CAPITOLO II L'indagine continua
STRADA BUIA
Il paesaggio spettrale della strada vuota e male illuminata era avvolto
in una calma inquietante. Il silenzio fu spezzato da un rapido
ticchettare di tacchi. Una giovane donna molto truccata e vestita in
maniera appariscente svoltò l’angolo, ansimando.
Per qualche secondo si fermò, terrorizzata e ansimante,
muovendo la testa da sinistra a destra, in cerca di una via
d’uscita. Svoltò a sinistra e si rimise a correre.
Si bloccò di nuovo di fronte ad uno stretto passaggio fra
due muri sudici. Correndo, si liberò dei sandali verdi dai
tacchi alti che portava ai piedi.
Dopo pochi passi si accorse del suo errore: il passaggio terminava con
un solido muro di mattoni, alto almeno tre metri.
“Dannazione” imprecò, voltandosi
rapidamente e correndo a piedi nudi sull’asfalto.
La ragazza si fermò di nuovo, smarrita. Decise di imboccare
il vicolo da cui era entrata. Inspirando profondamente, si
lanciò in una nuova corsa.
Uno sparo mancò di pochissimo la sua gamba destra.
“Testa a terra” le ordinò una voce
maschile dal tono autoritario, la stessa voce dell’uomo che
il giorno precedente, mascherato da un passamontagna, aveva minacciato
Steven . “Ti prego, non farmi del male.”
supplicò la ragazza. “farò qualsiasi
cosa, ok? Qualsiasi, tutto quello che vuoi, ma non
spararmi.”. “Ultimo avvertimento. A
terra” ordinò bruscamente la voce maschile. La
donna obbedì, singhiozzando.
Un uomo dal viso duro e dall’espressione decisa le si
avvicinò, puntandole una Beretta alla testa. “Ti
chiami Holly Valance, giusto?” le chiese in tono freddo. La
donna annuì. “Tre mesi fa”
continuò l’uomo “ti è
arrivata una lettera. La lettera conteneva una chiave e un indirizzo,
oltre a delle istruzioni su cosa nascondere nell’edificio
aperto dalla chiave. Voglio quella chiave e
quell’indirizzo.” “Non posso
darteli” rispose a bassa voce Holly.
L’eco dello sparo fu assordante. Pezzi di intonaco colpirono
la donna sulla schiena. L’uomo scosse la testa
“Chiave e indirizzo” ripeté.
“Non posso…non li ho con me!”
urlò Holly.
L’urlo si trasformò in un mugolio di dolore dopo
il terzo sparo, che colpì di striscio la ragazza alla gamba
sinistra.
“Sentimi brutto bastardo, non li ho con me! Li ho a casa, non
me li porto certo in tasca quando devo incontrare i clienti!”
piagnucolò la donna. “Gesù Cristo, mi
hai bucato! Non mi potrò muovere per una
settimana!” “Non ci siamo capiti. Sai che potrei
spararti alla testa?” commentò freddamente
l’uomo, facendola tacere. “Se quello che dici
è vero, mi serve la tua chiave di casa.”
“Devo alzarmi per dartela” mormorò
Holly. “Va bene. Ma niente scherzi”
replicò l’uomo, sempre tenendola sotto tiro.
La donna si alzò in piedi lentamente e infilò la
mano nella tasca destra del giubbotto metallizzato che stava
indossando. “Lanciami le chiavi. Lentamente” le
ordinò l’uomo. Holly annuì, ma con uno
scatto estrasse una pistola di piccolo calibro dalla tasca e fece
fuoco. L’uomo rimase interdetto per una frazione di secondo,
prima di rispondere d’istinto al fuoco.
Il colpo dell’arma della donna colpì
l’uomo di striscio al braccio, ma la pallottola uscita dalla
Magnum dell’uomo centrò Holly in mezzo agli occhi.
La donna si accasciò a terra, morta.
Mordendosi le labbra per il dolore, l’uomo estrasse un
cellulare dalla tasca sinistra della sua giacca nera. “Mi
serve appoggio” sibilò nell’apparecchio.
“Sono stato colpito”.
Respirando profondamente, l’uomo rimise il cellulare al suo
posto e si accese una sigaretta. Dopo alcuni istanti, una mano
calò sulla sua spalla. Voltandosi di scatto,
l’uomo riconobbe l’uomo dai jeans sporchi che aveva
ostacolato Steven il giorno prima.
“Hai poca fortuna con le donne, Kerman.”
commentò l’uomo. “Al diavolo le tue
battute, Taggart.” rispose Kerman “Dammi delle
bende e portami da bere. E avverti il capo: il bersaglio numero tre
è stato eliminato. ” Taggart annuì.
“Aspettami un minuto” annunciò,
allontanandosi.
Mentre il suo complice spariva dietro l’angolo, Kerman si
inginocchiò di fronte alla donna morta.
Estraendo un coltello dalla sua tasca sinistra, iniziò a
conficcarlo nei vestiti e nella carne del cadavere, fino a che non
incontrò una resistenza inaspettata nel reggicalze della
sfortunata Holly.
Con un sorriso soddisfatto, Kerman strappò
l’indumento dal corpo, recuperando un mazzo di chiavi
nascosto al suo interno. Il mazzo era attaccato a un portachiavi
etichettato come “PAULA CANTRELL-LOFT”.
WEISSMAN INVESTIGATIONS
Steven entrò dalla porta principale dell’agenzia,
spalancandola. “Dobbiamo parlare” chiese subito a
Dan, seduto dietro alla sua scrivania. Dan annuì e fece
cenno a Steven di sedersi. Il detective scoccò una occhiata
a Jane. Aggrottando le sopracciglia, Dan si schiarì la gola.
“Jane, scusami se ti interrompo, ma…”
“Ma devi prenderti un momento per parlare da solo con
Steven” completò Jane.
“Un giorno o l’altro mi stancherò di
quest’aria di mistero e comincerò ad
origliare…” proseguì scherzando. Mentre
passava vicino a Steven gli fece un occhiolino, a cui lui rispose con
un cenno della mano. Jane uscì chiudendosi la porta alle
spalle.
“Ieri sera sono quasi stato ucciso”
esordì Steven, fissando Dan dritto negli occhi.
“Due uomini hanno provato a spararmi, solamente
perché stavo cercando informazioni sul caso Cantrell. Due
cadaveri, i corpi di due testimoni, sono spariti. Ora ti chiedo: che
cosa sai tu di tutto questo?”.
Dan aprì la bocca incredulo. “Di che cosa stai
parlando?” chiese a Steven. Il suo nuovo sottoposto lo
fissò per alcuni secondi, valutando le sue reazioni.
“Mi vuoi spiegare cosa intendi con cosa ne so io?”
domandò Dan. Steven, dopo un breve attimo di silenzio,
scrollò le spalle. “Volevo solo vedere che cosa
sapevi del caso, nulla di più.” “Solo
ciò che ho letto nei rapporti ufficiali” si
schermì Dan. “Ma cos’erano quelle frasi
su un tentativo di omicidio? Stavi scherzando?”
“No” rispose Steven. “E‘ tutto
vero.” “Mio Dio” commentò Dan
“Hai denunciato il fatto alla polizia?”
“Questo è il bello, l’ho fatto, ma
quando i poliziotti sono arrivati, tutte le prove erano sparite. Niente
corpi, niente assassini, niente armi. Solo la mia parola e quella di un
agente di polizia che, a quanto pare, è affidabile come un
articolo sui coccodrilli nelle fogne. Curioso, vero?”
concluse.
Dan scrollò la testa “Non è
possibile.” commentò “E’ solo
un caso di sparizione.” “Mi chiedo anche io il
perché di tutto questo” rispose Steven, scuotendo
la testa “Sei sicuro di volere continuare
l’indagine?” chiese Dan.
“Più che sicuro” replicò
Steven. “ C’è qualcosa di grosso dietro
al caso, e per quanto riguarda i rischi, ci sono abituato. Questo
potrebbe essere una buona occasione per fare pubblicità
all’azienda , no?” Dan aggrottò le
sopracciglia. “L’agenzia non vale più
della vita dei miei dipendenti” ribattè.
“Di questo non devi preoccuparti, il caso è solo
mio. Terremo la tua segretaria e il tuo avvocato fuori da tutto
questo.” Dan annuì con convinzione. “ A
proposito, dove è quella simpaticissima ragazza?”
“Patricia non arriverà prima delle
undici” rispose Dan, con appena un accenno di rimprovero
nella voce. “Perfetto. Ho giusto il tempo necessario per
evitarla” concluse Steven, uscendo dall’ufficio e
chiudendosi la porta alle spalle.
Nel corridoio incontrò Jane, che lo salutò
allegramente. “Ehilà, come va? Ma che cosa avete
da dirvi tu e Dan di così misterioso ed importante? Non
sarà stata un’altra ramanzina, spero...”
Steven scosse la testa. “Cose da uomini”
commentò. “Tu piuttosto, torna al lavoro
subito.”
“Pensavo di fare un’altra ricerca per te,
Sherlock” rispose Jane, sorridendo. “O ti servivo
solo perché non hai una tessera della biblioteca?”
“Ragazzina, da questo momento le indagini le faccio sul
campo…” commentò Steven, scendendo le
scale. Jane scosse la testa. “A chi hai detto
ragazzina?” rispose ad alta voce, ricevendo in cambio solo
uno sguardo ironico.
