven con
disgusto. Il suo tailleur blu scuro era reso ancora più
severo dalla sua posa dura, con le braccia incrociate.
“Patricia Lawford, il nostro avvocato” la
presentò Dan. La donna porse la mano a Steven con fare
professionale, ma in maniera estremamente rigida. Dopo la stretta,
Steven la vide pulirsi la mano sulla gonna. Sogghignando, le rivolse un
inchino ironico, ricambiato da uno sguardo carico d’odio.
Scrutando l’ufficio si soffermò sui quadri alle
pareti, una serie di visioni di Chicago eseguite a carboncino.
Osservò le tende blu, la carta da parati azzurra, e infine
il suo sguardo cadde su una scrivania con il suo nome. Era la stessa
vecchia scrivania del suo ufficio a Los Angeles.
“L’ho fatta trasportare qui perché ti
sentissi a tuo agio” proclamò Dan. “A
mio agio?” sussurrò Steven, furioso, proseguendo
poi ad alta voce “Bella mossa, davvero. Gentile da parte tua
ricordarmi la mia vita quando ancora non faceva schifo. Proprio quello
che volevo dimenticare”.
Dan si morse il labbro inferiore “Ero solo un modo per
aiutarti nel nuovo lavoro” iniziò.
“Credi che sia un gioco? Che cosa è, il Monopoli
del Buon Samaritano? Beh, caro mio, mi spiace dirti che hai
perso” urlò Steven “Ne ho abbastanza
delle tue cretinate” concluse, uscendo dalla porta
dell’ufficio.
Dan afferrò improvvisamente il suo braccio destro.
“Lasciami” gli sibilò in faccia Steven.
“No” replicò Dan, calmo ma fermo.
“Non posso. Non posso lasciare che il figlio di Carl muoia.
Non vengo mai meno alle mie promesse”. “Senti,
vecchio, o mi molli o ti sbatto a terra” “So che
non lo farai” rispose Dan ,fissando Steven senza battere
ciglio.
Per qualche secondo i due rimasero immobili. Poi, lentamente, Steven si
divincolò dalla stretta di Dan . “Non sei mio
padre” sussurrò “E, credimi,
è solo questo il motivo per cui non ho usato le maniere
forti”.
FLASHBACK
LOS ANGELES, 13/05/1996
Un giovane
Steven in uniforme completa strinse il braccio destro attorno al collo
di un uomo sulla cinquantina. “Butta il coltello,
Cummings” gli ordinò.
L’uomo
obbedì immediatamente.
“E questo
ragazzi, è il modo migliore per bloccare un avversario
armato” commentò Steven , raccogliendo il coltello
da terra e porgendolo a Cummings, che lo ringraziò.
“Ringraziamo il vostro insegnante Henry Cummings, che si
è prestato a fare da cattivo” Un applauso
seguì le sue parole. Il pubblico di ragazzini delle
elementari era visibilmente eccitato dalla lotta, e soddisfatto dalla
vittoria del “buono”. “Domande?”
Nessuno rispose, e
Cummings esortò i piccoli a uscire dalla classe.
Soddisfatto, Steven si pulì la fronte dal sudore con un
fazzoletto. “Bella esibizione” gli disse un uomo
sulla quarantina, anche lui in uniforme da poliziotto, sorridendo
mentre entrava nella aula. Aveva un distintivo in un taschino,
intestato a “Carl”, e diverse medaglie appuntate al
petto.
Steven
spalancò gli occhi. “Che cosa ci fai tu,
qui?” domandò seccamente. “Un padre non
può volere vedere il proprio figlio?”
commentò Carl, con un sorriso indefinibile sulle labbra.
“Non tu.” rispose Steven con rabbia “Tu
hai ben altro da fare, di solito. E le tue visite non hanno mai un fine
disinteressato, non prendermi in giro” “In effetti
hai ragione” commentò il padre di Steven,
sorridendo soddisfatto. “Mi trasferisco tra tre giorni. Via
da Los Angeles. Pensavo ti potesse interessare”.
“Dove?” commentò Steven , incredulo.
“Chicago. Pensavo che ti avrebbe fatto piacere,
così non vivrai più sotto
l’”ombra di tuo padre”. Non avrai
più scuse per la tua inefficienza, dovrai cavartela da solo,
finalmente” commentò il poliziotto cinquantenne,
sorridendo.
“Non mi
importa nulla di te come padre, ma, dannazione!, la mamma ha bisogno
del tuo dannato assegno mensile. E’ malata , non
può lavorare. Le servi, io non riesco a mantenerla da
sola!” urlò Steven. “Oh, non
preoccuparti, continuerò a mandarle dei soldi. Pura
curiosità: per “malata” intendi dire che
ha ricominciato a bere?” suggerì sarcasticamente
Carl. Scioccato, Steven non riuscì a trattenere la rabbia e
spezzò un pezzo di gesso nella sua mano destra.
“Non me ne
volere, Steven ,ma devi accorgerti che lei ti sfrutta. Quella donna
è un parassita. Non sa fare nulla, e si rifugia
nell’alcool per non essere costretta a vedersi per come
realmente è. Una volta era una bella donna, e guardala
adesso. Non riuscirebbe nemmeno a fare la “vita”
è conciata troppo male perfino per
quello…”
Il discorso di Carl fu
troncato da un pugno al mento di Steven. Scioccato, Carl si
afferrò il mento. “Vattene. Vai a Chicago, vai
dove diavolo vuoi, ma non farti più vedere. Altrimenti ti
ammazzo”gli sibilò in faccia suo figlio.
Carl , stupefatto,
scosse la testa ed uscì, frastornato dal pugno.
“Mai più” aggiunse Steven.
