Auotre:
Avalon9
Titolo: Notte di pioggia
Genere:
Introspettivo; Malinconico; Slice of
live
Personaggi: Dick Grayson/Nightwing;
Jason Todd/Red Hood
Altri
personaggi: Bruce Wayne/Batman; Tim
Drake; Damian Wayne e
alcuni altri; solo nominate.
Raiting: Arancione
In
proposito: Jason e Dick.
Un casco. Due birre. Forse anche l’insulto è un modo per parlarsi, durante una
notte di pioggia in cui tutto quello che senti sono i tuoi pensieri e vorresti
metterli a tacere?
Disclaimer: Batman,
Nightwing e compagnia sono di DComics
Note: one shot; missing moments
Cose: Ok. È la prima volta in questo fandom. È la prima volta con questi due. È la prima volta
con questo linguaggio. Insomma: è la prima volta per molte cose. Diciamo che il
periodo è quello che è, e questa storia mi ha fornito l’occasione per sfogarmi
un po’. Tanto, se vogliamo esser sinceri.
Ma andiamo avanti.
Le cose serie.
Prima di tutto il backgorund.
Ho scoperto che la
cronologia di Batman è un rompicapo travestito da sudoku
e ficcato dentro una scatola cinese. Qualcosa di lineare c’è, ma giusto a
cercarla con il lumicino. Di conseguenza, ho pescato da un po’ di cose sparse.
Ho pescato dal New 53, dalle vecchie edizioni della DeAgostini, dalla tesata di
Nightwing, da quella di Red Hodd,
dalle novels e da qualche altra cosa arrabattata qua
e là. Ne è venuta fuori una story-line che sembra un
enorme rammendo, in cui ho cercato di mettere assieme gli episodi cardine con
una logica non contraddittoria. Almeno in apparenza. Penso ne sia venuto fuori
una sorta di universo personale. Ma questo è il risultato, ormai.
Poi. I personaggi.
C’è a chi non
piacciono le storie lente, e nei comics cercano
l’azione. C’è chi Jason non l’ha mai digerito, e devono esser stati tanti se in
quel 1989, dopo appena sei anni di vita, votano per farlo crepare, per mano del
Joker poi, non del villain
qualunque. C’è chi vede in Dick solo Robin e chi pensa che Nightwing
sia il suo vero essere.
Io, personalmente,
li amo tutti e due. A differenza di Batman, che in alcune serie appare
granitico, davvero avulso dalla realtà che lo circonda, Dick e Jason sono
assieme eroi e ragazzi. Ragazzi sì, non adolescenti. Per quel ruolo c’è Tim,
c’è Damian. Jason e Dick sono lì a metà, troppo
grandi per avere le illusioni dei ragazzini e troppo piccoli per essere
disillusi come Batman. Provano, sbagliano, collezionano magre figure e provano
la soddisfazione di una vittoria. Ma sono soprattutto umani, e per questo sono
ragazzi. Con il loro modo di vedere il mondo, di affrontararlo.
Jason è un bastardo.
Questo è un dato di fatto. A volte glielo dicono; altre se lo dice lui. Quindi
no. Non aspettatevi qualcosa di eticamente corretto. Perché questi due, se
potesse, davvero a volte si ammazzerebbero a vicenda. Giusto a volte. Per far
passare il tempo. E Dick sarà anche l’eroe che si è emancipato da Batman, ma
resta pur sempre un ragazzo con una lunga serie di delusioni sulle spalle.
Perche proprio questi due, quindi? Perché li ho amati. Per me sono l’aspetto
più umano e realistico di tutta la serie. E’ un po’ come se con loro si
vedessero le due scelte possibili: quella “giusta” di Dick e quella “sbagliata”
di Jason. Se poi si considera che quello che fanno a volte li porta a
scambiarsi di posto, allora è palese come siano l’alternativa alla visione di
Bruce di un mondo o bianco o nero. Loro due, a modo loro, sono il compromesso.
E che forse si detestino per questo è tutt’altra questione.
Infine, la lunghezza. Lo so che una one shot di questa dimensione non
si trova di solito. E che si potrebbe spezzare; almeno in un paio di capitolo.
Ma ho scelto così; ho scelto di mettere tanta carne al fuoco in una volta e
lasciare che si cuoca un po’. Qualcosa è venuto bello cotto; qualcosa è rimasto
crudo. Qualcosa si è cotto a metà. Ma alzi la mano chi può assicura con
certezza di aver iniziato e finito un discorso in modo logico e coerente quando
passa a trovarti un amico e ti metti a parlare della prima cosa che hai per la
testa. Spari idiozie. E poi cose serie. E poi di nuovo idiozie. E ridi; e ti
becchi un bel pugno nello stomaco. E forse ti accorgi che ci sono momenti anche
così, dove l’umore se ne va su e giù come in altalena.
Quindi no. Non
voglio dividere questa storia; ve la sorbite con la sua bella lunghezza^^
Notte di pioggia
“Che vuoi?”
Non che si aspettasse
un’accoglienza migliore, sia chiaro.
Un ehi o che sorpresa! non
erano fra le opzioni che aveva contemplato. Non sarebbe nemmeno stato da loro,
dopo che avevano passato anni a ringhiarsi addosso
per qualsiasi motivo. Con tutto quell’astio che era più simile ai capricci di
un bambino. Ma in fondo lo erano, bambini. Almeno a quel tempo.
Probabilmente non si
sono mai intesi, loro due. E nessuno dei due ha mai avuto la voglia, e la
pazienza, di provare a intavolare una discussione civile; soprattutto dopo
quello che era successo. Se non cercano di pestarsi a vicenda, quando non di
ammazzarsi, sono arrivati al punto di ignorarsi.
L’insultarsi non conta.
Quello è d’obbligo fra loro, almeno ogni quattro parole.
Quindi no. Non si
aspettava di essere accolto a braccia aperte, ma nemmeno che gli ringhiasse
contro in quel modo. Come una bestia che difende il suo territorio, la sua
tana.
Ed è sicuro di aver
anche visto un fremito nelle mani, quella voglia che deve divorarlo di
saltargli al collo e sbranando. Metaforicamente parlando. O almeno ci spera. Nella
metafora.
“Non mi fai nemmeno
entrare?”
Adesso parte, ne è sicuro, e si prepara a parare e rispondere
all’assalto. Finirà in rissa; è scontato. Se ne tornerà a casa con qualche osso
rotto, due o tre contusioni gravi e una voglia matta di ridere. Alfred dovrà
anche rimettergli i punti a quella dannata ferita alla spalla di tre giorni prima.
E gliele canterà. Con ironia e sarcasmo, certo; come solo Alfred sa fare. Ma
gliele canterà; e gliela farà pagare. Poco ma sicuro.
Perché in fondo, se
alle mani ci arriveranno, sarà anche per colpa sua. Soprattutto per colpa sua.
Perché lo sta
provocando. Lo sta fottutamente provocando, lo sa e si sta divertendo un mondo
nel farlo. E non gliene frega niente del fatto che è lui, quello che dovrebbe
mostrare giudizio.
Si è stufato di quel
ruolo del bravo ragazzo che deve fare
da modello a tutti. Tanto più che, ad onor del vero, come modello fa
decisamente schifo. E anche come eroe. Intendiamoci. Qualche bella vittoria è
anche riuscita a ottenerla; e le sue rivincite se le è anche prese, certo. A
fatica e con tante ammaccature, ma se l’è prese. E in un modo o nell’altro c’è
riuscito, a fare l’eroe. Un eroe maldestro, più veloce a ferire con la lingua
che con le mani. Un eroe che, alla principessa di turno, si presenta con una
pizza e un sorriso di quelli che non capisci mai se devi prendere sul serio o è
una nuova specie di maschera. Ma, ehi, in fondo tutta la sua vita è un
maldestro tentativo di stare a galla.
In fondo, anche andare
da lui è qualcosa di maldestro.
E stupido. Decisamente
stupido.
Perché lo sa che
litigheranno. Lo hanno sempre fatto.
Perché fra loro è così,
da sempre. Sono due treni che corrono l’uno verso l’altro; e quando si
scontrano si scontrano. E non c’è nulla da fare.
“Purchè
sia una cosa veloce.”
Questa è nuova. O il
mondo ha preso a girare al contrario o ha battuto la testa. Perché non ci
riesce ancora a credere, che lo stia facendo entrare. Non riesce a credere di
sentire il clack
della porta e di non vederselo saltare addosso. Con una pistola; o anche senza
perché tanto non cambierebbe nulla e per ammazzarlo, nelle condizioni in cui è,
basterebbero davvero solo dieci secondi e delle mani strette attorno alla gola.
“Bel posto” fischia,
cercando di mandar giù la sensazione di soffocamento che si è creato da solo.
Perché cazzo ci sta pensando, adesso, al rumore che fa un pomo d’Adamo mentre
si spacca? Sì, bhè. È un rumore che conosce. Certo.
Ma non è proprio l’ultimo suono che desidererebbe sentire. Proprio no.
“Risparmiami.”