ZOO DI LINCOLN PARK
Il clima già freddo e umido di fine settembre non invogliava
di certo molti turisti a visitare il vecchio giardino zoologico, che
quella mattina, un po’ per il tempo nuvoloso, un
po’ per la mancanza di bambini eccitati dagli animali,
sembrava spoglio e inospitale.
Patricia Lawford si fermò davanti alla gabbia delle
antilopi, indossando, per puro istinto protettivo, un paio di occhiali
da sole e soffermandosi ad osservare gli esemplari di antilope africana
appena arrivati dal Serengeti.
“Sorprendenti, non è vero?” le chiese
una voce dal lieve accento messicano alle sue spalle. Girandosi,
Patricia riconobbe un uomo sulla cinquantina, dal colorito scuro,
piuttosto basso e quasi privo di capelli, che portava un paio di
occhiali scuri molto simili ai suoi.
“Sei in ritardo” sussurrò Patricia.
L’uomo si strinse nelle spalle, osservando le antilopi.
“Le hanno portate via dal loro territorio, a migliaia di
miglia dalle loro case, eppure guardale. Sono le padrone di quel
recinto, con una grazia che noi esseri umani non potremo mai
avere” Sospirò rumorosamente, quasi
melodrammaticamente.
“Mi ricordano molto te. La stessa grazia, la stessa
capacità di adattamento, ma anche la stessa
fragilità. Sei nata antilope, Patricia, non leonessa. Il tuo
destino è scappare o accettare il recinto”.
“ Puoi anche lasciare perdere la tua filosofia da quattro
soldi” rispose Patricia, irritata “Penso proprio
che non siamo qui per parlare di animali” concluse.
“Quanta fretta. Bene, mi piacciono le donne che amano il loro
lavoro.” commentò allegramente l’uomo
“Patricia si irrigidì e tornò ad
osservare le antilopi. “Che cosa vuoi?” chiese,
sempre più irritata e nervosa.
“Hai fatto un ottimo lavoro per me ieri, passandomi le
informazioni sulle indagini del tuo nuovo collega ”
commentò l’uomo “Vorrei che continuassi
a farlo”. “Fino a quando? Quale è il
patto?” domandò Patricia, aggiustandosi i capelli.
“Patto, Patricia? Quale “patto”?
Ricordati che tutto quello che fai, lo fai solo per te stessa. Io non
guadagno nulla da tutto questo. Anzi, in realtà io potrei
benissimo fare a meno di te” annunciò poi , in
tono funebre. “E’ solo per la mia bontà
innata che ti aiuto: come farei a fare del male ad un visino
così bello?” concluse, sfiorando la guancia di
Patricia con la mano destra. “Toccami ancora e sei morto,
brutto porco” sussurrò la donna, stringendosi le
labbra fra i denti.
L’uomo rise fragorosamente, allontanandosi tuttavia di scatto
dalla donna. Due passanti si voltarono verso la coppia,ma, non notando
nulla di strano proseguirono, alzando le spalle. “Il tuo
collega è la chiave per arrivare alla tua
libertà. Tu continua ad informarmi su di lui, e un giorno,
quando te lo sarai meritato, l’originale di quella cassetta
sarà tuo.” concluse il messicano, avviandosi verso
l’uscita dello zoo. Patricia si tolse gli occhiali scuri,
rimanendo per alcuni secondi a fissare la schiena dell’uomo
che si allontanava lentamente.
OTTAVO DIPARTIMENTO DI
POLIZIA DI CHICAGO
“E poi, zap! Spariti! Come se non ci fossero mai
stati!” sentenziò Frank, accompagnando le sue
parole con uno schiocco di dita. “Uh uh” rispose il
suo interlocutore,l’agente Davis, senza sollevare lo sguardo
dal giornale sportivo che stava leggendo. “E non è
finita qui: anche i corpi che avevo trovato nella casa erano spariti!
Pazzesco, vero?” concluse Frank.
“Già, è pazzesco che i Bulls siano
riusciti a perdere contro i Dodgers. ” mormorò
Davis. “Ma tu non mi stavi ascoltando!”
sbottò spazientito Frank. “Eh?” rispose
Davis, senza smettere di leggere. “Senti”
continuò poi, sollevando lo sguardo sul viso di Frank
,arrossito dalla rabbia “mi hai raccontato questa storia
almeno una dozzina di volte. Ed è più ridicola
ogni volta che la sento” concluse. Frank aprì la
bocca per commentare, ma il gesto si mutò improvvisamente in
una smorfia di sorpresa.
Alle spalle di Davis, un uomo sulla quarantina dai capelli corti che
indossava degli occhiali spessi, vestito elegantemente in blu,esibiva
un distintivo dell’FBI a una donna poliziotto, che lo stava
indirizzando verso la scrivania di Frank. “Frank
Beaumont?” chiese l’agente FBI a Davis,
avvicinandosi ai due poliziotti. “Per carità,
no!” rispose l’agente. “E’
lui” commentò , indicando Frank con il pollice.
“Sono l‘agente Gall, FBI” si
presentò quest’ultimo,mostrando il suo distintivo.
“Gradirei rivolgerle alcune domande”
“Ehm, sì” rispose nervosamente Frank.
“Certo. Su che argomento?”. Con un sorriso
indefinibile, l’agente Gall aprì un piccolo
taccuino e afferrò una penna dalla scrivania di Davis.
“Quella sarebbe mia” protestò
quest’ultimo. “Ieri pomeriggio”
esordì Gall, senza degnare Davis di uno
sguardo“lei ha assistito un investigatore privato in una
indagine non ufficiale. A quanto pare, ha poi testimoniato di avere
ritrovato due cadaveri in una abitazione privata. Sbaglio?”
concluse. “Sì, è esatto, ma non
l’ho solo testimoniato, c’erano davvero, quei due
corpi, io li ho visti!” rispose Frank, sbattendo il pugno sul
tavolo.
“Risponda alle domande e non aggiunga elementi inutili, per
favore” replicò freddamente Gall.
“Inutili!?” esclamò stupefatto Frank.
“Sapeva che l’investigatore con cui ha collaborato
ha all’attivo tre denunce per aggressione e due per guida in
stato di ebbrezza?” continuò Gall, imperturbabile.
“No, ma è stato assolto,no? Altrimenti non avrebbe
la licenza di privato,non è vero? Cioè, siete voi
federali a decidere queste cose, voglio dire…”
rispose nervosamente Frank, colto di sorpresa. “Risponda alla
domanda, per favore” “No.
Però-” mormorò il poliziotto.
“Che cosa sta facendo?” tuonò una voce
alle spalle di Gall. L’agente FBI si girò di
scatto, incontrando lo sguardo deciso del luogotenente Bronson.
“Solo domande di routine, luogotenente” rispose
Gall, appoggiando la penna sulla scrivania di Davis. “Non nel
mio dipartimento, e non a quest’ora” gli
ordinò Bronson. Gall si alzò di scatto.
“Le devo ricordare che sul caso in questione è in
corso anche una indagine federale?” suggerì con
voce calma. “Ha un mandato per rivolgere domande al mio
agente? Se non lo ha, può anche lasciare subito il mio
dipartimento.” replicò Bronson, senza rispondere.
Gall si alzò e fissò il superiore di Frank negli
occhi, prima di scrollare la testa ed andarsene, uscendo dalla porta
principale.
“Beaumont, lei continui a lavorare sul caso”
ordinò Bronson. “Davis, lei sarà di
supporto all’agente Beaumont” proseguì.
“Voglio un rapporto per ogni giorno di indagine. Consegnerete
i vostri rapporti personalmente nel mio ufficio. Nessun
civile” aggiunse Bronson, squadrando Frank con aria di
rimprovero “dovrà essere messo al corrente dei
vostri progressi.” Davis, stupefatto, lasciò
cadere il suo giornale. “E’ tutto”
concluse il luogotenente , allontanandosi in fretta.
“Che ti dicevo? C’è qualcosa
sotto!” esclamò Frank, gongolante.
“Un’indagine con te? Ma perché
l’universo mi odia?” sbuffò Davis,
alzando gli occhi al cielo. Frank scrollò le spalle,
soddisfatto.
Quando il suo collega gli voltò le spalle Frank
afferrò il suo cellulare e inviò a un messaggio:
Vediamoci subito. Ho delle informazioni da darti. La risposta non si
fece attendere 13 Regent Street. Il mio appartamento. Tra
mezz’ora. .
Frank squadrò Davis, che stava mettendo in ordine ad un
cumulo di carte spiegazzate, e senza dire nulla si alzò
dalla sua scrivania e si avviò verso l’uscita.
FUORI DAL DIPARTIMENTO DI
POLIZIA
L’agente Gall prese il suo telefonino dalla tasca destra del
suo completo e digitò un numero. “Sono Gall,
signor Scott” si presentò. “Abbiamo un
problema. Campbell ha coinvolto nelle sue indagini un civile, un agente
locale. Il capo del dipartimento mi ha chiuso la porta in faccia, e non
ho elementi per richiedere un mandato e interrogare quel dannato
poliziotto.”
SEDE FBI DI CHICAGO
Scott, un uomo biondo e piuttosto massiccio, sedeva ad una scrivania,
tendendo un telefono premuto all’orecchio.
“Risolverò io questo problema, Gall”
rispose in tono asciutto “Tu preoccupati di gestire le nostre
indagini.” concluse, chiudendo la conversazione.