WEISSMAN INVESTIGATIONS-2008
Scuotendo la testa, Dan mormorò
“Steven, non puoi andartene. La tua libertà
condizionata è vincolata alla mia responsabilità
nei tuoi confronti. Se te ne vai, la mia azienda dovrà
affrontare una causa. E fallirò, probabilmente”
“Il tuo avvocato, Patricia come-si-chiama, ti
salverà in ogni caso, no? Vero, zuccherino?”
chiese sarcasticamente Steven, rivolgendosi a Patricia, che lo
ricambiò con un’occhiata di disprezzo.
Jane, nel frattempo, si era seduta al suo tavolo, scioccata. Rivolse a
Steven uno sguardo stranito.
Steven si divincolò dalla stretta di Dan e scese le scale,
allontanandosi rapidamente.
“Se ne è andato. Signore,mi dispiace dire che
l’avevo previsto” disse Patricia.
“Tornerà” rispose Dan. “Non ha
altra scelta” concluse, chiudendo la porta.
Jane si immerse nel suo lavoro, scuotendo la testa.
VICOLO
Steven si fermò contro il muro, smettendo di
correre. Furioso, diede un pugno conto il cemento.
“Capo, fai meno rumore. Io sto tentando di dormire”
brontolò un barbone che dormiva appoggiato
all’edificio.
Steven lo squadrò. Rapidamente , estrasse una banconota da
dieci dollari e la mostrò al mendicante.
“Prendi questa, OK? E vattene a dormire da un’altra
parte” Il vagabondo annuì e si alzò
rapidamente, afferrando la banconota con avidità.
WEISSMAN INVESTIGATIONS
Mentre Jane stava lavorando al suo computer con uno zelo
esagerato, Patricia tossì, attirando l’attenzione
del suo capo.
“Devo parlare, signore” chiese educatamente
“Fai pure” rispose Dan, chiaramente assorto nei
suoi pensieri. Patricia tossì ancora, accennando a Jane. Dan
annuì. “Jane, puoi andare. Sei libera fino alle
quattro.” “Davvero?” commentò
quest’ultima, stupefatta. “Certo. E non
preoccuparti, non ti detrarrò nulla dalla paga.”
Stupita, ma contenta della piega che le cose avevano preso, Jane si
alzò dalla sua postazione e si avviò alla porta.
“A domani” la salutò Dan.
“Certo,capo” rispose Jane ridacchiando.
Non appena se ne fu andata, Dan si sedette alla sua scrivania e
invitò a gesti Patricia a scegliersi una sedia.
Patricia prese quella di Jane e si accomodò.
“Sapete già come la penso, signore. Quel Campbell
sarà la nostra rovina, se non lo rimandiamo subito dove
merita di stare” esordì.
“Patricia, devi provare a capirlo. Otto mesi fa la sua
partner è morta. E’ ancora sotto shock. In
più , ho sbagliato approccio con lui. Ma non posso lasciarlo
perdere” replicò Dan.
Inspirando profondamente, Patricia commentò “La
morte della sa partner non è una scusa, semmai è
un aggravante. Secondo i rapporti ufficiali, il nostro
“nuovo” acquisto” fece una pausa,
calcando sulle sue ultime parole con disprezzo “ha continuato
a parlare di una misteriosa “telefonata” che
avrebbe rivelato la sua copertura. Ma nessuno ha telefonato a
quell’ora.”
“Io e te sappiamo bene quanto i rapporti ufficiali siano
spesso…imprecisi…” commentò
Dan.
Patricia si morse il labbro inferiore. Effettivamente, doveva
riconoscere che Dan aveva ragione. “Signore, è
comunque un elemento instabile…quanto tempo
passerà prima che sia coinvolto in una rissa?”
chiese a bassa voce.
VICOLO
“Hai soldi?” chiese un altro barbone a
Steven, con una brutalità ingiustificata. Steven,appoggiato
al muro, aprì gli occhi. “Allora, hai
soldi?” chiese un secondo mendicante. Ce ne erano quattro in
tutto, tutti tipi poco raccomandabili.
“Sono a secco” rispose Steven , sorridendo.
“Ma per voi poveracci anche le mie mutande valgono qualcosa,
per cui, sotto. Fatemi fuori…o almeno provateci” .
Sghignazzando, i quattro barboni si avventarono su Steven come un sol
uomo. Rapido come un fulmine, l’ex-poliziotto ruppe il naso
al primo con una sola mossa. L’uomo urlò per il
dolore.
“Sei pazzo!” ululò.
“Aah…dannazione, il mio naso, me l’ha
spezzato! Fatelo a pezzi!” ordinò agli altri.
Uno dei tre barboni ruppe una bottiglia a terra e avanzò
brandendo la bottiglia rotta come una clava. Steven schivò
facilmente i suoi colpi e gli afferrò il braccio con una
mano, torcendoglielo fino a fargli cadere di mano l’arma
improvvisata. Il mendicante bestemmiò dal dolore.
Ruggendo, gli altri due vagabondi si lanciarono su Steven come un solo
uomo. Agilmente,l’ex-poliziotto ruppe un braccio al primo con
un colpo di karaté, quindi sistemò il secondo con
un paio di colpi al torace. Mugolando, l’uomo
scivolò a terra.
Steven agguantò il capo della banda per i capelli e gli
bisbigliò all’orecchio “Penso che
sarebbe meglio farti un giro, non credi?” Il barbone
annuì , spaventato, cercando di pulirsi il naso dolorante
dal sangue. Fece un cenno ai suoi uomini, che si allontanarono
rapidamente, lanciando occhiate spaventate a Steven. L’uomo
rimase a fissarli per qualche secondo, quindi raccolse da terra il suo
portafoglio, caduto dalla sua giacca durante la lotta.
Una fotografia era parzialmente uscita dal borsellino: raffigurava
un’altalena rossa e una ragazza asiatica sui venti anni,
sorridente, seduta con le gambe leggermente sollevate. Steven la
osservò per un secondo,senza dire nulla.
Poi, metodicamente, la ridusse a brandelli, gettandone i pezzi a terra.
Scuotendo la testa, si avviò di nuovo verso
l’edificio che aveva appena lasciato.