Perfetto. Adesso fa
anche il sarcastico. Quanto lo odia in quei casi. O forse non lo odia per
quella lingua lunga che gli ricorda la sua. Era anche bello giocare a chi
avesse l’ultima parola. Era divertente, quando si scambiavano due parole
durante le pattuglie, pungolarsi un po’.
No. Non lo odia per
quel modo che ha di togliere valore a tutto. Lo odia perché con quel suo modo
di fare è riuscito a far ridere lui.
Ridere di pancia. Una risata vera. Insomma: quella che lui non è mai riuscito a
fargli fare. E ormai ci ha messo una pietra sopra, alla possibilità di
riuscirci. Un’altra voce da aggiungere alla sua personale lista di cose che non è riuscito a fare.
“Allora? Cosa vuoi Grayson?”
“Non sei molto
ospitale, Todd.”
Bravo. Davvero. C’è la
possibilità di uscirne senza sbranarsi, e adesso è lui che si mette a fare il
sarcastico. Una trovata davvero geniale. E poi lo sa che non gli piace sentirsi
chiamare in quel modo. Non da lui, almeno. Anche se, a onor del vero, Dick non
ha idea di come dovrebbe chiamarlo.
Ragazzino.
Gli è passato per la
testa, certo. Per due microsecondi. E poi lo ha ricacciato in fondo al
cervello. Ragazzino lo chiamava
quando aveva undici anni e lui si sentiva già un uomo, si sentiva in qualche modo
responsabile. Di cosa cazzo dovesse sentirsi responsabile, poi, lo deve ancora
scoprire. O più semplicemente non se lo vuole ricordare. Perché è un’altra
delusione. E quella delle delusioni, di lista, è la più lunga che abbia. Tanto
che si è stufato di aggiornarla e l’ha chiusa in un cassetto. In fondo, nella
vita, vai avanti calpestando le tue delusioni; ce la costruisce anche, sulle
delusioni, la tua vita. E quindi tenerne il conto è una zavorra che si è
stufato di portarsi dietro.
E allora che ci faccio qui?
“Non ricordo di averti
invitato.”
“Mi hai lasciato
entrare.”
Ecco. Perfetto.
Ricordagli il deficiente che sei e che ti sei ficcato in trappola da solo.
Ricordagli che ti sei offerto, che hai insistito,
per mettere la testa fra le fauci del leone e che adesso te ne resti lì ad
aspettare di sentirti quelle zanne nella gola. Così. Giusto per vedere quanto
ci vuole a staccare la testa ad un uomo. Gli serve una vacanza. Decisamente. O un buon psicoterapista.
“Un errore cui sto per
porre rimedio” minaccia Jason, e l’occhiata verso la bella parete attrezzata di
armi da taglio è più che eloquente. Ma non fa nulla. E sembra stanco. Tanto.
“Ripeto: cosa vuoi?”
“Pensavo lo rivolessi.”
Boom.
Ci ha pensato
seriamente a come sganciare la bomba. Ci ha pensato per tutto il tempo che ha
guidato dalla caverna. E si era preparato qualcosa come dieci o quindici
possibili scenari e discorsi. Neanche avesse dovuto pianificare l’intrusione in
una fortezza nemica. Non è mai stato granchè con i
discorsi, lui. E Bruce non è un buon modello, per quello. Oh, di parole quando
stavano assieme ne diceva fin troppe. E anche dopo, durante le sue ronde
solitarie, il vizio di parlare da solo non lo ha mica perso. Ma quello non è
proprio un discorso. Cazzo! Non puoi
chiamare discorso l’accozzaglia di parole che gli escono dalla bocca per far
funzionare il cervello.
Forse ne aveva anche
trovato uno, di discorso, alla fine. Ma è certo di esserselo dimenticato. E si
è ritrovato a gettargli quel casco come fosse una mela. Con quattro parole che
potresti dire all’amico cui devi riportare il CD che
ti sei tenuto una vita e che hai trovato per caso in fondo ad un cassetto, o
sotto al letto, giusto perché tua madre ha minacciato di svuotarti la stanza,
se non le dai una ripulita.
“Gliel’hai fottuto?”
“Non proprio” ridacchia
Dick.
E si chiede perché la
faccia di Jason gli piaccia così tanto. Cazzo. È la faccia di un bambino che ha
appena ricevuto l’autografo del suo idolo. E che sta cercando di capire se
mettersi a saltare di gioia o darsi un pizzicotto per capire se sia vero o no.
È la faccia che Dick pensa di aver fatto la prima volta che è salito sul
trapezio. Quando starsene lassù, a quindici metri dal suolo, non era ancora
l’abitudine ma il primo brivido di un traguardo raggiunto senza sapere
esattamente per dove si era passati, per arrivarci.
Jason ha quella faccia.
E davvero gli sembra un ragazzino,
nonostante i suoi diciannove anni e quei vestiti da duro che indossa. Ma si guarderà bene dal dirglielo, è sicuro.
“Diciamo piuttosto
preso in prestito a tempo indeterminato.”
In fondo, lui, non l’ha
mai capita quella mania di collezionare tutto. Di accatastare trofei su trofei
giusto per lasciarli a prender polvere nelle scatole e poterli tirare fuori
ogni tanto e riguardarseli. Non che ci sia mai stata davvero polvere, sui
trofei disseminati nella caverna. Alfred ci ha sempre tenuto a puntualizzarlo.
Ma la sostanza non cambia. Bruce è sempre stato una sorta di collezionista
compulsivo; e Damian sembra aver preso quel vizio dal
padre.
“Gliel’hai fottuto.”
Ora ha davvero voglio
di ridere. Di pancia. Ha voglia di ridere fino a non sentire più il fiato e a
non reggersi in piedi per i crampi allo stomaco. Sarebbe anche disposto a
cadere a terra lì, in quel momento, davanti a lui, pur di sentirlo ridere con
lui. E la cosa è assurda. Dannatamente assurda.
“Ehi, ma che vuoi? Si
ritroverà in cambio due nunchaku di prim’ordine” gli
risponde quasi offeso. Perché non può permettersela, quella risata che sente
che vorrebbe risalirgli dallo stomaco. No. Non può permettersela. Però la
faccia incazzata di Damian quando si accorgerà di
quello che gli ha combinato dovrebbe essere un bello spettacolo. Gli costerà
qualche settimana sul chi va là e di
guerra fredda; ma se all’inizio aveva qualche perplessità, l’espressione di
Jason gli ha messo il cuore in pace.
Meglio la sua faccia
idiota di quel momento, che il sogghigno compiaciuto di Damian.
A Dick non è mai piaciuto,
quel sogghigno. E vorrebbe che Bruce facesse qualcosa al riguardo; ma visto che
Bruce non sembra saperne nulla, ha deciso che doveva essere lui a sistemare un
po’ le cose. Perché in fondo con Damian ha anche
imparato ad andarci d’accordo. Ha imparato che ha bisogno dei suoi spazi e
delle sue scenate da primadonna, ma che ha anche bisogno di qualcuno che gli
dia uno schiaffo a muso duro, ogni tanto, e gli dica che sta sbagliando.
Damian
in fondo è davvero un ragazzino, e sta lottando con le unghie e con i denti per
costruirsi un’identità che in un qualche contorto modo è convinto lo farebbe
accettare da suo padre. E metterebbe in ombra lui, Jason e Tim. Soprattutto
Tim.
E io mi ritrovo a fare il fratello maggiore.
E se all’inizio gli
piaceva, quel ruolo, adesso si sta convincendo più che mai di non esserne
all’altezza. Non si sente all’altezza di molte cose, in verità. Ogni volta che,
in fondo, si convince di aver trovato una risposta e un suo posto nel mondo,
succede qualcosa e tutto crolla. E bisogna ricominciare da capo.
Muove un po’ a disagio
la lingua. Il buco del molare che Bruce gli ha fatto saltare con un pungo è
ancora lì. Dovrà passare da un dentista a farselo sistemare; o forse no. Perché
quella in fondo è una cicatrice meno evidente e più profonda di quelle che ha
sul resto del corpo. Perché scoprire che il tuo mondo, quello in cui sei
cresciuto, era un covo di reclutatori, e venir a sapere che eri proprio tu,
quello scelto, e che di te volevano fare una specie di supersoldato immortale
con nelle vene chissà quale schifezza chimica e nella testa un manuale di
tecniche di sopravvivenza ed esecuzione non ti lascai proprio come si dice
indifferente. Non può lasciarti indifferente. Non dovrebbe.
Lui invece ha incassato
il pungo, si è asciugato il sangue ed è tornato a fare il suo lavoro. Quello
che gli ha insegnato Bruce; quello che ha imparato dopo che Bruce lo ha portato
via dal suo mondo, da quell’altro suo lavoro che Dick credeva da bambino che
sarebbe stata tutta la sua esistenza.
Ma le esistenze sono
fatte per essere prese a calci in culo.
Lui ne sa qualcosa; e
ne sa qualcosa anche Jason, che non smette di fissare e rigirarsi fra la mani
il casco di Cappuccio Rosso.
“Sarà meglio che vada.”
E non disturbarti. Conosco la strada.
Dieci passi indietro.