Riappoggiando la cornetta del telefono Scott premette un pulsante sulla
sua scrivania. Subito la porta del suo ufficio si aprì,
facendo entrare Kerman e Taggart, ovvero l’uomo con il
passamontagna e quello con i jeans sporchi. “Mi avete deluso
ieri” iniziò Scott. “Non mi avete
portato Campbell. Evidentemente è un lavoro troppo difficile
per voi due.” concluse in tono sarcastico. I due chinarono
semplicemente la testa. “Non importa. Le informazioni della
nostra talpa si sono rivelate affidabili, e per vostra fortuna avete
eliminato i tre bersagli e recuperato le chiavi. “ aggiunse
Scott.
“Niente più errori, o i vostri falsi certificati
di morte diventeranno una spiacevole realtà”
concluse in tono minaccioso. Kerman e Taggart annuirono di nuovo.
APPARTAMENTO DI STEVEN
CAMPBELL
“Ne sei sicuro?” chiese Steven, sedendosi
d’improvviso sul suo letto. “Sicuro come sono
sicuro che Miami Vice è il miglior telefilm mai apparso in
TV. O come lo sono del mio fascino inimitabile.” rispose
Frank, sbattendo un pugno sulla testiera. “Per
pietà” sibilò Steven fra i denti.
“Limita i paragoni…le mie orecchie potrebbero non
supportarne un altro.”
“Comunque, è interessante. Un indagine federale in
corso è un altro indizio che c’è
qualcosa di importante in questa sparizione. Significa anche che il tuo
aiuto mi è più che mai necessario. Un appoggio
ufficiale fa comodo in questi casi.” proseguì.
“Ehm, questo è un punto
dolente…” mormorò Frank. “Il
mio capo mi ha ordinato di non rivelare niente ai civili. In teoria non
dovrei nemmeno essere qui...però ci sono. Da solo non ce la
faccio, e il capo mi ha messo in coppia con un rompiscatole,
l’agente Davis. L’unico modo per scoprire la
verità è collaborare con te.”
“Gentile da parte tua dirmelo
ora…”sbottò sarcasticamente Steven.
“Ehi, cos’è tutto questo veleno? Me
l’ero semplicemente dimenticato!” “Se
scopre dove sei stato, il tuo collega ti farà rapporto,
genio! Tu sarai escluso dalle indagini e io perderò la mia
fonte di informazioni e sostegno ufficiale. Non venire più
qui. Comunicheremo via mail. Nessuno ci deve vedere insieme.”
concluse Steven, spingendo Frank fuori dalla porta.
“Io ti servo!” sbottò Frank deluso,
mentre la porta dell’appartamento di Steven si chiudeva alle
sue spalle. “Non puoi buttarmi fuori!”
urlò. “Non è la tua città!
Come farai senza di me, sul campo?” Per alcuni secondi Steven
non rispose, poi la porta si riaprì.
“Se ci rinchiudono per violazione della privacy, sei
morto” esclamò Steven, puntando un dito al petto
di Frank. “Non succederà, siamo i migliori. Non lo
verrà a sapere nessuno. Allora, cosa cerchiamo
oggi?” “ chiese Frank, con un sorriso soddisfatto.
Steven alzò gli occhi al cielo.
WEISSMAN INVESTIGATIONS
Jane bussò alla porta dell’ufficio.
“Posso rientrare ora, capo?” chiese ad alta voce,
senza ottenere risposta. Incuriosita, abbassò la maniglia ed
entrò. Non c’era nessuno, anche Dan sembrava
sparito. Sempre più curiosa, Jane si sedette davanti alla
sua scrivania, cercando di lavorare al suo computer.
La scrivania vuota di Dan attirava sempre di più la sua
attenzione. Dopo aver scosso la testa un paio di volte, Jane
sbuffò e si avvicinò alla sedia del suo capo e
aprì un cassetto. Si voltò per controllare che
nessuno la stesse osservando, ma l’ufficio era ancora vuoto.
“No” mormorò dopo una breve pausa,
scuotendo la testa.
La porta dell’ufficio di Dan si aprì di scatto e
il proprietario della Weissman Investigations ne uscì,
riponendo un cellulare nella sua tasca destra. Il suo sguardo
incontrò quello di Jane, che si morse le labbra.
“Qualcosa non va?” chiese Dan. “No,
signore, nulla. Mi stavo solo chiedendo dove fosse
finito…”
“Dovevo fare una telefonata importante” rispose
l’uomo, squadrando attentamente la sua segretaria.
Jane annuì debolmente. “Torno al mio
lavoro” proclamò. “Non è
necessario. Oggi chiudiamo a quest’ora” rispose
Dan. “Hai la giornata libera”. “Davvero?
Fantastico! Grazie, capo!” rispose Jane, prendendo la sua
borsa e appoggiando la mano destra alla maniglia.
“Jane” la fermò Dan “Si ,
capo?” rispose nervosamente la segretaria. “Volevo
chiederti come sta tua madre.” “A dire il vero
è da due giorni che non la vedo. Adesso che ci penso, devo
proprio farle visita. Arrivederci” lo salutò Jane
e uscendo dall’ufficio.
Dan si sedette alla sua scrivania e notò il cassetto aperto.
Lo chiuse con stizza e il suo volto si rabbuiò.
“Non tu, Jane. Almeno tu devi veramente restarne
fuori” mormorò tra sé e sé.
SOBBORGHI DI CHICAGO
L’automobile di Steven e Frank si fermò vicino ad
un motel. “La madre della ragazza abita qui?”
esclamò Frank, stupito. “Non tutti vivono in un
appartamento” replicò Steven. Frank si
slacciò la cintura e aprì la portiera.
“Aspetta” lo interruppe Steven “Ti
ricordi di quello che è successo l’ultima volta
che abbiamo provato a scendere senza prendere precauzioni?”
Frank deglutì e annuì leggermente, mentre Steven
estraeva una pistola dalla sua fondina ascellare. “Solo in
caso di necessità” suggerì a Frank, che
approvò annuendo di nuovo“Giusto.
Necessità”.
“Andiamo” concluse Steven , uscendo dalla macchina
e chiudendosi la portiera alla spalle. I due salirono la scalinata
esterna del motel fino al secondo piano e, voltando un angolo, si
avvicinarono alla camera 214. Steven bussò alla porta.
“Chi è?” chiese una voce roca e
assonnata dall’interno. “E’ la signora
Helen Cantrell?” domandò Steven a sua volta.
“Dipende. Chi mi cerca?” rispose la voce.
“Siamo della Weissman Investigations, vorremmo parlarle di
sua figlia”
Si udì il rumore di un catenaccio tolto e la porta si
aprì, rivelando una donna di mezz’età,
mora, che indossava un accappatoio verde macchiato di grigio. Doveva
essere stata una bella donna anni prima, ma le pesanti borse sotto gli
occhi, i capelli arruffati e un aria generale di degrado la rendevano
molto più vecchia di quanto non fosse.
“Che volete?” chiese in maniera sgarbata.
“Ho già detto tutto quello che sapevo su mia
figlia alla polizia quando ho fatto la denuncia di sparizione. La
vostra agenzia non la conosco nemmeno.” Steven e Frank si
scambiarono un’occhiata stupita. “Mi scusi, ma non
è stata lei a pagare la nostra agenzia?” chiese
Steven, scrutando la donna.
“Bello, se avessi i soldi per pagare dei poliziotti privati
non vivrei qui, non trovi? Deve essere stato quel fesso del suo
ragazzo.” rispose la donna, estraendo un pacchetto di
sigarette e un accendino molto sporco da una tasca. Si accese una
sigaretta e inspirò. “La avete ritrovata?
” chiese, aspirando avidamente il fumo.
Steven scosse la testa. “No, signora. Vorremmo sapere
qualcosa di più della vita privata di sua figlia. Sa, le
solite domande di routine” “Io non ne so
nulla” rispose la donna. “Non viveva più
qui da un anno. Se ne era andata così,
all’improvviso, senza nemmeno ringraziarmi di averla messa al
mondo. Trova un ragazzino ricco, mi promette un prestito, poi lo lascia
e sparisce. Sono sicura che se ne è andata di proposito.
Bella riconoscenza “ concluse amaramente.
“Ci potrebbe almeno dire chi è il suo fidanzato e
dove vive?” chiese all’improvviso Frank. Steven gli
diede un calcio nello stinco destro, facendolo mugolare leggermente dal
dolore. “Scusi l’impazienza del mio
collega” disse Steven, lanciando un’occhiataccia a
Frank “Certamente c’è anche qualcosa
d’altro che lei sa su sua figlia.”
“Il fidanzato è Harvey Krakowski, vive in Freemont
Street. Numero Tredici“ concluse la donna, rientrando nella
sua stanza e sbattendosi la porta alle spalle. “Signora
Cantrell! Scusi, ma non abbiamo finito le nostre domande!”
urlò Steven. La porta rimase chiusa.
“Complimenti.” sibilò Steven a Frank.
“Ehi, io ho fatto solo una domanda!” rispose Frank
“Non stavo chiacchierando con quella donna, stavo cercando di
ottenere delle informazioni!” sibilò Steven fra i
denti “Cosa che sarei anche riuscito a fare, forse, se tu non
le avessi regalato su un piatto d’argento la
possibilità di svicolare senza dirci nulla.”
Frank sbuffò. “Tanto non sapeva nulla.”
Steven non gli rispose, ma lasciò che fosse il suo sguardo a
parlare. “Andiamo” aggiunse poco dopo. I due
scesero le scale di fretta: Steven precedeva Frank di pochi passi.