Un uomo dal volto anonimo, vestito di nero, notò i suoi
movimenti e, non appena Steven rientrò nel palazzo della
Weissman Investigations, prese un cellulare da una tasca della sua
giacca e digitò un numero. “Tutto come
previsto” annunciò “Accetterà
il lavoro. Possiamo iniziare a liberare la strada che si
troverà a percorrere” concluse, chiudendo la
conversazione.
WEISSMAN INVESTIGATIONS
Sospirando, Steven rientrò
nell’ufficio. “Sia chiaro” disse,
interrompendo la conversazione fra Patricia e Dan “che non
appena la mia libertà vigilata scadrà, io me ne
andrò e non mi vedrai più. Ma per ora, un posto
vale l’altro”
“E’ un tuo diritto” rispose Dan
gentilmente. Patricia sembrava paralizzata dal disappunto.
“Scusatemi” disse poi alzandosi e dirigendosi
rapidamente verso la porta d’ingresso. “Signore, a
domani” salutò Dan.
Nell’uscire dalla porta si trovò di fronte Steven.
Inspirando, gli rivolse la parola bruscamente
“Spostati” “Per favore?”
suggerì Steven. Lo sguardo di Patricia dardeggiò
odio puro. “Se fosse per me, ti avrei lasciato marcire in
prigione. Sei solo un mezzo criminale ingrato”
sibilò.
“Se avessi saputo di trovare una compagnia così
piacevole qui, sarei volentieri rimasto in prigione” rispose
Steven sogghignando e facendosi finalmente da parte.
Dan rivolse a Steven uno sguardo severo, a cui
l’ex-poliziotto replicò con un inchino ironico.
“Le mie scuse, principessa” disse a Patricia. La
donna lasciò la stanza senza voltarsi.
“Guardami” gli disse con voce dura Dan
“Se vuoi ancora lavorare qui, dovrai smetterla con queste
battutine”
“Come vuole il boss” replicò Steven.
“E adesso , potresti dirmi dove potrai andare a dormire
stanotte?”
“Ti accompagnerà Jane più
tardi” rispose Dan “Non sarebbe una cattiva idea,
nel frattempo, occuparsi del tuo primo caso” Gli porse una
busta rigonfia.
“Che cosa è?” chiese Steven.
“Sparizione. Una ragazza di ventitrè anni, Paula
Cantrell. Un caso di alcuni mesi fa, probabilmente non scoprirai nulla
, ma i genitori ci tengono” spiegò Dan.
Steven aprì la busta e scrutò l’insieme
di fotografie e documenti all’interno. “Ci
vorrà tempo” mormorò “Certo
non posso fare molto questo pomeriggio”.
“Prenditi tutto il tempo necessario. Jane
ritornerà alle quattro, puoi sempre rivolgerti a lei se ne
hai bisogno”.
Annuendo, Steven scorse rapidamente le pagine dei rapporti sulla
scomparsa.
APPARTAMENTO DI PATRICIA LAWFORD
La pesante porta blindata si chiuse alle spalle di
Patricia, che girò rapidamente la chiave nella serratura,
spostando anche un chiavistello per rendere impossibile a chiunque
anche solo tentare di entrare in casa sua.
Sospirando, la ragazza si sciolse i capelli e si tolse scarpe e
orecchini. Superò l’atrio dipinto di blu ed
entrò in salotto. La splendida sala dalle pareti candide era
ordinatissima: non un mobile fuori posto, non una traccia di polvere.
Un telefono bianco appoggiato su una elegante plafoniera di mogano nero
emetteva una luce rossa intermittente.
Con un espressione di curiosità, Patricia si
avvicinò all’apparecchio e premette un tasto. Dopo
un rapido click, dall’altoparlante della segreteria
telefonica una voce giunse una voce femminile squillante.
“Ciao Pat, qui Mandy! Sono di nuovo in città. Le
Bermuda non sono un granché, dopotutto. Beh, chiami subito,
quando torni. Mi sei mancata- ma quando ti decidi a fare una vacanza
anche tu? Beh, comunque ci sentiamo!”.
Sorridendo, Patricia digitò un numero. Dopo alcuni secondi
lasciò a sua volta un messaggio su una segreteria telefonica
“Ciao Mandy, qui Patricia (non chiamarmi Pat…).
Domani da Dante’s Hack, d’accordo?”.
Rimettendo la cornetta al suo posto, si avviò verso il bagno.
In bagno, accese una piccola radio e si tolse la calze. Accese la
doccia, e mentre una rilassante romanza si sprigionava dalle casse,
fece scorrere l’acqua e tirò le tende.
In salotto si udì un piccolo schianto, seguito da un tonfo.
Patricia, già nella doccia, senza uscirne chiuse
l’acqua, afferrò un accappatoio e, uscita dalla
doccia, aprì rapidamente un cassetto e ne estrasse una
pistola. Facendo scattare il caricatore, ritornò nel salotto
tenendo l’arma ad altezza d’uomo.
Entrata nella stanza, si accorse che un pacchetto aveva rotto una
finestra ed era atterrato vicino al telefono. Patricia
abbassò la pistola e sollevò lentamente il
pacchetto. Una scritta sulla carta che lo ricopriva diceva
“Guardami”. Incuriosita, Patricia
strappò la carta e aprì il pacchetto, scoprendo
una cassetta intitolata “Svegliati, Alice”.
Scuotendo leggermente la testa, Patricia si avviò verso il
suo videoregistratore, inserì la cassetta, accese la
televisione e premette il pulsante di avvio.
Mentre il video le scorreva sotto gli occhi, e l’audio (un
lungo concerto di spari e urla, seguito da un mormorio quasi
impercettibile) rimbombava nella stanza, il volto di Patricia si
trasformò in una maschera di orrore “Oh mio
Dio” commentò sconvolta “Oh mio
Dio”.
WEISSMAN INVESTIGATIONS-18:00
Jane si alzò dal suo tavolo di lavoro,
avvicinandosi con aria insicura alla scrivania di Steven.