Dieci passi indietro verso la porta blindata e poi fuori, sulle scale che la
pioggerellina di quella nottata deve aver reso viscide come il sapone. E dovrà
starci attento per evitare di farsele di culo e con ben poco decoro.
Ma intanto dieci passi,
la porta blindata e poi fuori. Perché in fondo cos’ha da dire ancora a Jason?
Gli ha ridato il casco.
E su questo potrebbe dovergli spiegare due cosette, forse. Del tipo perché si
sia preso il disturbo di riportarglielo, di persona poi. E di cosa cazzo gliene
freghi, a lui, di quel caso. E vorrebbe saperlo anche lui, in realtà, che
gliene frega di un casco rosso che gli è capitato davanti agli occhi per
inciampo. Soprattutto, però, Dick vorrebbe sapere perché se l’è presa tanto nel
vederlo lì, esposto in quella vetrina. Vederci accanto il suo bastone da eskirma non gli ha fatto lo stesso effetto. Non gli ha
fatto nessun effetto, ad esser onesti. Il casco di Jason invece lo ha mandato
in bestia; tanto che, se Damian gli fosse stato a
portata di mano, gli avrebbe rifilato due schiaffi. Così. Giusto per
ricordargli cosa significhi sentire male.
Però questo è qualcosa
che non è sicuro di voler dire a Jason. Anzi. È sicuro che non vuole che Jason
venga a sapere. Spera solo che lo prenda per quello che è, e lo metta via senza
fare domande. Soprattutto di quelle inopportune che gli sono sempre riuscite
bene e cui non sapeva mai come rispondere esattamente.
Di quelle domande
imbarazzanti; non del tipo e se mi scappa
durante l’appostamento dove la faccio? Perché a una domanda del genere Dick
sa cosa rispondere. No. Le domande di Jason, quelle imbarazzanti, di quando
voleva vederlo annaspare nel suo stesso fiato, erano del tipo perché non parli più con Bruce?
Dannato moccioso.
Ma ormai i dieci passi
li ha fatti; e la maniglia ce l’ha in mano. Jason se l’è lasciato alle spalle
che si specchiava nel riflesso di quel maledetto casco, nemmeno avesse fra le
mani uno specchio magico.
Specchio specchio delle mie brame.
Adesso la abbassa, la
maniglia; se ne torna a casa e se ne va a dormire. Che ne ha davvero bisogno.
Delle miei brame.
“Senti.”
Chi è il più fottuto del reame?
Jason lo ha inchiodato
lì. Non si è mosso, ma Dick ha l’impressione che ogni articolazione gli sia
stata inchiodata alla porta blindata. Si sorprende di non sentire la faccia
spiaccicata sul metallo e di fissare la propria ombra. Ecco. Quella sì che è
spalmata sulla porta. Ed è certo che in qualche modo fra poco la raggiungerà
anche lui. Il problema è, appunto, il modo.
“Io devo farmi una
doccia. No. Non commentare.”
No. Non lo farà. Perché
sarebbe da maleducati sottolineare al suo ospite che puzza come un cane bagnato
e che, se non si mette orizzontale, ha l’impressione che gli cadrà ai piedi da
un momento all’altro. Ma non gli chiederà nemmeno perché lo ha fermati così,
quando due minuti prima non vedeva l’ora di sbatterlo fuori. E ficcarsi a letto
anche in quello stato, giusto per far mattina e mettersi a cercare una nuova
tana in cui andare a leccarsi le ferite.
“Ho delle birre. In
frigo.”
Da quando bevi?
È la domanda più
cretina che poteva farsi. Perché invece di chiedersi dove voglia andare a
parare ha pensato che non ha mai visto Jason bere una birra. Se lo ricorda
ancora con la lattina della Pepsi in mano; se lo ricorda ancora guardarlo
incuriosito mentre lui, di birra, se ne svuotava una quasi d’un fiato, soffocandosi,
dopo una missione che gli aveva lasciato in bocca il sapore del sangue, della
terra e di qualcos’altro. Qualcosa che non se ne voleva proprio andare, nemmeno
con una birra. Si chiede dove fosse, lui, e dove fosse Jason quando si è bevuto
la sua prima birra; e quando ha fatto la prima sbronza e chi gli ha dato
qualche trucco per il dopo sbronza. Tipo i fondi di caffè sotto la lingua e le
due aspirine con il succo d’arancia.
“Bud? chiede invece,
tornando indietro con calma e togliendosi la giacca. Che, per la cronaca, è
fradicia e iniziava proprio a dargli fastidio addosso.
“Ma che? Scherziamo!
Quella è acqua sporca!”
E Dick si ritrova a
sorridere davvero, questa volta, perché Jason ha arricciato il naso e fatto
quella smorfia che gli vedeva sempre quando Alfred gli metteva davanti qualcosa
che proprio non gli piaceva. Come il pesce al forno. Jason odia l’odore del
pesce cotto al sale nel forno; gli da il voltastomaco. E ogni volta faceva
quella faccia e poi inforcava le posate come se volesse uccidere qualcuno e
spazzolava tutto fino all’ultima briciola. Come
i waffel. Anche se erano pastosi.
“Dovrebbero esserci
delle Guinness. O delle Forst. Roba buona, insomma!”
E lo lascia così, in
piedi in mezzo ad una camera con un letto, due sedie e un cucinino che giusto
perché è incassato nella muratura non sembra una cucina da campo. La pioggia ha
preso a scrosciare forte sulla vetrata e il getto della doccia arriva chiaro dalla
stanza accanto, assieme a quella che potrebbe essere l’imitazione mal riuscita
di Stinger e Dick si sente un deficiente, con la giacca in una mano e l’impressione
di essere davvero fuori posto lì dentro.
Alla fine però si
decide a gettare sul termosifone la giacca umida e a prendere una birra dal
frigo. Quando Jason ritorna, una tuta addosso e un asciugamano sui capelli
bagnati, se lo ritrova arrampicato sul davanzale.
“Esistono anche le
sedie. Sai?”
“Sto comodo così.”
Si è tolto le scarpe e
si è accovacciato prima sulla seduta della sedia e poi direttamente sul
davanzale. L’appartamento non è un granché, anche se proprio schifo non fa. Ma
la vista. Quella è. Dick c’è rimasto incantato. Si vede mezza Gotham da lassù, e quel punto rosso lì in mezzo, quello che
si accende e si spegne ogni dieci secondi, deve essere l’antenna di
segnalazione della Wayne Tower.
Jason ce l’ha davanti
agli occhi tutti i giorni, quella torre, con quello che rappresenta. E Dick si
chiede se sia per rabbia o per un contorto senso di nostalgia che se la tiene
ben piantata nella testa e nella vetrata. E se il tempo non facesse schifo come
quella sera e Gotham non fosse avvolta quasi sempre
da una cappa pesante che la fa assomigliare più ad una città vittoriana che ad
una metropoli del XXI secolo, Dick scommette che da lassù si potrebbe anche
vedere il mare. Proprio tutto tutto no, ma almeno
intuirne qualche riflesso giù verso l’angolo in basso a destra sì.
Vorrebbe chiedergli
perché gli ha detto di restare. Insomma: proprio detto no, ma che in qualche
modo volesse trattenerlo quello che lo avrebbe capito anche un cieco. E invece
si limita a fissarlo nel riflesso, mentre si strofina con energia i capelli e
gli mostra le cicatrici che si porta sulla pelle. Alcune sono nuove, altre sono
vecchie di alcuni anni, e Dick si chiede se ci siano anche quelle che gli ha
procurato il Joker.
E se Jason in qualche
modo lo stia sfidando o gli stia sbattendo in faccia un’accusa più assordante
di mille parole.
Meglio non pensarci.
Di cicatrici che fanno
male ne ha anche lui. Quelle di Dent, per esempio.
Quelle che Dent gli ha procurato quando aveva
quattordici anni e lo ha pestato davanti a Batman, davanti a Bruce. Ha avuto
incubi per mesi, dopo. Li ha ancora, ogni tanto. E gli ci sono valuti anni prima
di riuscire a tenere in mano una mazza da baseball senza pensare al rumore che
faceva contro il suo corpo.
Ecco. In quello è
simile a Jason.
Anche lui deve
ricordarsi bene il suono delle sue ossa che si spezzavano sotto il pestaggio
del Joker. E anche il sapore del sangue in bocca e l’umiliazione di sputare
tutto per non soffocare nel proprio vomito. Quello lo hanno provato entrambi;
ma non ne hanno mai parlato.
Non che sia semplice,
per carità. Perché non puoi andare da uno e dirgli Ehi! Ti ricordi quando ti hanno massacrato di botte? È successo anche a
me! Ci scambiamo su quattro chiacchiere?. Giusto? Giusto.
Certe cose te le tieni
per te, e le lasci a macerare in un angolino della testa; uno di quegli
angolini che vuoi dimenticarti di possedere, ma che quando esplodono
all’improvviso, perché li hai riempiti troppo e li hai lasciati lì a fermentare
troppo a lungo, senza ogni tanto far diminuire la pressione, quando scoppiano, e
sai che prima o dopo lo faranno, ti lasciano a terra distrutto. Letteralmente.