“Non te la prendere troppo” commentò
Frank “Non è stato del tutto un buco
nell’acqua, almeno abbiamo l’indirizzo del
fidanzato. Gli agenti che avevano steso il rapporto non lo citavano,
chissà perché”
Steven si bloccò all’improvviso sul penultimo
gradino. Frank incuriosito, si sporse per vedere cosa aveva attirato
l’attenzione del partner.
Un agente di polizia sedeva sul cofano dell’automobile di
Steven e Frank.Indossava un paio di occhiali scuri, e sembrava scrutare
attentamente Steven e Frank.
“Non ci vorrà mettere una multa!”
sbottò Frank, superando Steven e dirigendosi rapidamente
verso l’agente. “Sono Frank Beaumont, Ottavo
Dipartimento” proclamò ad alta voce, sventolando
il distintivo sotto gli occhi dell’altro poliziotto.
“Sto indagando su di un caso di sparizione-”
continuò. L’agente puntò la sua pistola
alla testa di uno stupefatto Frank. “A terra!”
urlò Steven , estraendo a sua volta la pistola.
Frank obbedì rapidamente, proprio un istante prima che
Steven e l’agente facessero fuoco. Il proiettile di Steven
costrinse l’uomo in divisa ad abbassarsi. Il colpo della
pistola dell’agente mancò Frank di pochissimo.
Mugolando dalla rabbia, Frank afferrò le gambe del suo
avversario, facendogli perdere l’equilibrio. L’uomo
cadde a terra e perse la pistola. Steven corse giù per le
scale, tenendo il poliziotto caduto a terra sotto tiro, mentre Frank si
tuffò di lato, raccogliendo l’arma un attimo prima
che l’uomo riuscisse ad afferrarla.
“Via quegli occhiali e dicci chi sei e chi ti
manda” ordinò Steven, senza ottenere risposta.
Dopi un attimo di incertezza anche Frank puntò la pistola
alla testa dell’uomo a terra. “Questo non si fa,
fra colleghi. Decisamente un brutto punto sul tuo stato di
servizio.” commentò. L’uomo continuava a
tacere, respirando appena. “Facciamo così: o ti
togli gli occhiali, o ti sparo all’altro braccio”
suggerì Steven. Frank fissò il suo partner,
costernato.
“Non puoi farlo” mormorò.
L’uomo ignorò Frank e obbedì. Aveva un
viso piuttosto comune, e occhi marroni nei quali si leggeva un misto di
terrore e sconforto. “Bene. Ora facciamo una bella
chiacchierata.” continuò Steven. “Chi
sei? Perché ci volevi uccidere? Chi ti manda qui?”
L’uomo sospirò e scosse la testa di nuovo.
“Non vuoi parlare qui? Bene, in piedi, vediamo cosa dirai
quando ti porteremo dai tuoi colleghi.”
Gli occhi dell’uomo si spalancarono per il terrore.
“Non l’ho fatto per me”
sussurrò. “Per chi, allora?”lo
incalzò Steven. Senza preavviso, l’uomo
caricò Frank, gli strappò la pistola di mano, se
la puntò alla tempia e premette il grilletto.
Frank, inorridito, tentò inutilmente di afferrare la pistola
dalle mani dell’uomo. Steven scosse la testa:
“E’ morto” mormorò. Frank
rimase in silenzio davanti al cadavere, quasi inebetito da
ciò a cui aveva appena assistito.
“Aiutami a sollevarlo. Afferragli le caviglie.” gli
ordinò Steven. Il poliziotto si riscosse
dall’apatia in cui era caduto e obbedì. Ancora
sotto shock, rabbrividì al contatto con il corpo. Steven
aprì il bagagliaio dell’automobile e
afferrò il cadavere sotto le ascelle. “Non
dovremmo spostarlo” obiettò debolmente Frank
“E’ una scena del crimine”
“Dopo la bella esperienza di ieri, voglio fare in modo che
non sparisca” rispose Steven. “Forza, non fare
osservazioni inutili e aiutami. Lo porteremo direttamente alla Centrale
di polizia più vicina.”
“Cosa state facendo?” li interruppe una voce. Helen
Cantrell li stava osservando dal terzo piano, stupefatta. Steven si
morse la labbra. Improvvisamente la donna si mise a urlare
“Hanno ucciso un poliziotto! Fermateli!”
“No, no, signora , non urli! Ha capito male!
Quell’uomo si è sparato da solo!” si
mise ad urlare Frank.
Diversi inquilini del motel erano usciti dai loro appartamenti e
osservavano la scena. In molti si misero a strillare, altri
semplicemente si indicavano a vicenda Steven e Frank. Una ragazza dai
tratti asiatici afferrò il suo telefonino e
digitò un numero.
NORTHWESTERN HOSPITAL
Jane attendeva pazientemente nella sala d’aspetto del reparto
di Oncologia, leggendo una rivista vecchia di tre mesi e sbirciando, di
tanto in tanto, gli altri occupanti della stanza.
“Jane Shelby?” chiese un’infermiera sulla
quarantina, entrando nella sala. Jane sollevò la mano,
sorridendo. “Sua madre è sveglia. Mi
segua” ordinò l’infermiera, che portava
una targhetta appuntata al petto. “Come sta mia
madre” iniziò Jane, sporgendosi per leggere la
targhetta “Katie?”
“La signora Ginevra Shelby torna adesso da una seduta di
chemioterapia.” rispose Katie, con una freddezza che
sconcertò leggermente Jane.
L’infermiera scortò la ragazza fino alla porta
della stanza 56. “Faccia piano, è stanca e deve
riposare.” Jane annuì e spinse leggermente la
porta. “Entrate pure,non è una porta aperta di
scatto che mi manderà all’altro mondo”
commentò una voce all’interno.
L’infermiera aggrottò le sopracciglia e
seguì Jane all’interno della stanza.
Una donna sulla cinquantina le attendeva sdraiata su un letto.
Indossava un pigiama blu da ospedale e una cuffia dello stesso colore,
e sorrideva apertamente. “Ciao, mamma” la
salutò Jane. “Ciao, Jane. E’ bello
rivederti” rispose sua madre. “Mi dispiace non
averti visitato più spesso di recente” si
scusò Jane, mordendosi le labbra. “Non importa.
Hai il tuo lavoro, la tua vita. Non puoi essere sempre qui per
me” replicò la donna. L’infermiera Katie
rivolse a Jane uno sguardo di disapprovazione.
“Può lasciarci da sole, per favore?”
chiese la madre di Jane a Katie.La donna annuì freddamente e
uscì dalla stanza. “Robocop”
mormorò fra sé e sé la signora Shelby.
“Cosa?” chiese stupefatta Jane. “Non ho
niente da fare, così creo soprannomi per le
infermiere.” rispose allegramente Ginevra.”Quella
è Robocop: fredda, senza sentimenti, ma non la peggiore. Sei
stata fortunata: avresti potuto trovare quella svampita della Barbie
Rossa, oppure persino la Strega dell’Est. Quasi mi uccideva,
la Strega, con il suo alito pestilenziale.” Jane non
poté trattenere una risatina.
“Come vanno le cure?” chiese subito dopo. Ginevra
sbuffò “Chemioterapia, poi medicine, poi di nuovo
chemioterapia. Mi stupisco che non mi facciano girare sulla ruota come
un criceto. Ma in realtà” aggiunse in tono
confidenziale “resto qui solo per il dottor Nichols. Quello
sì che è un bell’uomo.” Jane
sorrise. “Come va per te al lavoro?” le
domandò Ginevra, sorridendo a sua volta.
“Dan ha assunto un nuovo detective. Un tipo strano ma carino
o carino ma strano, non so” “Come sta
Dan?” intervenne Ginevra. “Oh, adesso è
strano anche lui. Tutto è diventato misterioso, direi. Mi
piacerebbe sapere come mai.” rispose Jane. “Non
essere troppo curiosa. Non vorrei che Dan si arrabbiasse” la
ammonì Ginevra. “Non è facile trovare
un capo comprensivo come lui con i tempi che corrono”
“Non farò stupidaggini.” promise Jane,
prendendo la mano destra di sua madre fra le sue.
Ginevra le rivolse un altro sorriso, prima di socchiudere gli occhi.
“Scusami, tesoro, ma non riesco a rimanere
sveglia.” “Non ti preoccupare, mamma”
rispose Jane, mentre gli occhi le si inumidivano. “Ti voglio
bene” concluse. “Anche io te ne voglio”
sussurrò Ginevra, chiudendo completamente gli occhi.
Jane si allontanò in punta di piedi e uscì dalla
stanza. Mentre si stava avvicinando alla sala d’aspetto le si
avvicinò un infermiere in camice bianco . “Lei
è una parente della signora Ginevra Shelby?” le
chiese l’uomo. “Sono la figlia” rispose
Jane “Perché?” “Purtroppo le
devo riferire una brutta notizia: il linfoma di sua madre sta
degenerando. Le cure a cui la sottoponiamo sono risultate
inefficienti.”
Le lacrime che Jane aveva trattenuto di fronte alla madre le
scivolarono lungo le guance. “Quando?”
bisbigliò, non osando esprimere la sua domanda ad alta voce.
“Aspetti, non disperi. C’è ancora una
possibilità: possiamo mettere la signora Shelby in lista
d’attesa per una cura sperimentale.” la
rincuorò il paramedico. “L’unico
problema è che la lista è incredibilmente lunga.