“Dovremmo chiudere” mormorò.
“Un momento soltanto” rispose tranquillamente
Steven “Devo controllare l’ ultimo
rapporto”
Jane aprì gli occhi per lo stupore. Sogghignando leggermente
alla sua reazione, Steven commentò “Non mordo, non
ad ogni ora del giorno, almeno. E non c’è molto
altro che io possa fare se non questo lavoro”. Concluse
stiracchiandosi sulla sedia. “Allora?” chiese poi,
con un accenno di impazienza.
“Allora cosa?” domandò Jane,
sinceramente stupita. “Dove devi scortarmi?”
domandò Steven.
“Scortarti?.. Ah, certo, il tuo appartamento! Me ne ero quasi
dimenticata” rispose Jane, battendosi una mano sulla fronte
“Potrei anche dormire in ufficio, ma non sarebbe una bella
pubblicità per la ditta. La gente ama gli investigatori
svegli e attivi, un babbuino addormentato alla sua scrivania non
è in” commentò Steven, facendo
sorridere debolmente Jane.
“Andiamo” tagliò corto l’uomo,
iniziando a scendere rapidamente le scale. Jane lo seguì con
un passo incerto .
PIU’ TARDI
Jane e Steven camminavano fianco a fianco. La donna, di
tanto in tanto, scoccava occhiate sospettose al suo accompagnatore.
“Buffo, l’ultima volta che ho controllato non avevo
tre teste” sbottò d’improvviso
quest’ultimo.
“Cosa?” chiese Jane, scuotendo la testa.
“Mi stavo chiedendo come mai tu continuassi a guardarmi in
quel modo.” rispose Steven “A meno che non sia solo
perché ti piace quello che vedi” concluse Steven,i
n tono leggermente canzonatorio.
Jane fece una finta smorfia indignata “Come ti
permetti?” scherzò “Sono una donna
onesta!”
Steven represse a sua volta una risatina. “In
realtà” continuò Jane più
seriamente “La tua scenata mi ha fatto quasi paura”
“Non c’era niente di cui aver paura”
rispose Steven “Al limite avrei strangolato il capo”
“Oh , non dovresti davvero! Dan è una persona
meravigliosa, aiuta sempre tutti. Ha aiutato anche me”
iniziò Jane prima di ritrovarsi di fronte a un edificio
grigio-scuro. “Eccoci” concluse “Numero
47. Terzo piano, scala a destra.” concluse Jane,porgendo a
Steven una piccola chiave.
“Perfetto. A domani” salutò Steven.
“Un attimo!” commentò rapidamente Jane.
Steven verso di lei. “E’ presto…non
resti fuori a fare quattro chiacchere? “suggerì
Jane, con un tono di discreto interesse non solo professionale.
“Un’altra volta, magari” rispose Steven,
salutando la segretaria ed entrando rapidamente nel’edificio
.Con un a leggera smorfia di disappunto,Jane salutò a sua
volta.
OTTAVO DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI CHICAGO- IL GIORNO SEGUENTE
Nella folla di agenti impegnati a compilare rapporti,
scortare i fermati o semplicemente chiaccherare sorseggiando
caffé, un agente basso e occhialuto sulla trentina si faceva
largo con difficoltà, continuando a guardare il suo orologio
e cercando di raggiungere al più presto il suo ufficio.
“Stavolta mi uccide” si disse l’agente
“stavolta mi uccide”. All' improvviso
l’agente si scontrò con un collega che stava
trasportando uno schedario. Le pagine volarono dappertutto.
“Dannazione, Frank, perché non guardi dove diavolo
vai?” gli chiese acidamente il collega, raccogliendo i fogli
da terra uno a uno. “Oh, Davis, sono in ritardo e senza
cravatta. E’successo che ieri sera George mi ha chiamato per
un caso di furto, arrivo lì e non c’è
nessuno. Allora aspetto tre ore e non arriva
nessuno…”
“Questa storia ha una fine?” chiese Davis.
“Ehi, ci stavo arrivando! Lasciami dargli un po’ di
suspance! Allora, ti dicevo, stavo aspettando e…”
“Agente Beaumont. Agente Davis. Che cosa state facendo
qui?” domandò bruscamente un uomo afro-americano
sulla cinquantina, squadrando i due.
Frank abbassò la testa con aria di scusa
“Luogotenente Bronson” lo salutò
“Ehm, stavo cercando di giustificare il mio ritardo.
L’agente George Sands ieri sera mi ha chiamato e-”
.”Basta così” lo interruppe il suo
superiore. “Davis, torni al suo posto. Beaumont, è
il terzo ritardo consecutivo in tre giorni. E dove è finita
la sua cravatta?” “E’ una lunga storia,
signore. E’ successo che stamattina in bagno, mi è
caduto l’anello di Batman nel tubo di scarico del lavandino,
e non avevo niente per riprenderlo, allora-”
Bronson scosse la testa “Beaumont, lei è il
peggiore agente di questo dipartimento”
“Sissignore” rispose umilmente Frank. “Il
peggiore della città, probabilmente”
continuò il suo superiore. “Sissignore”
rispose sempre Frank. “E la smetta di ripetere
sissignore”
”Sissign- Va bene,Luogotenente” replicò
rapidamente Frank. Alzando gli occhi al cielo, Bronson porse un faldone
al suo sottoposto “Questo è il tuo incarico per
oggi” Frank scorse le pagine, che contenevano varie
fotografie di una ragazza sui venti anni dai capelli rossicci e gli
occhi azzurri, assieme a una fitta serie di annotazioni e tabelle
orarie “La sparizione Cantrell?” rispose,
stupefatto.
“Non l’avevamo archiviata mesi fa,
signore?”