Di cicatrici ne ha
tante anche Dick. Quelle di Dent, appunto. O quella
del proiettile del Jocker, quella che si è procurato
alla spalla destra quando di anni ne aveva diciannove. È stato l’inizio della
fine di tutto, quella cicatrice. Perché Bruce gli ha dato il benservito, dopo,
e lui si è ritrovato pieno di rabbia e delusione a cercare di costruirsi
un’altra maschera per non sentirsi di nuovo abbandonato.
Hanno in comune anche
quello, riflette Dick.
Il Jocker
ha strappato loro Robin, e Bruce, un po’ allo stesso modo.
Solo che io non ci ho rimesso la pelle.
È per questo che se ne
resta zitto. E continua a sorseggiare la birra fredda, gli occhi incollati alla
finestra e al suo riflesso. Jason la prederebbe male, quella confessione. E
avrebbe ragione, in fondo. Perché nessuno può sapere davvero cosa vuol dire
sentirsi morto e tornarsene indietro. Nessuno a parte Jason Todd, e se non è
qualcosa di cui Jason si mette a parlare vuol dire che di piacevole non c’è
proprio niente. E Dick non ha la minima intenzione di invischiarsi in un simile
ginepraio solo per fare un po’ di conversazione, solo per fargli capire che
forse loro due non sono poi così diversi.
“Tim come sta?”
Pensava che sarebbe
finita lì: una birra fredda, il tempo per i suoi vestiti umidi di asciugarsi un
po’ e poi lo avrebbe invitato ad andarsene, nello stesso modo in cui gli aveva
detto di restare. Non pensava che avrebbero parlato; non di qualcosa che non
fosse una battuta o un commento piccato. Forse nemmeno quello, perché era stata
una giornata lunga ed entrambi avevano solo voglia di tranquillità.
E invece sembra che
Jason abbia voglia di fare conversazione.
“Come vuoi che stia?”
La risposta gli è
uscita più sgarbata di quanto si fosse aspettato. Dick se ne accorge mentre si
asciuga la birra sul dorso della mano e coglie l’occhiata ironica di Jason nel
riflesso del vetro. Non ha mai capito da quando e perché, ma Jason adora Tim. A
modo suo, prendendolo in giro e litigandoci, ma si fida di Tim. Forse ci si
rivede in qualche modo; forse si sente in qualche modo responsabile di lui come
lui stesso. O forse semplicemente cerca in qualche modo di proteggerlo.
Più semplice ancora,
Tim è probabilmente l’unico che potrebbe capire un po’ Jason. Non perché
condividano esperienze particolari, questo no. Ma perché entrambi sanno cosa
significhi desiderare vendetta e guardare a Bruce cercando la sua approvazione
in un modo spasmodico che sembra a volte avere dell’umiliante.
“Bene. Credo” gli
risponde alla fine, prendendo un altro sorso di birra. “Sta cercando di capire
cosa fare della sua vita. Sai. Non è facile. Ora. Con Damian.”
Jason annuisce appena e
si rilassa un po’ sulla poltrona. Dick gli ricorda un dannato gatto. Di quelli
che ti si infilano in casa con quattro fusa e tu non sai minimamente come
mandare al diavolo. Si è trovato a “sfamarlo” con una birra senza capire perché
gliel’abbia offerta e ora vorrebbe tanto metterlo alla porta. Perché è stanco;
perché ha voglia di ficcarsi a letto e dormire; perché Dick se ne resta lì,
appollaiato sul suo davanzale come fosse la cosa più naturale del mondo e Jason
non capisce se prova fastidio o no.
Non ci ha mai fatto
entrare nemmeno Roy e Kori, in quel buco di casa. E
adesso se ne resta lì tranquillo con uno che fino a poche ore prima era quello
che prendeva a pugni ogni volta che gli capitava a tiro.
La vita è una donna. Stronza per
di più.
“Dì pure che non è
facile con Bruce.”
Dick fa dondolare un
po’ la bottiglia.
Non è mai facile con
Bruce. Questo lo sa bene. Forse lo sa lui meglio di tutti; anche di Jason.
Perché in un certo senso, per Jason, è semplice. Non facile, solo semplice.
Jason odia Bruce. Punto. Fine della storia.
E ci possono essere
mille valide ragioni per quell’odio, ma questo non cambia i fatti. Jason lo
odia. Per quello che ha fatto; e per quello che non ha fatto. Soprattutto per
quello che non ha fatto e si ostina a non fare. Per quell’unica stramaledetta
regola che ha piantato bene anche nella sua testa, dentro fin nella corteccia.
Per quella regola che è il primo dei comandamenti del vangelo di Batman: non
uccidere.
Non. Uccidere. Mai. Nessuno.
Anche se sei fottuto e
tutto ciò che potresti fare è far saltare le cervella a chi ti sta di fronte;
anche se quello che hai per le mani è uno schifoso bastardo, un figlio di
puttana di prima categoria, con una fedina penale che potresti arrotolare mezza
Gotham e tanti amici altolocati che lo tireranno
fuori in dieci minuti. Anche se è uno di quegli che, dopo che tu uno lo sbatti
dentro, dagli tempo qualche mese te lo ritroverai di fronte. Più brutto,
incazzato e bastardo di prima. E allora, in fondo, l’idea che un proiettile o
una di quelle belle mosse che sai fare tanto bene potrebbero sistemare la
situazione ti è passata qualche volta per l’anticamera del cervello. Inutile
negarlo.
Ma poi. Poi resta
quella voce bassa e roca che ti sussurra nella testa non.devi.uccidere. e tutto va al
diavolo e ti ritrovi a fare a pugni con uno che non ci penserebbe due volte a
ficcarti un proiettile in corpo e che, se non ce la fa, è giusto perché tu hai
avuto un po’ più di fattore c di lui.
“Jason.”
Lo chiama. E se ne
resta così, a fissare la bottiglia che si sta riscaldando nelle sue mani. A
fissarsi quelle mani piene di calli e nocche sbucciate che cerca di tenere
sempre in tasca. Se ne resta così e si dà del coglione. Perché non ce la fa.
Non riesce a chiedere a Jason, ad un ragazzino più piccolo di lui di sei anni,
ad un ragazzino che è morto e tornato in vita, cosa si prova ad uccidere.
“Mmm?
Allora?” lo invita quello. “Il gatto ti ha mangiato la lingua?”
Dick sorriderebbe. Se
non si facesse schifo, è sicuro che si metterebbe a ridere. Perché adesso lui
si sente tanto il gatto e ha la spiacevole sensazione che, la lingua, sia stato
quel fottuto pettirosso mancato che gli sta di fronte, a mangiarsela. E senza
dire una parola, cazzo.
“No. Lascia perdere.”
Sì. Decisamente è
meglio lasciar perdere. O gliela farà davvero, quella domanda. Ma intanto sa
che, comunque vada, quella notte la passerà di nuovo sveglio a chiedersi come
mai, quando litigavano come due cuccioli per il mantello del papà, quello a sentirsi inadeguato e
impreparato e inadatto era lui. Lui che avrebbe dovuto essere il maggiore, lui
che avrebbe dovuto sapere esattamente cosa fare; lui che quella scelta l’ha
fatta a nove anni e ha deciso che la vendetta
è migliore se sostituita con la giustizia.
E perché Gotham era più soddisfatta di un Batman violento e
pericoloso, ma che risparmiava alla comunità i dollari del vitto di un
carcerato piuttosto che di un Batman che i delinquenti ce li sbatteva, in carcere.
E soprattutto perché, con Bruce, il problema non si fosse mai posto.
O forse no. Forse si è
sempre posto. Ma in modo diverso; e Bruce, anche quando ricompariva e ti faceva
prudere le mani, quel problema, lo ricacciava indietro e quel comandamento non
sembrava più tanto una scelta possibile, ma l’unica scelta fattibile.
“Sei strano questa
sera. Lo sai?”
“Senti chi parla.”
Perché non era nei
piani di nessuno dei due, passarla così quella serata. Non era previsto né
pianificato in qualche modo di ritrovarsi a fissarsi negli occhi per cercare un
qualcosa che non si sa neanche cosa esattamente sia; o se c’è mai stato.
“Grazie” sputa fuori
alla fine Dick, come se quella parola gli fosse rimasta incastrata in gola fino
a quel momento. Perché in fondo, e lo sanno tutti e due, quel grazie dovrebbe essere qualcun altro a
pronunciarlo. Ma tanto non lo farà mai e Dick, in qualche modo, sente invece
che glielo deve. A Jason. E a quel suo contorto modo di raccattarsi un’altra
possibilità per dimostrare che c’è ancora un po’ del Jason bambino dentro il
ragazzo.
“Per oggi. Per l’aiuto”
gli precisa quando Jason gli lancia un’occhiata che sembra chiedergli a cosa si
stia riferendo. “Per Damian.”
“Damian
è un bastardo” grugnisce Jason alzando le spalle. “Ma in fondo è un bastardo
simpatico. Mi potrebbe anche piacere. Certo. Se non provasse ad ammazzarmi ogni
volta.”
Dick sorride.