A meno che lei non faccia ricoverare sua madre presso questa
clinica” concluse, porgendole un foglio verde, che portava
come intestazione “St. James’ Hospital”
La ragazza si asciugò rapidamente le lacrime ed
esaminò il volantino dell’ospedale St. James che
l’uomo le aveva passato. “Il costo di ammissione
è di ventimila dollari” esclamò
“Non ho tutti quei soldi!”.
L’uomo annuì. “Mi dispiace”
aggiunse. “Proverò a parlare con il primario, e a
vedere se riesco a farle ottenere una riduzione”
“Davvero lo farebbe?” lo implorò Jane
“Non so come ringraziarla.” L‘infermiere
fece un cenno con la mano destra. “Ma le pare. Se mi
dà il suo numero, posso avvertirla dei miei
progressi” annunciò.
Jane annuì e scrisse il suo numero su un foglio di carta che
consegnò all’uomo. “Arrivederci,
signorina Shelby” la salutò
quest’ultimo. “Arrivederci e sopratutto
grazie” rispose Jane con calore, uscendo rapidamente dal
reparto.
L‘uomo, quando fu chiaro che Jane non lo poteva
più sentire, prese il suo telefonino e compose un numero.
“Sono Parker. Il primo contatto con la seconda potenziale
talpa è stato effettuato” comunicò
freddamente.
SOBBORGHI DI CHICAGO
Frank e Steven si scambiarono un’occhiata preoccupata. La
folla minacciosa dei clienti del motel ormai li circondava, e, come se
non bastasse, erano intrappolati fra la folla da un lato e la polizia
in arrivo dall’altro.
Le sirene di un’automobile della polizia fecero sobbalzare
Frank. Helen Cantrell si mise ad urlare. “Sono qui!
Arrestateli!” strepitavano i suoi coinquilini. Due agenti di
polizia (uno alto e snello, l’altro basso e corpulento) si
fecero largo attraverso la folla e raggiunsero Frank e Steven.
“Andate via, non è uno spettacolo”
sbuffò l’agente basso , sventolando un manganello,
mentre il suo collega, notando la pistola di Steven, impugnò
la sua. Steven se ne accorse e appoggiò la sua arma sul
tettuccio dell’automobile, alzando le mani e invitando Frank
a fare altrettanto. “Fermi dove siete” li
minacciò l’agente slanciato.
“Sono un agente dell’ottavo dipartimento”
protestò Frank. “Lasciatemi spiegare.”
L’agente corpulento gli si avvicinò, mente
l’altro ,continuando a tenerli sotto tiro, controllava la
scena. “Zitto tu, sei in arresto. E anche tu” disse
l’agente tarchiato, indicando Frank e Steven.
“Se controllate il mio tesserino-”
iniziò Frank, prima che una gomitata nelle costole di Steven
lo interrompesse “E’ inutile spiegarlo a questi
due. Lasciali portarci alla loro centrale e potremo spiegare
tutto.” gli suggerì Steven , sussurrando.
“Avete il diritto di non parlare. Tutto ciò che
direte potrà essere usato contro di voi in tribunale. Avete
diritto ad un avvocato- se non avete uno , ve ne verrà
procurato uno d’ufficio” recitò
l’agente corpulento rapidamente, ammanettando Frank e Steven.
“Parrish, controlla la scena del crimine e chiama la
scientifica. Io li porto in centrale” aggiunse, diretto al
suo collega.
“Non serve, sono sotto la mia custodia” lo
interruppe una voce alle sue spalle. Gli occhi di Frank si allargarono,
riconoscendo l’agente Gall. “Eppure la aveva
avvertita sui rischi che correva affiancandosi a Campbell, agente
Beaumont” aggiunse Gall, in tono sarcastico.
“Lasciateli a me e tornate in centrale a stendere un
rapporto” concluse , rivolto ai due poliziotti. “E
lei chi è?” sbottò Parrish.
“Gall, FBI” rispose l’agente federale,
mostrando il suo tesserino. “Beh, agente Gall, con tutto il
dovuto rispetto, questi uomini li abbiamo arrestati noi”
ribattè il poliziotto basso e tarchiato. “Quindi
se vuole portarceli via contatti i nostri superiori”
concluse. “Ho visto quell’uomo stamattina, mi ha
fatto domando su di te” sussurrò Frank a Steven.
“Silenzio!” lo interruppe Parrish, rivolgendo poi
un’occhiata al cadavere a terra. L’agente si
lasciò sfuggire un gemito. “White”
mormorò al suo collega “Guarda il corpo.
E’ Malley”. L’agente White
aggrottò le sopracciglia. “Malley? Ma non era in
vacanza con la moglie?” domandò.
“Farete tutti i controlli necessari dopo che mi avrete
consegnato i prigionieri” li interruppe nuovamente Gall.
“Senta, agente Gall, può chiudere il
becco?” replicò White. “Sono un
rappresentante del governo federale. Non collaborare ad un indagine
federale è un reato, non serve che ve lo ricordi”
li avvisò Gall. White afferrò la sua pistola, ma
l’agente Parrish fece cenno al suo collega e
scrollò la testa.
“D’accordo, sono vostri”
ringhiò White, abbassando la sua arma “Ma dovete
firmarci un documento.” concluse , irritato. Gall
annuì e prese un documento dal suo taschino destro.
L‘agente Parrish gli porse una penna. “A
lei” disse Gall, porgendo il foglio a White, che
digrignò i denti.
Parrish e White spinsero Steven e Frank, disarmati, verso
l’agente Gall. Quest’ultimo annuì
soddisfatto e aprì la portiera della sua automobile. Steven
rivolse a Frank un rapido cenno di intesa, mostrandogli le mani.
Era riuscito ad aprire le manette senza che nessuno se ne accorgesse.
Frank rispose annuendo impercettibilmente. “Arrivederci,
signori” sentenziò sarcasticamente Gall, salutando
White e Parrish con un cenno del capo, mentre fra la folla erano in
molti a protestare a bassa voce.
“Un momento” lo interruppe Parrish, che aveva
appena terminato una rapida telefonata.”Ho controllato in
centrale, le serve un mandato per arrestarli” Gall si
leccò rapidamente le labbra. “Senta”
rispose “Possiamo stare qui a discutere di procedure per ore,
ma alla fine lei dovrà consegnarmi comunque questi due
uomini. Perché non ora?”
“Perché non più tardi?”
replicò in tono beffardo White. “Li lasci
andare”. “No” rispose Gall.
“Come vuole. Parrish, arresta anche lui”
ordinò White, puntando la pistola alla testa di Gall. La
folla ammutolì.
“Non lo faccia, agente Parrish, o ne subirà le
conseguenze” obiettò Gall. “Fallo,
Parrish” lo incalzò White. Parrish mosse la testa
dal suo collega all’agente federale. Sembrava non sapere a
chi obbedire. All’improvviso Gall puntò a sua
volta la sua arma contro White. Parrish, inspirando, alzò la
sua arma su Gall.
Steven , d’istinto, si liberò definitivamente
delle manette e colpì Gall allo stomaco. L’agente
FBI emise un gemito, e Parrish e White, stupefatti, agguantarono i due,
afferrarono la pistola di Gall e spinsero i tre arrestati contro la
loro automobile.
“Non ti avevo ammanettato?” chiese uno stupefatto
Parrish a Steven , che si limitò a sorridere. White, nel
frattempo, ammanettava Gall. “Questa me la paga.
Finirà a dirigere il traffico” sibilò
l’agente FBI minacciosamente. “Entra
nell’automobile e non fare storie”
replicò White.
Frank, Steven e Gall entrarono nell’automobile dei due
poliziotti, che chiusero la portiera alle loro spalle. White si mise
alla guida con Parrish al suo fianco.
WEISSMAN INVESTIGATIONS
Patricia fece il suo ingresso negli uffici vuoti, aprendo la porta di
scatto. “Dan?” chiamò il suo capo ad
alta voce, senza ricevere risposta. Innervosita, notò solo
in quel momento il cartello che annunciava la chiusura
dell’agenzia.
Mordicchiandosi il labbro inferiore uscì
dall’ufficio e si chiuse la porta alle spalle. Proprio in
quel momento Jane arrivò sul pianerottolo: le due donne si
trovarono faccia a faccia. “Come mai l’agenzia
è chiusa?” sbottò Patricia.
“Dan mi ha dato la giornata libera. Stavo giusto tornando per
parlargli” rispose Jane. “Non è
qui” ribattè seccamente Patricia. Calò
un silenzio nervoso.
“Visto che nessuna di noi due lo sa, perché non lo
aspettiamo al caffè qui davanti?” propose Jane.
Patricia aggrottò le sopracciglia, ma dopo un attimo di
silenzio annuì. Le due donne scesero lentamente le scale.
CENTRALE DI POLIZIA- SALA
INTERROGATORI
“E’ andata così” concluse
Steven. “Nell’altra sala abbiamo un agente federale
che giura di avere un mandato per arrestarti, ma stranamente non vuole
dirci dove è, o per quale motivo ti cerca. Qui ci sei tu,
che ci racconti una storia che è il trionfo delle
coincidenze. A chi dobbiamo credere?” rispose
l’agente White, che lo stava interrogando.
“Se avessi ucciso quel poliziotto, avrei approfittato del
casino che avete creato per scappare. Non l’ho fatto, anzi,
vi ho dato una mano. E il mio partner è un vostro collega.