“Certo” rispose Bronson alzando di nuovo gli occhi
al cielo “Ma un detective privato è arrivato qui
oggi, con la richiesta di visionare i rapporti su questo caso per conto
dei genitori della ragazza sparita.” “Un detective
privato? Brutta razza…” rispose Frank, scuotendo
la testa. “In ogni caso, ha tutti i diritti di visionare il
materiale. Autorizzazione del procuratore e tutto il resto”
lo informò Bronson.
“Mi scusi, signore, ma il caso non era di competenza
dell’ FBI ? Mi ricordo che quel federale aveva sequestrato
tutto..” commentò Frank, aggrottando la fronte
“A quanto pare,no” commentò ironicamente
il suo superiore. “Il tuo incarico è assistere
l’investigatore e tentare di evitare fughe di notizie su
argomenti collegati all’indagine ma non essenziali per i
genitori della scomparsa…chiaro?”
“Farò del mio meglio, signore”
commentò felice Frank. Bronson lo fissò
preoccupato per qualche secondo, poi gli fece cenno di allontanarsi
“E’ tutto” concluse. Frank continuava a
leggere il rapporto. “Ho detto è tutto”
tuonò Bronson. “Certo, signore, vado”
rispose Frank, avviandosi a passi rapidi verso l’atrio
principale.
Attraversando gli uffici notò un paio di vagabondi fermati
di recente: avevano tutti e due cicatrici al naso e al mento.
Scrollando le spalle, Frank si avviò verso l’unica
persone nell’atrio priva di divisa: Steven.
“Salve. Sono l’agente Frank Beaumont. Sono qui per
aiutarla” si presentò, porgendo la mano al
detective privato, che la strinse senza molta convinzione. "Steven
Campbell" si presentò a sua volta.“Allora, da dove
iniziamo?” cominciò Frank allegramente.
Aggrottando le sopracciglia, Steven si schiarì la gola
“Paula Cantrell” disse “Giovane. Bella.
Scomparsa” concluse. “Wow, questa si chiama
sintesi” commentò Frank “Ehm…
sì, concentriamoci all’essenziale, vero?
Allora…”
Frank stava sfogliando il suo faldone , scombinandone le pagine , senza
trovare nulla di significativo. “Ha finito?” gli
chiese Steven, spazientito. “Magari potremmo controllare
l’archivio informatico…che ne dice?”
suggerì con un lieve tono di scherno. Frank
sollevò la testa dalle sue carte e si sbatté una
mano sulla fronte “Ma certo, ovvio…come mai non ci
ho pensato?” si disse.
“Chissà” commentò Steven ,
con del sarcasmo che andò completamente perso. Frank si
avvicinò ad un computer acceso e digitò la sua
password, cercando di nascondere lo schermo a Steven come meglio
poteva. Steven sorrise leggermente.
“Allora…” annunciò Frank
pochi secondi dopo “ecco qua. La scomparsa è stata
denunciata il 15 di febbraio, di quest’anno
ovviamente…niente precedenti…indizi: pochini, le
solite tre false segnalazioni…ecco, è
tutto” concluse. “Anche voi non scherzate in quanto
a sintesi” commentò Steven ironicamente.
“
“Signor Campbell, sa quanti casi di sparizione ci sono ogni
anno in questa città? Beh, a dire la verità
neanche io…ma sono tanti, davvero tanti. E senza indizi,
così, tirando alla cieca…” Frank
allargò le braccia.
“Vero.” Commentò Steven a denti stretti
“Ma questo non mi aiuta molto, no? Non posso certo andare dai
genitori della ragazza e dire “Ah, scusateci, ci sono tanti,
talmente tanti casi di sparizione a Chicago, che non ci siamo mossi
più di tanto”.”
“Giusto…” rispose Frank, mentre le sue
guance arrossivano “Non ha qualcosa almeno sui
testimoni?” gli chiese Steven, tamburellando con impazienza
sulla sua sedia. “Sicuro! Ehi, ma non ci vuole
un’autorizzazione del procuratore per queste
informazioni?” domandò preoccupato Frank.
“Stranamente, ho questa autorizzazione…”
commentò Steven , mostrandogliela.
“Ah” commentò Frank grattandosi la
testa. Digitò una nuova password. “Solo questo: la
sera prima di scomparire la ragazza era stata ospite di amici: i Polk.
Oliver e Tanis, 1344 Lexington Drive”
“Grazie per l’aiuto” commentò
Steven , avviandosi all’uscita. Frank lo rincorse
“Aspetti!” gridò.
Steven si voltò, irritato “Cosa
c’è?” “Pensava veramente che
la avrei lasciata indagare senza controlli? Ho il dovere di impedire
violazioni della privacy. Verrò con lei!”
“No” rispose seccamente Steven.
“Sì” insistette Frank
“Altrimenti dirò al mio capo che lei ha una
licenza irregolare” “Ma non è
vero!” sbottò Steven. “Se mi porta con
lei non dovrà spiegare nulla, e non perderà
tempo…” suggerì Frank, sorridendo.
“Vieni,allora.” Acconsentì malvolentieri
Steven “ma mettiamo bene in chiaro due cose: uno,sta zitto.
Due,non parlare. Chiaro?” “Cristallino”
rispose Frank soddisfatto.
APPARTAMENTO DI PATRICIA LAWFORD
Il telefono squillò rumorosamente. Patricia si
precipitò a sollevare la cornetta.
“Mandy?” chiese, incerta. “Non proprio.
Ti è piaciuta la cassetta?” le rispose una voce
roca maschile dall’accento messicano. Sentendola, Patricia
rabbrividì.
“Come…come hai fatto ad ottenere questo
numero?” urlò “Chi te l’ha
dato?” “Un uccellino” rispose soddisfatta
la voce. “Sai, quelli tutti colorati che
cinguettano…” proseguì.
“Sentimi, brutto porco, ho chiuso con te. Sono fuori da anni.
Non mi ricatterai più , hai capito? Sono fuori!”
continuò a urlare Patricia, mentre il suo viso si riempiva
di lacrime.