“Non lo facciamo anche
noi?” gli chiede, e il sogghigno in risposta, nella penombra della stanza, gli
dà un assurdo senso di sicurezza e tranquillità. Dio. Dovrebbe essere nel suo
letto; dovrebbe essere in giro per Gotham; dovrebbe
essere a fare la contabilità del Circo; dovrebbe essere ovunque. Ma non lì. Non
su quella finestra e soprattutto contendo di starci.
“È diverso” mugugna
Jason, e lo dice con quell’ovvietà che sembra spiegare tutto. Dick lo vorrebbe
capire, quel tutto che all’altro risulta tanto chiaro da essere imbarazzante. E
invece prende l’ultimo sorso di birra e poi direttamente un nuova bottiglia dal
frigo. Senza chiedere il permesso. Come fosse a casa sua.
“Alfred non ti ha
insegnato lo buone maniere?” gli chiede Jason, la testa rovesciata sulla
poltrona a guardarlo. Sembra divertito; o forse è solo incazzato. Perché si sta
prendendo degli spazi che non credeva neanche potessero esistere. Ma invece se
ne stanno lì: la sedia, il davanzale e la birra. Soprattutto la birra.
“E a te?” gli risponde,
allungandogli una bottiglia nuova e chiedendosi cosa sarebbe successo se Jason
non fosse morto; se Bruce lo avesse vendicato; se lui stesso non gli avesse
sputato in faccia tutta la sua rabbia e la sua delusione. Perché, cazzo, ha
fatto male. Trovarselo davanti pronto ad ammazzare Bruce, come un cane;
trovarselo davanti sporco di sangue e con quella faccia gli ha fatto male.
Cazzo. Gli ha fatto più che male.
Non pensarci. Non pensarci adesso.
“Tempo perso” replica
Jason, il pomo d’Adamo che se ne va su e giù con la birra tracannata troppo in
fretta. “Mai piaciute le regole.”
Non sono come te sembrano dirgli i suoi occhi, quando glieli pianta
in faccia. E vogliono fargli male. Vogliono graffiargli qualcosa: l’orgoglio
probabilmente, la coscienza più che altro. O forse il senso di colpa. E Dick
vorrebbe dirgli di fughe su lampadari, di risposte brusche e rabbia scaricata
per non sentire altro male. Vorrebbe raccontargli di un ragazzino incazzato con
il mondo e con la sensazione di essere un modo per alleggerirsi la coscienza.
Pensi che a me piacciano, le regole? Vorrebbe chiedergli. E
gustarsi la faccia che farebbe. La faccia di Jason alla rivelazione che anche
Richard Grayson, ex Ragazzo Meraviglia, attuale
supereroe con più figure di merda all’attivo di medaglie al merito, a volte
certe regole le metterebbe volentieri in quel posto. A chiunque gliele
proponga.
E invece se ne resta
zitto. Di nuovo. E ingoia un altro rospo.
Fra un po’ mi metto a gracidare.
“Dovresti portarci Tim,
una volta o l’altra” dice alla fine. Così. Tanto per non rischiare di
addormentarsi nel tepore leggero della stanza e nella sonnolenza che due birre
gli stanno dando. Dio. Come mi sono
ridotto. Devo essere davvero a pezzi.
“Qui” precisa Dick all’occhiata
vacua di Jason. Perché lui, invece, si era addormentato sul serio. Come un
bambino. E sembra faticare anche lui a rendersene conto. “A…” e inghiotte un grumo di saliva e
birra, mentre cerca in fondo allo stomaco una parola che possa definire quella.
Come l’ho chiamata, prima? Ah: tana.
“…casa tua” soffia alla fine, ma non sa nemmeno lui se è una domanda o
un’affermazione.
“Tim sta cambiando”
replica Jason, incrociando le gambe e mettendosi a dondolare sulla poltrona.
“Sta cominciando ad assomigliargli. Troppo.”
“Ed è un male?”
“Di certo non è un
bene” sputa Jason, e Dick si dice che sì, per Jason Tim è qualcosa di particolare.
“Ed è anche colpa tua.”
“Colpa mia?”
“Lo hai sbattuto fuori.”
Questa poi. Adesso Jason si mette a fare l’avvocato. In una
questione che lui credeva ormai morta e sepolta. E che, ancora gli sfugge come
mai, sembra essere di dominio pubblico e il modo migliore per attaccarlo, negli
ultimi tempi. Come se non gli bastasse la sua coscienza a rodergli il fegato di
continuo. Perché, che ci si creda o no, per lui non è stato facile scegliere Damian come partner
e lasciar fuori Tim. Ma Tim era grande, e il dolore lo sapeva gestire. Sì, bhè. Forse proprio gestire no, ma, cazzo, Tim non se ne
sarebbe mai andato in giro a mozzare la testa a qualcuno giusto per scaricare
un po’ la tensione. Tim non se ne sarebbe andato in giro per Gotham lasciandosi dietro una scia di sangue.
Damian
sì.
Damian
si sarebbe messo ad ammazzare anche Tim se gli fosse capitato davanti in un
momento storto. E lui non poteva permetterlo. Tim avrebbe saputo cavarsela. Damian no. Damian ha rinunciato a
tutto per restare con Bruce; e vederselo strappare, non era stato solo perdere
un mentore, ma anche un padre. Qualcosa con cui non puoi confrontarti.
“Non l’ho sbattuto
fuori” cerca di chiarirsi.
“Sì invece” ringhia
Jason. “Grazie dell’aiuto. Ma adesso non
mi servi più. Quella è la porta. E lascia il costume sul tavolo, quando esci.
È così che gli hai detto, no? È così che lo hai messo alla porta.”
“Io non ho messo alla
porta proprio nessuno” arriccia il naso infastidito. La sonnolenza se ne sta
andando e quelle due birre nel sangue iniziano a fargli venir di nuovo voglia
di azzuffarsi. Poteri dell’alcol.
“Cazzo. Jason. È grande. Damian invece è ancora un
ragazzino.”
“Tim non ha molti anni
di più.”
“È diverso.”
“E perché?”
“Tim sa controllarsi.
Non se ne andrebbe mai in giro ad ammazzare la gente per rabbia. Non è come…”
“…me?”
lo anticipa Jason, e Dick si rende conto di quello che stava pensando, di
quello che stava dicendo. E sa anche di avere paura. Una fottuta paura. Perché
Jason gli sembra troppo calmo. E ubriaco. Sì. Jason deve essere ubriaco, o non
se ne starebbe lì a guardarlo, la bottiglia di birra che rischia di cadergli di
mano ad ogni momento per le risate.
Perché cazzo ridi adesso?
Gli ha appena dato
dello psicopatico ammazzatutti, e quello ride. Certo;
sempre meglio di ritrovarselo azzannato alla gola o peggio ancora con una
pistola puntata nelle zone off-limits. Perché sarebbe una bastardata proprio da
Jason quella, oh sì. Ma che rida.
È sbronzo?
“Sei sbronzo?” gli
chiede, ed è pronto a scattare.
Ecco. Adesso dovrà fare
un salto, la birra gli farà le capriole nello stomaco, lui cercherà di
guadagnare un minimo di decoro atterrando in piedi senza rimette anche lo
stomaco e poi vedrà di fare un po’ di moto digestivo. Giusto perché quel panino
che è stata la sua cena non ci metta troppo ad essere smaltito.
“No” gli risponde Jason,
mentre si porta una mano agli occhi. “O forse sì. Un po’” farfuglia, e getta la
testa in avanti, fra le ginocchia. “Cazzo. Non lo so.”
“Non sai se sei sbronzo?”
Jason squittisce un
verso inarticolato. Cazzo. Cazzo. Cazzo. Eppure lo sa che non la regge, la
birra, a stomaco vuoto. E non mette qualcosa sotto ai denti dalla sera prima.
Che figura di merda; con Grayson. Non è neanche
riuscito a replicare.
Che. Figura. Di. Merda.
“Jason.”
“Fanculo
Garyson” lo apostrofa, risollevando appena la testa.
Adesso vomita. Quel niente che ha nello stomaco, ma vomita. Dio. Dio. Ma perché
gli ha detto di restare? “Ti vuoi decidere a darmi una mano, o hai bisogno di
un invito scritto?”
Trascinarlo di peso in
bagno è stato assurdo. Dick se ne rende conto. Anche fargli bere quel bicchiere
di acqua e sale a forza è stato assurdo. E scoprire che era caldo come una
pentola in ebollizione lo è stato ancora di più. E oltre al fratello maggiore
si è ritrovato a fare l’infermiere improvvisato, imprecando contro il mondo e,
per una volta, rimpiangendo le ossessive premure di padre-nonno-zio-cognato
o qualsiasi altra cosa di Alfred. Almeno lui un’aspirina ce l’avrebbe, a
portata di mano.
E prega che quello che
si sta sciogliendo nel bicchiere sia davvero un analgesico, e non una qualche
trovata chimica che Jason, se ricorda bene, si divertiva a portarsi a casa.
“Tieni” e gli allunga
il bicchiere, mentre lo guarda socchiudere gli occhi lungo disteso sul letto.
“Se lo dici a qualcuno,
sei morto.”
“Cosa?” sogghigna Dick.
“Che sei un coglione? Ma lo sanno già tutti.”