Contattate l’ottavo distretto e ve lo
confermeranno” replicò Steven. “Queste
non sono prove” argomentò White. “Allora
attendete il rapporto della scientifica. Vi confermerà che
il vostro collega si è sparato da solo”
suggerì Steven, sempre calmo.
CORRIDOIO
Frank sedeva in un angolo del corridoio fra la sala interrogatori e le
celle, ammanettato e sorvegliato da Parrish. “Frank! Frank
Beaumont! Che ci fai qui, hai di nuovo fatto saltare in aria un bagno
pubblico?” lo salutò una donna poliziotto bruna
sulla quarantina, sorridendo divertita. “Ciao,
Harriett” la salutò Frank, rivolgendole un sorriso
stentato.
Parrish aprì la bocca, stupefatto. “Lo
conosci?” chiese alla donna, grattandosi la testa.
“Ma certo. Ero la sua istruttrice in accademia. Non mi
dimentico certo dell’allievo che per poco non arrestava il
figlio del sindaco per vagabondaggio.” proseguì
Harriett.
“E’ qui per un sospetto omicidio” le
spiegò Parrish. “Chi, Frank?
Impossibile” obiettò Harriett “Deve
essere un altro dei pasticci in cui si infila praticamente ogni
mese.” “Questa volta è un fatto grave:
la vittima è Malley” proseguì Parrish
in tono deciso. “Non l’ho ucciso!”
protestò Frank ad alta voce. “Si è
sparato da solo!”
Harriett annuì. “Parrish, toglili le manette.
Garantisco io per lui. Frank è incapace di recitare
così bene” “Ma signor
capitano-” si lamentò Parrish. “Niente
ma” rispose Harriett. L’agente si grattò
di nuovo la testa, pensieroso, ma sotto lo sguardo determinato della
sua superiore liberò Frank dalle manette.
CAFFE’ PASCUCCI
Il locale trasmetteva un senso di calore, forse per gli interni in
legno, forse per il soffitto rosso. Jane e Patricia si erano appena
accomodate ad un tavolo in un angolo.“Davvero non eri mai
stata qui?” chiese Jane a Patricia con decisa
incredulità. “Mai” rispose
l’avvocato “Non mi piace il
caffè” spiegò. “Ti
ricrederai. Il cappuccino di zio Al è la fine del
mondo” ribattè allegramente Jane. Patricia
alzò le spalle.
Un cameriere sulla cinquantina, piuttosto robusto, si
avvicinò alle due donne. “Che cosa prende la mia
signorina?” chiese sorridendo a Jane.
Aveva un pesante accento italiano. “Due cappuccini”
rispose Jane, sorridendo a sua volta. “Uno per me e uno per
la mia amica” Patricia aprì la bocca per
obiettare, ma l’uomo se ne era già andato.
“Servizio rapido” commentò in tono
asciutto. “Come mai eri tornata in agenzia?”
domandò dopo un breve attimo di pausa.
Jane si leccò le labbra e rimase in silenzio per un attimo,
prima di rispondere. “Mi servono soldi. Mia madre soffre di
cancro, le cure sono sempre più costose.” Patricia
rimase senza parole per alcuni secondi. “Mi
dispiace” mormorò a bassa voce. “Non
è colpa tua” ribattè Jane.
“Vorrà semplicemente dire che farò
molti straordinari”. “Se disposta a fare molti
sacrifici per tua madre." commentò seccamente Patricia.
“Anche tu lo faresti, per la tua” disse Jane in
tono naturale.
Patricia fece una smorfia. “Mia madre non può
ammalarsi. Una malattia è una cosa decisamente troppo umana
per un essere perfetto come lei” rispose in tono fra
l’amaro e il sarcastico. Jane la fissò incuriosita.
CENTRALE DI POLIZIA-SALA
INTERROGATORI
“Sei libero” annunciò White a Steven ,
dopo avere finito di leggere il rapporto della scientifica.
“Malley si è sparato, come dicevi tu. Resta da
capire il perché…tu puoi aiutarmi?”
“Non saprei cosa dirti. Diceva cose senza senso,
evidentemente delirava” replicò Steven.
“Posso lasciare questa sala o devo rimanere “a
disposizione”? “ concluse in tono solo leggermente
ironico.
“Terremo in consegna la tua arma, ma puoi andare”
rispose White “E può andarsene anche il tuo amico.
Abbiamo accertato che è un agente dell’Ottavo
Dipartimento”. Steven annuì e uscì
dalla stanza, incontrando Frank che stava discutendo animatamente con
Harriett. Parrish lo sorvegliava dall’altro lato del
corridoio. “Saluta i tuoi amici, si va…sempre che
tu abbia ancora voglia di seguirmi”annunciò Steven
. Frank annuì e salutò Harriett.
“Arrivederci, capitano.” “Arrivederci,
Frank. E non metterti in troppi pasticci questa volta.
Steven e Frank uscirono rapidamente dal posto di polizia. “Li
lasciamo andare così?” domandò Parrish,
stupito, a Harriett. “Naturalmente no. Seguili, penso che
questa volta Frank Beaumont abbia veramente fra le mani un caso che
scotta” replicò Harriett.
AUTOMOBILE DI STEVEN
“E’ strano che ci abbiano lasciati andare
così rapidamente, però.”
commentò Frank. Steven scosse leggermente la testa.
“Ci metteranno alle costole qualcuno e cercheranno di
scoprire il più possibile sulle nostre indagini”
rispose. “Allora che facciamo?” domandò
Frank con aria incerta. “Andiamo a trovare il famoso
fidanzato, Mr. Harvey Krakowski. Lascia che ci seguano, almeno
capiranno che razza di ginepraio è questa
indagine” concluse Steven, avviando l’automobile.
CAFFE’ PASCUCCI
La porta del locale si aprì di scatto, lasciando entrare
Dan. Jane sorrise al suo capo e lo invitò a sedersi.
“Sapevo che ti avrei trovato qui” iniziò
Dan “ma non mi aspettavo certo di trovare te,
Patricia”. “Jane mi ha
convinto”spiegò Patricia. “Diciamo pure
costretto, ma a fin di bene” commentò Jane.
“Sono contenta che tu sia venuto qui, capo, dovevo
parlarti” concluse.
“Spara pure, ma prima lasciami almeno sedere”
rispose Dan, accomodandosi su una sedia vicina. “Si tratta di
mia madre…Ginevra” iniziò Jane dopo
avere inspirato profondamente. “Come sta?” chiese
Dan quest’ultimo senza scomporsi. “Molto male. Le
servono delle cure speciali in una clinica privata. Ho pensato di
chiedere un prestito:farò molti straordinari”
rispose Jane, in tono forzatamente tranquillo.
“Dove dovrebbe essere ricoverata?” chiese Dan
appoggiando un braccio sul tavolo. “Al Saint James. Mi
servono ventimila dollari, ma ce la farò” rispose
con aria decisa Jane. Alle parole “Saint James” il
volto di Dan divenne bianco. Patricia notò un lampo di paura
negli occhi del suo capo, che non si seppe spiegare. “Volevo
solo chiederti un anticipo sullo stipendio. Ti ripagherò in
straordinarii” promise Jane. “Chi ti ha parlato del
Saint James?” le chiese Dan, tentando di dare alla sua voce
un tono naturale. “Un infermiere. Ma quale è il
problema?” replicò Jane. “Non
è l’ospedale adatto a tua madre. Sarebbe una spesa
inutile. Se servono delle cure più costose, non
c’è problema, può farle comunque al
Northwestern”.
“E’ una cura sperimentale”
affermò Jane scuotendo la testa. “Mi dispiace,
Jane, ma non credo che il Saint James sia una scelta adatta”
rispose seccamente Dan, alzandosi dal tavolo. “Ti
anticiperò lo stipendio solo se tua madre rimarrà
ricoverata al Northwestern.” “Perché?
Quale è la differenza?” esclamò Jane a
voce alta. “Spenderesti i tuoi soldi inutilmente. Non farti
tentare dalle false speranze. Mi dispiace” concluse Dan,
aprendo la porta del bar e precipitandosi fuori dal locale. Jane,
stupefatta, non ebbe modo di replicare. Patricia si alzò in
piedi e seguì Dan.
FREEMONT STREET, 13- CASA
DI HARVEY KRAKOWSKI
Steven e Frank erano già scesi dalla loro automobile e si
avvicinavano al villino al numero tredici. L’agente Parrish,
che li seguiva su un auto anonima, afferrò il suo cellulare
e si mise in comunicazione con Harriett.
CENTRALE DI POLIZIA
L’agente White passeggiava nervosamente nel corridoio.
Harriett, che teneva il suo telefonino premuto all’orecchio,
gli lanciò un’occhiata di rimprovero. “A
che numero?” mormorò nell’apparecchio.
FREEMONT STREET, 13
“Tredici, signora. Stanno per entrare, attivo il microfono
parabolico?” rispose Parrish, tamburellando con le mani sul
volante. All’improvviso notò Kerman e Taggart,
vestiti di nero, che si avvicinavano dall’altro lato della
casa. I nuovi arrivati erano entrambi armati di pistola. “Due
nuovi, armati, probabilmente ostili” riferì al
telefono Parrish. “Intervengo?”