“Nessuno è mai veramente fuori, Pat. E
chissà cosa penseranno i vicini. L’avvocato
Lawford, quella donna così distinta, che urla al telefono
come un’ossessa…che caduta di stile. Non
è da te” proseguì soddisfatta la voce.
“A proposito, Patricia Lawford è un nome
splendido, ma io potrei chiamarti ancora Pat? Mi farebbe
piacere.” concluse, in tono falsamente cordiale.
“Cosa vuoi?” chiese bruscamente Patricia
“Chi ti manda stavolta? Jimenez o Starski? Puoi dire a tutti
e due ti andare all’inferno” “Oh, Pat,
che ragazza maleducata sei diventata. Non si fa, non si fa proprio,
cattiva. I vecchi amici vanno trattati bene, altrimenti si
arrabbiano” replicò la voce. “ E i nuovi
amici vanno trattati anche meglio…”
“Nuovi amici?” chiese Patricia, sarcastica
“Che cosa diavolo vuoi dire?”
“Oh, non preoccuparti, Pat, lo saprai presto. Per adesso,
tanti saluti, chica” concluse l’uomo al telefono.
Furiosa, Patricia scagliò la cornetta contro il muro.
1344, LEXINGTON DRIVE
Un’automobile presa a noleggio si
fermò davanti al numero 1344 di Lexington Drive, una
semplice villetta a schiera come migliaia di altre.
Steven e Frank ne scesero, e si avvicinarono alla porta principale.
“Ricorda…” sussurrò Steven
“Certo: tu parli, io sto zitto.” “Ottimo.
E già che ci sei, non guardare nemmeno.”
Steven suonò il campanello, attenendo pazientemente per una
risposta che tardava ad arrivare. Aggrottando le sopracciglia,
suonò di nuovo. Ancora, nessuna risposta. “Forse
sono fuori” suggerì Frank. “Se sono
fuori, come mai la porta è aperta?”
obiettò Steven. “Aperta?” chiese
stupefatto Frank, mentre Steven, annuendo, la spalancava.
“Ehi! Cercate i Polk?” chiese una voce alle loro
spalle. Voltandosi i due si trovarono di fronte un uomo sulla
quarantina, che indossava un paio di jeans sudici e una camicia
hawaiana che aveva sicuramente visto giorni migliori. Gli occhi
dell’uomo mostravano un misto di curiosità e
sospetto.
“Poliziotti?” domandò bruscamente.
“Più o meno” rispose Steven.
“Beh, gente, potete anche tornare a casa se volevate parlare
con i Polk. Con le tombe non si parla.” concluse, con una
risatina.
“Morti? Come e quando?” chiese Steven rapidamente.
“Un incidente, un mese fa. Un camion ha centrato in peno la
loro automobile sulla Mulholland Drive tre settimane fa. Poveracci,
così giovani. Quello del camion non l’hanno preso,
se l’è filata. Ci pensate, i pazzi che girano per
le strade?” rispose l’uomo.
“Per caso, prima della loro morte, è mai successo
qualcosa di insolito ai Polk?” domandò Steven,
mentre Frank continuava a riaprire e chiudere la porta, scuotendo la
testa. “Mi lasci pensare…ma certo, intende quella
ragazza, Paula, quella che avevano ospitato prima che scomparisse,
vero?” chiese l’uomo, grattandosi la testa.
“Precisamente” “Beh,
c’è poco da dire su quello. Per me, la ragazza se
ne è volata a Hollywood a fare l’attricetta, o
magari a Las Vegas a fare la ballerina” l’uomo
sghignazzò “Era uno schianto, e non aveva proprio
l’aria di una di quelle destinate a marcire qui. Ma voi siete
proprio sbirri…quante domande…”
“La ringrazio della collaborazione”
tagliò corto Steven. “Se ha qualcosa
d’altro da dormi, mi chiami qui” aggiunse,
porgendogli un biglietto da visita. Annuendo, l’uomo si
avviò in un vicolo vicino.
“Perché l’hai lasciato
andare?”sbottò Frank “E’ un
testimone!” “E’ un gran
bugiardo” replicò Steven “Non hai notato
che il vialetto è perfettamente pulito? E la porta aperta?
Altro che incidente un mese fa” concluse “Quindi la
cosa migliore è fargli credere che abbiamo abboccato e
pedinarlo.”
“Ehi…è vero!”
commentò Frank, stupito. “Tu resti qui”
gli comunicò Steven in tono asciutto.
“Cosa?” “Secondo te, perché la
porta è aperta? Controlla all’interno e chiama la
tua centrale. Anzi, diciamo che prima chiami la tua centrale e poi
controlli.” Concluse Steven, seguendo la via che
l’uomo aveva già percorso.
Sorpreso, Frank rimase immobile. Mentre Steven si allontanava si
riscosse dallo stupore. Afferrò il cellulare e
iniziò a digitare un numero. Improvvisamente si
bloccò: la curiosità aveva avuto il sopravvento.
Aprì la porta ed entro in casa Polk.
WEISSMAN INVESTIGATIONS
Lo squillo del suo cellulare fece alzare la testa a Dan
Weissman. Vagamente seccato,rispose alla chiamata, proveniente da un
numero privato.
“Pronto, chi sei?” iniziò , con voce
ferma. “Oh, capo, meno male che ha risposto! Sono rimasta
bloccata alla biblioteca pubblica .Questa città è
un tale caos!” rispose la voce di Jane. “La
biblioteca?” chiese Dan, leggermente stupito.
“Sì, Steven mi ha chiesto di cercare dati su una
sparizione, un nostro caso. Che tipo, vero capo? Pensavo se ne sarebbe
andato, dopo quella scenata, e invece si è messo sotto con
il lavoro…” “Che sparizione?”
tagliò corto Dan. “Paula Cantrell”
replicò Jane “il caso con priorità
assoluta, si ricorda…capo, è ancora in
linea?” chiese poi, preoccupata.