“Grayson”
cerca di ringhiare Jason, ma gli esce solo un mugugno strozzato.
“Todd” gli fa il verso
Dick e si dice che sì, quello è qualcosa di decisamente inaspettato. Ma che
sembra preannunciarsi imperdibile. “Domani come gliela spieghi, questa sbronza,
ai tuoi amici?”
“Non sono sbronzo” sbuffa
Jason. “E quelli non sono amici miei.”
E adesso sì, si sente
un coglione. Perché Roy e Kori sono qualcosa che non
si può definire, ma di certo sono le due persone più vicine ad una famiglia che
abbia. Assieme ad un altro paio di nomi che gli vengono in mente e che non ha
la minima voglia di prendere in considerazione. Non in quel momento. Dio. Sta
da cani.
“Potrebbero offenderti,
se ti sentissero.”
“Potrebbero capire
qualcosa, se mi sentissero.”
Dio. Dio. Ma perché due
linee di febbre o una birra di traverso lo fanno diventare tanto bastardo? E
con Grayson ad ascoltarlo, poi. Il mondo si sta
davvero rovesciando. Lui che ha iniziato a sparare prima alle gambe e poi alla
testa; Roy e Kori che si sono insediati nella sua
esistenza senza chiedergli come perché o permesso; e Grayson
che si è reimpossessato del davanzale e adesso sembra
un gatto acciambellato sul suo letto. E lui odia i gatti.
“Roy sembra contento”
sussurra alla fine Dick fra le dita intrecciate davanti alla bocca.
“Roy è sempre contento”
sbuffa Jason, cercando di alzarsi e riprendere una posizione più decorosa di un
febbricitante in delirio spiattellato su un letto. Ci riesce a metà. La schiena
si rifiuta di fare i novanta gradi e riportarlo in posizione eretta e si deve
accontentare di un quarantacinque. Meglio di niente. E almeno il suo amico
cuscino gli fa sembrare la situazione meno imbarazzante. E assurda. E
grottesca. “Dagli un bersaglio, carta bianca e vedrai se non sarà felice. Altro
che sesso.”
Dick sorride.
Roy ha sempre avuto
quel modo inquieto di fare, quel cercare di dimostrare sempre a tutti che lui
valeva qualcosa, che lui era qualcosa. Come Jason. Come lui stesso. Ma hanno
preso strade diverse. Hanno fatto scelte diverse. E c’è una cosa che Dick ha
sempre invidiato loro, a Jason e Roy: di aver urlato in faccia ai loro mentori
quello che pensavano. Giusto o sbagliato che fosse. Lui, quel coraggio, non lo
ha mai trovato.
Sono un codardo.
“Ci sei andato a letto,
vero?”
“Con Roy?!”
“Ma no!” Jason sbuffa,
e alza gli occhi al cielo. “Con Kori.”
“Non credo siano fatti
tuoi.”
“Devvero?”
sorride Jason. Il sorriso di un predatore, della fiera che sta per addentare la
preda. “Sei forse geloso, Grayson?” insinua.
Bastardo.
Perché lo sa che ci è
stato, con Kori. Lo sa, il deficiente. Glielo legge
in faccia, in quegli occhi maledetti che lo stanno sfidando. Provaci, a dire di no. Avanti: provaci.
E a lui proprio non
passa per la testa l’idea di rifilargli una balla. No cazzo. Glielo vorrebbe
dire. Gli vorrebbe dire che quello è stato uno dei periodi più belli, subito
dopo aver lasciato Bruce. E Alfred. E la caverna. E Robin. Soprattutto dopo
aver lasciato Robin.
Vorrebbe
raccontarglielo. Di quando si sentiva una merda e trascinarsi in piedi era
davvero uno strazio. Di quando era arrabbiato, tanto arrabbiato con Bruce che
gli avrebbe volentieri spaccato la faccia. Ma
non ne ho avuto le palle.
Perché ci voglio le
palle, per prendere a pugni Bruce. Per decidere di far arrabbiare Bruce.
Oh, le loro discussioni
le hanno avute. Certo. Anche violente. Si sono insultati e si sono gettati
addosso tante cose, anche cose stupide che non pensavano, che facevano male
solo a pensarle. Ma se le sono dette lo stesso. Un cazzotto virtuale. Ne escono sempre pesti, da quelle
discussioni. Con il fiato corto e qualche incomprensione in meno. Forse. Se va
bene
Ma ci vogliono le palle
per farlo. Per difendere quello che si pensa. E lui non le ha mai avute.
Proprio no. Non con Bruce. Tranne una volta. Ma quella è un’altra storia.
Non ha avuto le palle
nemmeno per state con Kori. E con Babs.
Ne le ha avute per un sacco di cose. E adesso, da idiota qual è, si ritrova a
pensare a cosa sarebbe successo se una per una volta, per una sola fottuta
volta, avesse avuto il coraggio di finire qualcosa che aveva cominciato.
“Allooora?”
Jason insiste.
Probabilmente vuole morire. Perché se c’è qualcosa di cui Richard Grayson non parla volentieri sono le donne. E il sesso.
Soprattutto se a essere messi sotto la lente d’ingrandimento sono le sue donne
e il suo sesso. Da parte di Jason poi.
Ma Jason insiste.
Troppo. Altro che sbronza. Il bastardo ha trovato un osso da rodere e non lo
mollerà finchè non si sentirà soddisfatto. Ovvero
fino a quando non lo avrà spolpato. E lui sente le ossa che scricchiolano sotto
i sui denti.
“Grayson.”
“Sì” sputa con rabbia,
trattenendo un ringhio. Si è alzato di scatto, rovesciando la birra. C’è odore
di alcol e luppolo e di appiccicoso. Un odore che Dick di solito apprezza, ma
non in quel momento. Non con il sorriso soddisfatto di Jason stampato davanti.
Adesso lo meno.
Certo. Come no.
“Sì. Ci sono andato a
letto” ripete. “L’ho anche sposata. Quasi” aggiunge senza sapere nemmeno
perché, di quella confessione superflua. E fa male. Cazzo. Fa male. “Era questo
che volevi sapere. Sei contento?”
E si accuccia.
Si accuccia sul
pavimento come un cane bastonato, le mani sulla faccia e un respiro pesante che
Jason scambierebbe per un pianto se non fosse assolutamente sicuro che non è
possibile.
Perché non è possibile,
giusto?
Cazzo. È Richard Grayson
quello che ha di fronte. È Nightwing. È quel fottuto
bastardo che si diverte a prendere in giro e insultare ogni volta che incontra;
quel fottuto bastardo che vorrebbe picchiare ogni volta che lo incontra. Così.
Giusto per rimarcare le differenze. È il fottuto bastardo che ha tentato di
ammazzare perché ha voluto mettersi in mezzo, fra una questione riservata fra
lui e Bruce. E si è pure fatto sparare, il deficiente, pur di recitare fino in
fondo la sua parte di eroe salvatutti.
È il coglione che ogni
tanto cerca ancora di ammazzare, e gli spaccherebbe volentieri la faccia quando
si ritrovano a lavorare insieme per un maledetto scherzo di qualche bastardo
che si diverte a muovere troppi fili lassù e lo piazza al suo fianco quando
invece preferirebbe la compagnia di una mitragliatrice. O di una bella donna.
Meglio la bella donna.
Quindi. Non è possibile
che quello stia piangendo. No. Si
rifiuta di crederlo.
“Dick.”
Dick?!
E da quanto cazzo di
tempo non lo chiamava più Dick? E poi, perché cazzo lo ha chiamato Dick? Ha
smesso di chiamarlo così quando aveva sedici anni. Perché eri morto, cretino. Balle. A chi vuole raccontarla? Ha
smesso di chiamarlo così perché era arrabbiato. Con Bruce. Con Dick. E con se
stesso. Soprattutto con se stesso.
Perché non riusciva più
a sopportarlo, quando ci parlava. Non riusciva più a sopportare i consigli e
l’aiuto che gli dava; e il fatto che, se c’era un problema grosso, Bruce lo
chiamava. Non che quello sia cambiato poi molto, a onor del vero. Se Bruce ha
una patata bollente, una di quelle belle grosse che ti stanno per scoppiare in
mano,di solito non chiama nessuno e se la sbriga da solo. Oppure chiama Dick.
Se la patata sta
davvero per fare boom e lui non ce la
può fare da solo, allora chiama Dick. Ha sempre chiamato Dick. Anche quando
erano incazzati neri e non si parlavano da mesi.
C’è bisogno. Vieni.
E Dick andava; come un
cane scodinzolante. Andava a raccattare qualsiasi cosa Bruce gli lanciasse,
fosse stato anche un boccone avvelenato. Fottuto
sentimentale.
“Io.”
Scusa.
Ma perché cazzo si deve
sentire una merda? Roy glielo aveva chiesto, cosa pesava di quella situazione.
Insomma: farsi la ragazza del tuo ex-amico che cerchi di uccidere una volta sì
e l’altra pure non è proprio la più semplice delle relazioni. E lui che aveva
fatto? Niente. Aveva detto che non gliene fregava niente, tanto più che Kori, di Dick, non ricorda nemmeno la faccia. I sentimenti
sì; la faccia no.