CENTRALE DI POLIZIA
“Non ancora” ordinò Harriett
“Dobbiamo” iniziò, prima che una mano
muscolosa le strappasse di mano il cellulare. Stupefatta, Harriett si
voltò di scatto e si trovò faccia a faccia con
l’agente Gall. “Ridatemelo
immediatamente” esclamò. “Capitano
Hudson, vi consiglio di non complicare ulteriormente la vostra
posizione. L’agente White mi ha arrestato illegalmente, e voi
state interferendo in una indagine federale” rispose Gall,
sicuro di sé stesso. Harriett vide l’agente White
immobilizzato contro il muro da un uomo robusto che sventolava un
distintivo dell’FBI.
“Come può vedere, i miei colleghi sono venuti a
darmi una mano. Altri miei due uomini sono già sul
posto” continuò Gall, leggermente divertito.
“Agente Parrish” aggiunse portando il cellulare di
Harriett all’orecchio “ritorni alla centrale e
faccia arrestare Campbell e Beaumont dai miei colleghi” Non
vi fu risposta.
FREEMONT STREET, 13
Parrish aveva già lasciato l’automobile si era
diretto, pistola in mano, verso la casa. Steven e Frank avevano appena
suonato il campanello. Kerman e Taggart si arrestarono alla vista
dell’agente che avanzava verso di loro. “Mani in
alto!” tuonò Parrish.
Proprio in quel momento la porta si aprì e un ragazzo sui
venticinque anni si affacciò sul pianerottolo. Alla vista di
Steven e Frank, e soprattutto di Parrish che correva verso di loro con
la pistola spianata, il giovane si chiuse la porta alle spalle e si
rintanò all’interno. Kerman e Taggart
approfittarono della distrazione per aprire il fuoco.
Steven spinse Frank a terra e si tuffò a pancia in
giù a sua volta. Parrish, colpito alla spalla,
lasciò cadere la sua arma con un gemito di dolore. Taggart
sparò un paio di colpi che lo costrinsero ad arretrare
rapidamente verso la sua automobile. Steven strisciò verso
una finestra, si alzò improvvisamente in piedi, ruppe il
vetro con un calcio e la aprì, tuffandosi
al’interno della casa.
Il giovane lo guardò stupefatto “Non ho
niente!” urlò “Sono uno studente
universitario, i soldi ce l’hanno i miei!” Steven
gli fece cenno di tacere e aprì di scatto la porta,
trascinando Frank all’interno mentre Kerman e Taggart erano
impegnati in una sparatoria con Parrish.
“Chi siete? Chi sono quegli uomini? Cosa volete?”
balbettò in tono confuso il giovane. “Se
è per rapirmi, i miei possono pagare un riscatto in tempi
brevi.” Steven lo zittì con uno sguardo gelido,
quindi aiutò un altrettanto sorpreso Frank ad alzarsi in
piedi. “Sei Harvey?” gli domandò a
bruciapelo” Si, ma-” “La tua casa ha
un’uscita sul retro?” lo interruppe Steven.
“Sì, non la uso quasi mai.” Steven fece
un cenno a Frank e afferrò il braccio destro del giovane
“Seguici” gli ordinò. Frank prese a sua
volta il braccio sinistro del ragazzo e i tre i misero a correre
attraverso l’atrio. “E’ nel
corridoio” rispose il giovane allo sguardo interrogativo di
Steven.
L’investigatore privato annuì e, notando la porta,
la aprì con un calcio. I tre si precipitarono fuori.
“Ora statemi bene a sentire” iniziò
Steven “vado a riprendere la nostra auto. Voi rimanete qui e
se non torno entro cinque minuti, scappate” concluse,
strisciando lungo il muro della casa. “Fa sempre
così” si scusò Frank, porgendo una mano
ad un terrorizzato Harvey. “A proposito, io sono Frank
Beaumont” concluse con un sorriso orgoglioso.
VICOLO-VICINO AL
CAFFE’ PASCUCCI
“Mi avevi detto che la mia segretaria non sarebbe stata
coinvolta!” sbottò Dan al telefono. “Non
importa niente del fatto che lo abbiano fatto Loro, trova un modo per
tirarla fuori o il nostro accordo salta!” concluse, furioso.
Patricia lo raggiunse proprio in quel momento. “Devo
lasciarti, ci sentiamo più tardi”
mormorò Dan, concludendo la conversazione.
“Patricia, cosa ci fai qui?” esclamò
subito dopo, scrutando il suo avvocato.
“Signore, non pretendo di conoscere tutti i suoi segreti. Non
lo desidero nemmeno. Ma non ho potuto fare a meno di notare come il
nome “Saint James” la abbia sconvolto.”
iniziò Patricia, fissando Dan dritto negli occhi.
“Abbiamo tutti i nostri segreti, Patricia” rispose
Dan “Aiuterò Jane, ma sua madre non deve mettere
piede in quell’ospedale. Trova le parole giuste,
convincila.” Patricia annuì. “Un giorno,
molto presto, non ci saranno più segreti” promise
Dan. Patricia annuì di nuovo e si avviò verso il
locale.
Dan rimase a guardarla e sospirò. Riprese il suo cellulare e
compose un numero. Patricia lo osservò attentamente e prese
a sua volta il suo telefonino.”Sono io” si
presentò “Ho delle informazioni che ti potrebbero
interessare” “Che sorpresa” rispose la
voce del messicano che aveva incontrato allo zoo. “Che cosa
hai da dirmi sul tuo nuovo collega?” “Niente su di
lui. Ma il mio capo è rimasto sconvolto da un certo
“ospedale Saint James”. Spaventato come non lo
avevo mai visto. Ti interessa?”
Il messicano si mise a ridere. “Faresti qualsiasi cosa per
riavere quella cassetta, vero?” commentò
divertito. “Non mi dici niente che io già non
sappia. Il tuo capo è una pezzo importante nel nostro
gioco.” “Quale gioco?” domandò
Patricia spazientita. “Ti piacerebbe saperlo,
vero?” la stuzzicò il suo interlocutore.
“Ottimo lavoro comunque, così ti voglio”
concluse. Patricia non riuscì a rispondere e si morse la
labbra.
FREEMONT STREET, 13
Kerman e Taggart stavano ancora sparando a Parrish, che aveva appena
ricaricato la sua arma e rispondeva al fuoco, costringendoli a
ripararsi dietro l’angolo del villino. “Non
lasciargli tempo di chiamare rinforzi!” urlò
Taggart a Kerman, che annuì e sparò quattro colpi.
Steven, nel frattempo, stava strisciando alle loro spalle verso la sua
automobile. Parrish lo notò e aprì il finestrino
destro della sua automobile, puntando la pistola nella sua direzione.
“Fermo!” urlò, mentre Kerman si voltava
verso Steven sorridendo e prendendo la mira. Maledicendo Parrish,
Steven si tuffò dietro a una siepe e afferrò un
sasso.
Nel frattempo Taggart costringeva Parrish a rimanere nella sua
automobile con una raffica. Kerman si avvicinò alla siepe,
sempre sorridendo. “Giocare a nascondino non
servirà a molto” commentò ridacchiando.
Steven si alzò in piedi di scatto e lanciò il
sasso,colpendo Kerman in pieno petto. L’uomo si
accasciò con un gemito.
Steven ne approfittò e raggiunse la sua automobile. Taggart,
ancora impegnato a tenere a bada Parrish, non riuscì a
fermarlo. Steven avviò il motore, inserì la prima
e si lanciò nel giardino, passando sul retro della casa.
“Salite!” ordinò a Frank e Harvey. I due
non se lo fecero ripetere due volte e si tuffarono nella macchina, che
si allontanò a tutta velocità, costringendo
Kerman a tuffarsi nella siepe. Taggart tentò di bloccare
l’auto sparando alle gomme, senza successo.
FUORI
CITTA’-PIU’ TARDI
Steven parcheggiò l’automobile in una piazzola di
sosta. Harvey, seduto sul sedile posteriore vicino a Frank,
guardò fuori dal finestrino. “Non
c’è nulla qui” commentò, con
un accenno di paura nella voce. “E’ per questo che
ci fermiamo qui” rispose Steven. Frank annuì
soddisfatto.
“Cosa volete fare, torturarmi? Non so nulla, non ho
nulla!” si lamentò ancora Harvey. Frank
sbuffò “Noi siamo i buoni, razza di
testone!” esclamò “Non l’avevi
ancora capito? Ti abbiamo salvato la pelle! Vedi questo?”
aggiunse, sventolando il suo distintivo sotto il naso del povero Harvey
“Sai che vuol dire? Polizia, quindi buone notizie per te, a
meno che tu non sia uno dei cattivi della storia!” Harvey
annuì debolmente.
Steven si girò verso i sedili posteriori e fissò
il ragazzo dritto negli occhi. “Harvey, dici di non sapere
nulla, ma non è vero” cominciò
“Conosci una ragazza di nome Paula Cantrell?”
“Non ho mai sentito quel nome!” sbottò
Harvey. “E allora come mai sua madre ci ha detto che eri il
suo fidanzato?” chiese Steven in tono secco. “Si
sarà confusa con qualcun altro”replicò
Harvey, visibilmente nervoso. “Già, il numero
tredici di Freemont Street deve essere pieno di Harvey
Krakowski.” commentò Steven in tono sarcastico.
“Poche storie. Tu conoscevi Paula meglio di chiunque altro.
Di sicuro meglio di sua madre, che non se ne curava più da
anni.”