Dan aveva aperto un cassetto e stava fissando una fotografia che
raffigurava tre uomini in divisa: Carl (il padre di Steven) , Dan
stesso e un terzo uomo brizzolato che portava un paio di occhiali
spessi. Dan sembrava assorto nei suoi pensieri, ma dopo un attimo
replicò “Tutto bene, Jane. Sto solo diventando
vecchio. Torna in ufficio al più presto.”
“Va bene, boss” concluse Jane laconicamente.
Appoggiando il cellulare sul tavolo, Dan sospirò.
“La vita di tuo figlio è in pericolo per colpa
mia. Potrai mai perdonarmi?” chiese alla fotografia di Carl.
“Ho dovuto farlo…ma ti prometto che tuo figlio
rimarrà vivo. Farò di tutto perché
questo succeda” concluse, sussurrando.
CASA POLK
“C’è nessuno?”
chiese Frank con voce incerta, aprendo la porta della cucina. Nessun
rispose, ma il poliziotto notò immediatamente le due tazze
appoggiate sul tavolo, e la scatola di cereali rovesciata a terra.
Grattandosi la testa e scuotendo le spalle, si sedette su una seggiola
di legno vicino al tavolo.
“Mah..” mormorò., appoggiando il mento
sul gomito “Che cavolo è successo qui?”
si chiese. Scuotendo la testa, iniziò a dondolarsi sulla
sedia. D’improvviso perse l’equilibrio e cadde,
picchiando la schiena a terra. “Dannate sedie!”
imprecò da terra, prima di accorgersi di un sacco informe
sotto il tavolo. Con un lampo di curiosità negli occhi,
strisciò sotto il tavolo e afferrò il sacco.
“Quanto pesa” si lamentò, trascinandolo
fuori. Una volta uscito da sotto il tavolo, aprì il sacco,
tentando di rovesciarne il contenuto sul pavimento,senza riuscirci.
Sbuffando, decise di dare un’occhiata all’interno.
Una vista orribile si presentò ai suoi occhi: il sacco
conteneva il corpo senza vita di un giovane uomo bruno. Dalla gola
tagliata dell’uomo scendevano solo alcune gocce di sangue.
Con un gemito, Frank abbandonò il sacco e aprì la
porta del bagno. Ansimando pesantemente, si spruzzò
dell’acqua in faccia. Un rivolo rosso dalla doccia
risvegliò il suo orrore. Tendendosi una mano sulla bocca,
Frank aprì le tende della doccia.
Adagiata con la testa a terra c’era una donna bruna sulla
ventina, morta. Anche lei presentava un taglio alla gola da cui usciva
solo una riga di sangue.
Urlando di nuovo, Frank uscì dal bagno e si
precipitò attraverso la porta sul retro, anche essa aperta.
VICOLO
Steven seguiva l’uomo dai jeans sporchi con
circospezione, tentando di non farsi notare. L’uomo
svoltò a destra in una strada segnalata come senza uscita.
Aggrottando la fronte, Steven decise di passare oltre per non
insospettirlo, nel caso si girasse a controllare.
Lo scatto secco di un grilletto lo fece bloccare. “Stai
fermo.” gli ordinò un uomo che portava un
passamontagna, puntandogli un fucile alla testa. “Ti credi
furbo, vero? “ commentò “Non lo sei,
proprio per nulla. Facevi meglio a credere alla storiella
dell’incidente” concluse. “E getta la tua
pistola “ ordinò.
Lentamente, Steven estraette la sua pistola dalla fondina ascellare.
“A terra, ho detto!” ordinò bruscamente
l’uomo con il fucile.
Steven lanciò la pistola con forza contro di lui, colpendolo
alla testa. Barcollando, l’uomo abbandonò il
fucile. Steven glielo strappò di mano, prima di colpirlo con
forza al torace con un calcio. Mugolando, l’uomo con il
passamontagna cadde a terra.
Puntando il fucile contro l’uomo a terra, Steven lo
fissò attentamente. “Le parti si sono invertite, a
quanto pare” commentò “Credo che tu
abbia molte storie interessanti da raccontarmi”
continuò.
Proprio in quel momento un nuovo rumore metallico lo sorprese.
D’istinto, l’ex-poliziotto si lanciò a
terra, mentre l’uomo dai jeans sporchi sbucava
dall’angolo della strada senza uscita, puntando a sua volta
un’arma alla testa di Steven. “Butta il
fucile” gli ordinò energicamente.
Con un movimento rapido Steven fece saltare l’arma dalle mani
dell’uomo dai jeans sporchi, usando il fucile come una clava.
Stupefatto, ql'uomo rimase immobile per un secondo di troppo,
permettendo a Steven di colpirlo di nuovo, questa volta alla testa.
Due mani robuste immobilizzarono le braccia di Steven: l’uomo
con il passamontagna lo aveva afferrato alle spalle e tentava di
bloccarlo. L'ex-ploiziotto rispose assestandogli una testata che fece
perdere presa al criminale. Il criminale in jean sporchi, tuttavia,
aveva recuperato la sua arma e si avvicinava rapidamente. Steven lo
caricò al torace, sbattendolo a terra.
L’uomo si difese con il calcio della pistola. Scuotendo la
testa, l’uomo con il passamontagna si lanciò
sull’ex-poliziotto, ricevendo a sua volta un calcio nello
stinco destro.
Steven si rimise in piedi rapidamente. Adocchiando la sua pistola, si
lanciò di scatto a riprenderla, ma l’uomo con il
passamontagna, intuendo la sua mossa, la calciò lontano.
D’improvviso il detective si trovò a sputare
sangue: l’uomo dai jeans sporchi lo avevo colpito alle spalle
con tubo di ferro.
Steven crollò a terra, mentre l’uomo dal
passamontagna gli assestava un calcio. Sorridendo, l’uomo dai
jeans sporchi fissò il suo alleato. “Non sprecare
tempo a dargli calci ora” commentò
“Gliene potrai dare quanti ne vorrai quando lo porteremo al
campo base”. Annuendo, l’uomo dal passamontagna
raccolse la pistola del detective da terra.