E allora tanto valeva
divertirsi un po’. E non per ripicca, quello no. Cazzo. Sarà anche un figlio di
puttana, ma Kori gli piace davvero. E non ci è stato
solo per poterlo magari sbattere in faccia a Grayson,
l’avesse mai incrociato. L’ha fatto perché gli andava. Punto e basta.
Sapeva che erano stati
insieme; aveva capito che era stato qualcosa di importante. Ma cazzo. Non aveva
idea che si era sposati. Quasi. Roy poteva anche dirglielo, quel particolare.
Invece di fare tanti giochetti di parole che non si capisce mai niente. Almeno
non si troverebbe in quella situazione assurda, in quel momento. Con una
fottuta voglia del cazzo di chiedere scusa.
“Se ti azzardi soltanto
a dirla, quella parola, ti faccio ingoiare i denti” gli sibila Dick. E Jason
pensa che quando vuole può fare davvero paura. Dio. Ha anche cambiato il tono
di voce, più basso e roco. Sembrava davvero stesse ruggendo in avviso, per
marcare il territorio.
“Fanculo,
Grayson” lo insulta. “Non lo avrei mai fatto.”
Dick ride piano,
rilassando la schiena contro la parete. Si sente stanco. Dio. Che deficiente.
Ha mollato come un poppante. E se non si è messo a frignare è stato solo per la
faccia che Jason ha fatto. E di cui non sembrava minimamente conscio. Anzi. Di
cui non era affatto conscio. Avrebbe voluto avere una macchina fotografica. Per
immortalarlo e ficcargliela sotto il naso ogni volta che si fosse presentata
l’occasione. Gli avrebbe mandato il sangue alla testa. Di certo.
E invece dovrà
accontentarsi di essersela ben stampata nella testa, quell’espressione. Jason
terrorizzato. Non crede di avergliela più vista, quell’espressione, dalla prima
volta che si è lanciato da un tetto di Gotham. Perché
se a vent’ anni un salto da cinquanta metri può farti pisciare addosso, anche a
te che sei nato in un circo e hai imparato a stare sul trapezio prima ancora
che a camminare, a un ragazzino di tredici può sembrare solo un suicidio. Ci
siete solo tu, la corda e l’abisso. E la consapevolezza che, se sbagli, di te
resta giusto una macchia sull’asfalto. E un corpo che è esploso.
Dick sospira piano.
Ce l’ha sempre in
mente, il rumore che fa un corpo che si schianta al suolo. È un rumore secco,
come di castagne che scoppiano nel fuoco. E lui ha sempre odiato le castagne.
Fa bang, e poi vedi il sangue. Il
sangue tutto attorno a quell’ammasso scomposto di carne che era un corpo, una
persona. E che adesso è solo un ammasso di carne. Perché la pressione e
l’impatto hanno spaccato tutto: testa, cuore, stomaco, gambe. E con il sangue quello
che se ne esca sono visceri e bile. E tu vorresti vomitare.
Jason invece aveva
saltato. Anche se era terrorizzato e aveva quella faccia. Ma la paura va bene.
La paura è quella cosa che ti impedisce di andare troppo in là, che ti fa
riportare a casa la pelle anche in quelle situazioni in cui non ci speri più. È
pericolosa, la paura; perché se si trasforma in panico ti inchioda a terra e
manda al diavolo i tuoi circuiti mentali. Ma se sai come gestirla, la paura è
quello che ti salva la vita.
O così o non sei
tagliato per quel lavoro.
E allora scappi o ci
rimetti la vita. Più facile la seconda.
Come Jason.
Ma Jason per quel
lavoro c’era tagliato. Aveva l’entusiasmo, le capacità, la determinazione. La
rabbia. Jason aveva anche la rabbia, dalla sua. Una rabbia diversa da quella
che muoveva Bruce, da quella che aveva mosso anche lui. Quella di Jason era la
rabbia di un ragazzino incazzato con il mondo. Ma era rabbia; e la rabbia ti fa
combattere, muovere, desiderare. Ti fa anche fare qualche cazzata.
E Jason la sua cazzata
l’aveva fatta.
Ed è finita com’è finita.
Intanto, però, Dick gli
ha rivisto quella faccia idiota da ragazzino terrorizzato. E gli è tornata la
voglia di ridere. Almeno un po’.
“Jay.”
Dio. Non lo chiama così
da anni. Non lo chiama così dall’ultima volta che gli ha visto indosso il
costume di Robin e si è sentito mandare a cagare. Giusto perché era stufo
dell’ennesima lezione di tattica. È stata anche l’ultima volta che si sono
parlati davvero, prima che Jason. Lasciamo
stare.
“Quel costume fa
schifo” lo provoca. “Guardalo. È tutto un rammendo” scherza, indicando la tuta
gettata su una sedia.
Parliamo d’altro. Ti prego. Jay.
“Il tuo, oggi, non era
messo meglio” replica Jason. Si è seduto sul letto, e si sporge oltre il mobile
che lo separa dalla finestra. La nausea è passata; e anche quella specie di
caldaia che si sentiva nella testa. Lo sa che, quando beve a stomaco vuoto, va
così: prima vomita anche l’anima, poi si trasforma nella brutta copia del
mangia-fuoco. Con la differenza che lui, il fuoco, ce l’ha nella testa e non
nella bocca. E allora l’unica cosa da fare è aspettare che passi. Perché tanto
prima o dopo passa.
E prendere un’aspirina.
Questa non la sapeva. Grazie tante, Grayson.
“Dovresti cambiarlo”
continua Dick, ignorando il mezzo sorriso di Jason. Non ha capito a cosa sia
dovuto, e ritiene meglio, almeno per il momento, non indagare. I sorrisini
sarcastici di Jason portano guai, di solito. E, chissà come, lui ci finisce in
mezzo. Anche se si trova a mille miglia, lui in qualche modo ci finisce in
mezzo. Karma, direbbe Bruce. Sfiga,
dice lui. La sostanza non cambia comunque.
“E poi” sbuffa, una
smorfia che vuole nascondere un sorriso. “Se avevi tanta voglia di un restyling,
ma proprio me dovevi copiare?”
Perché non glielo dirà
mai, neanche sotto tortura, che gli ha fatto piacere. Gli ha fatto piacere
quando se l’è ritrovato di fronte, con quel logo rosso sul petto e il giubbotto
da bikers addosso. Amo quel giubbotto. Forse perché gli ricorda il suo. Quello che Babs detesta e dice sempre che è l’esempio più lampante del
suo pessimo gusto nel vestire.
Però il costume è
bello. E vederlo addosso a Jason gli fa sempre un effetto strano. Certo. Magari
toglierebbe le fondine; e anche le pistole. Magari si potrebbe discutere per il
casco. Ma quel logo rosso che fa capolino durante i combattimenti, per Dick, ha
il sapore dell’orgoglio.
“Fanculo”
replica Jason. “Col cazzo che volevo ispirarmi a te.”
Ha voglia di tirargli
il cuscino. Ha voglia di vedere la bella faccia di Dick Grayson
spiaccicata contro il cuscino del suo letto. O meglio ancora sul pavimento. Con
lui sopra. Ha voglia di fare a botte; come una volta. Come quelle volte in cui
l’aveva combinata davvero grossa e Bruce lo sbatteva fuori dalla caverna.
Quelle notti le passava a trascinare i piedi per casa, aspettando che lui
tornasse per cercare di rubargli almeno mezza parola.
Invece arrivava Dick.
Magari era stanco
morto; magari avrebbe voluto solo ficcarsi a letto. Magari aveva un
appuntamento e alla villa c’era passato solo per recupera il vestito buono che
Alfred gli aveva preparato. Ma passava. E si fermava. E facevano a botte con i
cuscini. Ogni volta. Come due deficienti. Fino a crollare esausti e a dividersi
un letto sfatto e una coperta.
“Ma i costumi non
crescono sugli alberi” prosegue invece, stringendosi nelle spalle. “Mi sono
arrangiato con quello che ho trovato.”
Kori.
È stata Kori a ficcarglielo in mano, quel costume. Dicendogli che
tanto un vestito è un vestito. Solo un pezzo di stoffa. Però, cazzo, per lui
quel pezzo di stoffa era un pugno nello stomaco. E avrebbe voluto chiederle per
quale motivo ce li avesse lei, i costumi di Dick. O almeno una parte dei
costumi di Dick. Anche qualcuno di quando ancora era Robin. Quelli degli ultimi
anni, almeno a giudicare dalla taglia.
Lo vorrebbe chiederle
anche a lui, ad essere sinceri. Perché sarebbe divertente vederlo raccattare
una spiegazione coerente e logica che non avesse a che fare con l’accumulo
compulsivo o il feticismo. Quello o lo manderebbe al diavolo.
Kori però è fuori.
Lo ha capito quella
sera; lo ha capito da come Grayson ha cercato di
spostare il discorso e la sua attenzione. Kori è
qualcosa di cui Dick non vuole parlare. Né con lui né con qualcun altro. E lui
sarà anche un bastardo figlio di puttana, ma non colpisce sotto la cintura. Non
ancora. O almeno non lui.