“Ti ripeto che non so di chi stai parlando” rispose
Harvey. “Era bella, non è vero?”
continuò Steven, ignorandolo “Talmente bella che
non riuscivi a credere che potesse stare con uno come te, e infatti era
una ragazza povera ma furba e tu uno stupido ragazzo ricco. Forse
quando è sparita lo hai capito e ti sei sentito preso in
giro, umiliato, la hai immaginata che rideva fra le braccia di un
altro.” “Basta!” sbottò Harvey
“Lei non è così!”
sibilò fra i denti. “Non è
così chi? Non dicevi di non conoscerla?”
rilevò Steven. Harvey si morse la labbra.
“La conosco” ammise dopo una breve pausa.
“Continua” lo esortò Steven.
“Era la mia ragazza. Frequentavamo lo stesso locale, il
“Greenwich”, è un posto piccolo , ma la
musica è molto buona. Lei era, cioè è,
fantastica. In tutti i sensi: sexy, simpatica e intelligente. E non le
importava niente dei miei soldi” aggiunse, in tono convinto.
Frank sorrise divertito “Beh, non puoi saperlo.
Magari…” iniziò, fermandosi quando
notò lo sguardo gelido di Steven. “Cosa sai sulla
sua famiglia?” domandò Steven in tono calmo.
“Non molto. La madre è una vecchia strega, fa
spavento. Non c’era un padre, o almeno Paula non sapeva
niente. Fratelli o sorelle non ne aveva. Mi aveva parlato di una zia
una volta, ma non me ne ricordo bene…”
“Perché non volevi parlarne?” chiese
ancora Steven. Harvey sospirò. “Io non so nulla
della sua scomparsa. Ci eravamo lasciati tre mesi prima. Lei non aveva
voluto dirmi perché, solo che non eravamo “fatti
per vivere insieme”. Ho sofferto come un cane, ma
è stato anche peggio quando è sparita. Mi hanno
fatto molte domande. Tutti: poliziotti, assistenti sociali, persino i
miei. Un poliziotto si era anche convinto che l’avessi uccisa
io.” “E l’hai fatto?” chiese
Frank facendo una smorfia. Steven alzò gli occhi al cielo,
ma non disse nulla.
“Vi ripeto che non so nulla di come se ne è
andata! Viveva con i suoi amici, i Polk, da un mese. Parlate con
loro” “I Polk sono morti”
ribattè seccamente Steven. “Non
c’è nulla di strano, di insolito diciamo, che hai
notato in Paula? Qualche mistero, qualche frequentazione particolare?
Magari un diario segreto?” “Diceva sempre di essere
troppo vecchia per avere un diario” rispose Harvey, scuotendo
la testa. “Non mi viene in mente nulla.”
“Fai uno sforzo” lo incitò Steven.
Harvey rimase in silenzio per qualche istante, prima di esclamare:
“Le due ore vuote”.
“Ore vuote? Che razza di linguaggio è, lo hai
inventato tu?” chiese Frank in tono leggermente beffardo.
Steven gli afferrò il posto e lo strinse, facendolo
smettere. “Ogni venerdì non la vedevo per due ore,
dalle due alle quattro. Mi aveva raccontato di passarle in piscina, ma
una volta ho avuto una botta di gelosia e l’ho seguita. Mi ha
seminato nella metropolitana, così non dove era diretta, ma
di sicuro non andava in piscina. Il giorno dopo ha detto di avermi
visto e mi sono vergognato come un ladro. Le ho chiesto dove era
andata, ma non mi ha risposto. Si è solo arrabbiata per la
mia mancanza di fiducia” Steven annuì.
“Niente altro?” domandò fissando Harvey
dritto negli occhi.
“Non mi ricordo altro” rispose Harvey, distrutto.
“Adesso mi arresterete, vero?” “Non ci
abbiamo mai nemmeno pensato” rispose Steven.
“Ascoltami: ti stanno cercando. Non so perché, ma
la tua ragazza scomparsa è roba che scotta. Hai visto che
c’è gente disposta ad uccidere per il suo segreto.
Il mio consiglio è uno solo: vattene. Hai amici da qualche
parte fuori Chicago?”
“No… a meno che non contiamo un’amica di
Paula. Si chiama Zoe qualche cosa Vive a Delavan, vicino al lago.
Andavamo da lei qualche volta…ha un loft e dava le chiavi a
Paula” Steven si immobilizzò e lo
scrutò incredulo. “Perché non me lo hai
detto prima?” “Non me lo avevi chiesto!”
sbottò Harvey.
“Bene. Allora i nostri piani cambiano. Si va tutti a Delavan,
e tu ci farai da guida” proclamò Steven.
“Cosa…perché?”
protestò il ragazzo. Frank sbuffò di nuovo.
“Capisco perché quella povera ragazza ti ha
lasciato: come computer saresti un Game Boy! Sei proprio tonto, non
capisci che se quella Zoe è amica di Paula forse sa
qualcosa?” “Ma io non posso andarmene
così…ho da fare… e poi non so
nulla!” si lamentò Harvey.
“Se preferisci rimanere qui e lasciare che i nostri amici ti
aprano un terzo occhio in mezzo alla fronte o ti spediscano in galera
per un paio d’anni, accomodati” commentò
Steven. “Se invece ci tieni alla pelle e alla
libertà, portarci a Delavan è un buon primo
passo” Harvey sospirò ancora e annuì.
“Delavan, arriviamo” commentò Frank,
mentre Steven avviava il motore.
NORTHWESTERN HOSPITAL
L’infermiera Katie vegliava nel corridoio dei lungodegenti,
mangiandosi le unghie. Un rumore sommesso di passi si fece sempre
più forte. Katie si girò di scatto, incontrando
Parker, il falso infermiere che aveva consigliato la clinica
“Saint James” a Jane. Katie scrutò il
nuovo venuto. “Non ti ho mai visto”
sbottò. “Che ci fai qui?”
“Sostituisco Collins. Si è preso un brutto
raffreddore” rispose prontamente Parker.
Katie si rilassò. “E’ stato un bel
gesto” commentò. “Ti vedo stanca, ti do
il cambio?” suggerì Parker. Katie
annuì, soddisfatta. “Il turno di Collins finisce
fra sei ore. Pensi di farcela?” commentò
sbadigliando. “Certo” rispose Parker, con un
sorriso indefinibile. Katie annuì. “Buonanotte,
allora”
La salutò Parker. Katie rispose con un mugolio.
Parker aspettò che Katie fosse uscita dal corridoio per
entrare nella stanza di Ginevra Shelby. Si avvicinò al letto
della malata e prese una siringa che conteneva un liquido giallo da una
tasca del suo camice bianco e ne controllò la
quantità. Stava per iniettarla nel braccio di Ginevra quando
Katie entrò nella stanza. “Che stai
facendo?” sussurrò.
Parker abbozzò un falso sorriso. “Do la medicina
alla paziente” Katie scosse la testa. “Mi avevano
messo in guardia su un possibile attacco alla signora Shelby”
mormorò. “Ora li chiamo”. Parker,
disperato, afferrò la siringa e la iniettò nella
gamba di Katie , che urlò per il dolore, svegliando Ginevra,
che si mise ad urlare a sua volta per la paura.
Preso tra due fuochi, Parker diede un calcio a Katie e
afferrò la sua pistola. Katie si rifugiò a fatica
sotto il letto e compose un numero. “Aiuto!Vogliono uccidere
la signora Shelby!” urlò al telefono e a tutto
l’ospedale. Innervosito, Parker riafferrò la sua
siringa e, tentando di tenere ferma Ginevra, le iniettò il
contenuto in una spalla. La donna urlò di nuovo e Parker la
stordì con il calcio della pistola, per poi applicare un
silenziatore, chinarsi sotto il letto e sparare Katie, uccidendola sul
colpo.
Un rumore di passi si faceva sempre più vicino. Disperato,
Parker prese il corpo di Katie e lo sollevò a fatica fino ad
una finestra. Con un ultimo sforzo lo fece precipitare di sotto, non
prima di avere lanciato un’occhiata a Ginevra, che ora
giaceva priva di conoscenza sul suo letto. Parker uscì
rapidamente dalla finestra, evitando per un pelo di essere visto dai
tre infermieri che erano accorsi alle urla e raggiungendo la scala
d’emergenza.
I paramedici si affannarono attorno al corpo di Ginevra, urlandosi
l’uno l’altro istruzioni. Parker scese rapidamente
la scala d’emergenza e recuperò il corpo
malridotto di Katie, trascinandolo fino alla sua automobile per poi
partire rapidamente.
CASA DI DAN WEISSMAN
Dan stava vestendosi rapidamente. Il messaggio vocale che aveva
ricevuto dall’infermiera che aveva pagato per sorvegliare
Ginevra era stato uno shock. Doveva assolutamente arrivare in ospedale
al più presto.
Il suo telefono squillò di nuovo. Sbuffando di impazienza,
Dan prese rapidamente la cornetta. “Il signor
Weissman?” chiese una voce maschile all’altro capo
della linea. “Sono io. Perché mi ha
chiamato?” rispose rapidamente. “Sono un infermiere
del Northwestern Hospital. Abbiamo tentato di avvertire la signorina
Shelby, ma è irraggiungibile, forse ha spento il telefonino.
Lei era il secondo nome della lista.” riferì la
voce. “Quale lista?” chiese Dan.
Un brivido gli percorse la schiena. “Ci dispiace disturbarla
a questa ora, ma la signora Shelby ha avuto un collasso qualche minuto
fa. Se vuole avvertire la figlia e portarla qui.”
continuò l’infermiere.
“Un collasso? Quanto grave?” si informò
nervosamente Dan. L’infermiere sospirò
“Signor Weissman, Ginevra Shelby è
morta.”
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