L’improvviso rumore di un' automobile fece sobbalzare i due
criminali. Era Frank, alla guida dell’auto noleggiata da
Steven. Il poliziotto sembrava puntare direttamente sui due.
L’uomo dai jeans sporchi si tuffò nella strada
senza uscita, mente il criminale con il passamontagna puntava il fucile
contro l’automobile in avvicinamento.
D’improvviso, Steven lo spedì a terra con uno
sgambetto ,afferrando la sua gamba destra. L’uomo si
scrollò dalla presa e fuggì in un altro vicolo,
abbandonando la sua arma a terra.
Steven si alzò in piedi, alzando le braccia.
L’automobile si fermò a pochi centimetri dal suo
corpo.
“Miseria!” esclamò Frank, stupefatto,
uscendo dalla portiera destra dopo avere fermato l’auto.
“Sei conciato da fare schifo, amico!” disse a
Steven, che sorrise debolmente. “Seguilo”
sussurrò Steven al compagno. “L’uomo dai
jeans sporchi, di là!” aggiunse con impazienza
alla vista del viso stupito del poliziotto.
Frank si voltò verso la strada senza uscita , ma il
criminale era scomparso senza lasciare traccia. Probabilmente aveva
scavalcato il muro alla fine del vicolo.
“Sparito… ” commentò a
Steven. “Come hai fatto a trovarmi?” chiese
quest’ultimo? “Sono uscito dalla casa e non ti ho
visto. Poi ho sentito dei rumori…” “E
come mai sei uscito dalla casa?” domandò con voce
flebile Steven
”Tieniti forte: ci sono due tipi morti là
dentro!” riferì Frank,stupefatto, a Steven .
“Me lo aspettavo. Devono essere i Polk. L’unica
parte vera delle balle di quell’uomo era il fatto che fossero
morti.” mormorò quest’ultimo
“Ehi…ma tu sanguinando! Ti serve un
medico!” constatò Frank.“Brillante
deduzione, agente Beaumont!” commentò Steven
debolmente, con appena un filo di sarcasmo. “Hai allertato la
tua centrale?” aggiunse con un filo di voce.
“Oh, cavolo, me lo sono dimenticato!”
esclamò Frank, sbattendosi la mano sulla fronte e afferrando
il suo cellulare. “Scarico” commentò
,affranto. “Ti porto in ospedale”
annunciò a Steven, che scosse la testa leggermente.
“Usa il mio” propose a Frank, passandogli il suo
cellulare.
Annuendo, Frank digitò il numero della centrale.
“Qui agente Beaumont, numero di matricola- sei tu, Davis?
Devo denunciare un delitto. Duplice
omicidio!”annunciò, sovraeccitato.
“Cosa? No, non è uno scherzo come quando ho detto
di aver visto Michael Jackson assassinato in un motel!”
continuò, con rabbia. “1344 Lexington Drive. E
fate presto!” concluse.
PIU’ TARDI
“Nulla?” chiese un sergente di polizia
sulla trentina “Nulla. Zero. Nada. Come preferisci”
annunciò un agente ventenne, scuotendo la testa.
“Pulita come un cristallo”
“Beaumont, chi cavolo ti ha detto che qui c’erano
due cadaveri?” sbottò il sergente.
“E’ tutto a posto. Non c’è
l’ombra di un cadavere là dentro”
“Ma il ho visti!” replicò Frank, furioso
“Devono esserci, non se saranno volati via!”
Sergente ed agente si scambiarono un’occhiata significativa.
“Dovremo farti rapporto, se insisti con queste
buffonate” tagliò corto l’agente.
Stupefatto, Frank stava per rientrare nella casa dei Polk per un
sopralluogo più approfondito, quando Steven
afferrò il suo braccio, scuotendo la testa
“Inutile cercare, manda i tuoi colleghi a casa. Quelli che
abbiamo inseguito servivano a distrarci mentre qualcuno di sveglio
ripuliva il locale.”
“Ma come cavolo facevano a sapere che saremmo arrivati noi?
E’ come ci avessero aspettato..” si
domandò Frank.
“Bella domanda…davvero una bella
domanda…” rimuginò Steven, pensieroso.
“Non lo so: ma posso prometterti una cosa. Mi hanno quasi
ucciso, e per quanto la mia vita faccia schifo, non è
così che vorrei morire. Da questo momento in poi, il caso si
è fatto parecchio personale. Scoprirò ogni cosa
sul conto di chi è responsabile di tutto questo. E il giorno
in cui sarà in mano nostra…farò in
modo che se ne ricordi per sempre” concluse poi a bassa voce,
fissando il suo sguardo sul sole che stava tramontando nel Lago
Michigan.
STANZA BUIA
Un uomo dai lineamenti in ombra giocherellava con un distintivo del
sesto dipartimento della Polizia di Los Angeles, identico a quello
della “Voce” che aveva creato l’incidente
della rapina alla gioielleria Webster & Sands. La scarsa luce
che filtrava dalla finestra alle sue spalle creava strani riflessi.
D’improvviso, la porta della stanza si aprì. Un
uomo dal volto insignificante fece il suo ingresso.
“Ha preso contatto, signore. Tutto si è svolto
nella maniera migliore per il nostro piano”
annunciò.
“Ne ero certo” rispose l’uomo
seduto,confermando con il suo timbro rauco di essere realmente la Voce.
Dopo un attimo di meditazione, si alzò in piedi.
Il suo volto uscì dalle tenebre. Si trattava del terzo uomo
nella fotografia di Dan. Portava ancora gli occhiali spessi con cui
appariva nella vecchia immagine. Sorridendo, se li tolse e
iniziò a pulirli.
“Prepariamoci alla seconda fase” ordinò
al suo sottoposto. L’uomo annuì. “Ogni
contatto è stato attivato” confermò al
suo capo.
“Perfetto” commentò
quest’ultimo, con un sorriso soddisfatto
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