“E hai trovato proprio
un mio vecchio costume?” ammicca Dick.
Ora glielo chiedo. Fanculo alla cintura. Io
glielo chiedo.
O gli tira un pugno. E
poi il cuscino. Giusto. Prima un bel pugno e poi il cuscino. Così magari riesce
anche a soffocarcelo, con quel maledetto cuscino.
“Non ricordo di avere
il tuo conto in banca, io” glissa alla fine. “Questo è quello che passa il
convento” commenta, e allarga il sorriso mostrando i canini. Da bastardo. “O
preferisci spogliarti?”
“Tempo perso” ride
Dick, portando le mani allo scollo della maglia e allargandolo.“Non ce l’ho addosso.
Non adesso.”
“Ma come?” soffia
Jason, nascondendo il disappunto. “Non è la tua copertina di Linus?” lo
provoca, allungandosi ancora di più sul mobile, rischiando in ogni momento di
spalmare la sua faccia ai piedi di Grayson.
Al diavolo. Il mio equilibrio
non è peggiore del suo.
E sa di aver detto
un’immane cazzata. Perché l’equilibrio di Dick è migliore del suo. E anche di quello di Tim; o di Damian. Probabilmente è migliore anche di quello di Bruce.
Sul piano della forza fisica il paragone non regge, certo. Ma quando a
equilibrio. Oh, quello è un discorso a parte.
Dick li batte tutti e
quattro. Punto. E Jason questo lo sa bene. Gliel’ha sempre invidiata,
quell’agilità, quella plasticità nei movimenti che gli ha visto sfoggiare.
Anche quando si trova a quaranta metri dal suolo, Dick si muove con la
sicurezza di un acrobata.
Cazzo. È un acrobata. Uno
stupido acrobata; ma pur sempre un acrobata.
Lui invece è quello
piantato a terra. Ancorato a terra.
Diciamo pure che, nella terra, ci sono sprofondato. Ma in fondo in
quella sua nuova vita non gli mancano nemmeno tanto i salti vertiginosi e certe
planate fra i grattaceli. Non quando hai una superfiga navetta spaziale ultimo
modello con cui andartene in giro. O almeno hai la comproprietà di una navetta
spaziale superfiga. Bottino di guerra e quelle cose lì.
“Guarda che mi chiamo Nightwing. Mica Superman.”
“Ah. Allora è vera la
storia che lo porta sempre.”
La caduta, perché alla
fine doveva cadere no? Grazie tante,
gravità, è diventata una mezza capriola e adesso si trova anche lui seduto
a terra, le gambe incrociate e la notte di Gotham a
fissarlo dalla finestra con il suo temporale. E Grayson
di fronte a lui con le braccia abbandonate sulle ginocchia.
“Dici che lo porta anche
quando…?”insinua, sussurrando malizioso.
“Jay. Cazzo. Piantala”ride
Dick. “Adesso ci continuerò a pensare.”
“Dovresti pensare a Lois, invece.”
“E tu dovresti morderti
la lingua, ogni tanto.”
Dick ride.
Ride di pancia, di
cuore, di anima. Ride come Jason non lo vedeva ridere da tanto. Non è il
sorrisetto che gli vede stampato in faccia quando la situazione è brutta e lui
sta cercando di trovare il bandolo della matassa. E non è nemmeno quel sorriso
fastidioso di chi ha sempre la risposta pronta. Mister sono-l’allievo-migliore
non ne fa più di sorrisetti simili, ultimamente. E non è nemmeno il piccolo
ghigno che gli ha mostrato qualche tempo fa, quando Jason ha scoperto che anche
Dick è capace di qualche trovata un po’ subdola. Ai danni di Bruce, poi.
Dio quanto se l’è
goduta, quella volta, quando Tim glielo ha raccontato. Meglio di un orgasmo. O almeno di quello che ha ogni tanto, giusto
per scaricare un po’ di testosterone. Perché, cazzo, avere sempre attorno una
donna che se ne va in giro mezza nuda, anche se aliena, qualche effetto lo deve
pur fare. Giusto?
In quel momento, però,
il Richard Grayson che sta ridendo è quello con cui
passava le notti a fare a cuscinate; è quello che gli metteva una mano sulla
spalla quando qualcosa non andava e gli diceva di stare tranquillo. È quello
che gli ha affidato il suo posto, il suo costume, tutta una vita insomma.
E io ci sto ridendo assieme come un deficiente.
“Preferisco che me la
morda una bella ragazza.”
“Sei diventato
masochista?”
“Fidati” gli sussurra, facendogli
l’occhiolino. “Dovresti provare.”
Jason ride.
Ride di pancia, di
cuore, di anima. Ride come Dick non lo vedeva ridere da tanto. Forse dai primi
anni in cui si sono conosciuti, quando Jason era entusiasta di quella nuova
vita che stava sperimentando e lui era un punto di riferimento in mezzo
all’adrenalina della novità. Quando le cose avevano iniziato a girare bene;
quando era il leader dei Titani e c’era Kori al suo
fianco e in qualche modo era riuscito a rassegnarsi per la rottura con Bruce.
Poi tutto era cambiato.
I Titani non avevano capito; lui aveva sbagliato. E il peso delle
responsabilità lo aveva quasi fatto ammazzare. Poi. Il Joker. Babs. Il dolore nei suoi occhi. Il Joker; di nuovo. Jason.
La rabbia. La violenza di Bruce. Tim. E la consapevolezza di non poter più
tornare indietro. Che il Robin che era stato era morto. Per sempre. Davvero.
Aveva perso un’altra parte di sé, quella volta. Forse la più importante.
Non ci voglio pensare. Non questa notte. Non adesso.
“Ehi. Greyson.”
“Mmmh?”
Dick ha girato un po’
la testa. Jason si è disteso sul pavimento e adesso gli arriva allo stomaco.
Due occhi verdi bastardi che sembrano volerlo pigliare per il culo.
“A Damian
l’hai fatto presente, il diritto di copyright?” sogghigna.
“Per cosa?”
“Cazzo. Robin no? Il
costume” ruota gli occhi al cielo. “Allora? Gliel’hai chiesto? O te la sei
fatta sotto?”
Stronzo.
“Direi che non ti
riguarda. Capito moccioso?” e gli preme l’indice sulla fronte, proprio in mezzo
alla fronte. Dove sa che Jason non reagisce, dove sa che si lascia prendere in
giro.
“Sì sì. Come no” sbuffa
girandosi supino. “Comunque, lo preferisco adesso.”
“Davvero?”
“Davvero” annuisce
Jason, le braccia dietro la nuca. Sta fissando il soffitto; la macchia di
umidità sul soffitto. Se non si decide a fare qualcosa, al prossimo nubifragio
l’intonaco si stacca e lui ci finisce sotto. Non male come seconda morte.
“Ha l’aria più. Come
dire. Professionale. Ecco.”
“Lo odiavi così tanto,
quel costume?”
“Cazzo. Greyson” gli dà un pizzicotto sulla gamba. A furia di
muoversi a cercare una posizione comoda, è finito straiato con la testa su una
delle sue gambe. Che situazione assurda.
“Era imbarazzante. Sembravo un folletto. Anzi: un coglione. E dovevi esserlo
sembrato anche tu.”
“Ma se non volevi mai
toglierlo” ricorda Dick con una risata bassa.
“Abbi pietà.” Jason
arriccia il naso e stinge gli occhi. “Avevo undici anni.”
E adorava quel costume.
Aveva fatto carte false per metterselo, e quando Bruce glielo impediva a causa
di una qualche cazzata che aveva fatto, il mondo crollava. Dio se mi incazzavo. Quando Bruce era diventato il suo mondo, quando
era ancora il suo eroe. Prima di morirci, con quel costume addosso. E di
iniziare a odiarlo. Il costume; Bruce; e i modi da bravo ragazzo.
Non fanno per me.
“Vorrei sapere cosa si
è fumato Bruce prima di disegnarlo” butta lì Jason, muovendosi un po’. Dio. Si
sta così bene lì, su quel pavimento. E la gamba di Grayson
è così comoda. Ci finiva spesso addormentato, sulle sue gambe, quando era
ancora un moccioso e al ritorno dalle ronde crollava dal sonno. Oppure durante
un appostamento. O sul divano, quello nel salotto piccolo. Dove passava le ore
quando Bruce non c’era e il sole non si decideva ad andarsene e lasciarlo
uscire un po’.
“Guarda che non l’ha
mica disegnato lui, il costume.”
Dick allunga la gamba
libera. Inizia a fargli un male cane e avrebbe voglia di alzarsi e sgranchirsi
tutte le ossa. Così; giusto per non addormentarsi anche. Ma Jason non sembra
volersi muovere di un millimetro, e sentire il peso di quella sua testa dura
addosso è una bella sensazione. Al
diavolo anche i crampi.
“Pensavo che Alfred
avesse più buon gusto” continua Jason, gli occhi chiusi e il respiro sottile e
regolare. Dio. Dio. Erano anni che non stava così bene. Non esageriamo. Ok. Anni no, ma una manciata di mesi sì. Da quando
è iniziata quella storia dei senza titolo. E
io mi sono trovato a fare il giustiziere mascherato. Di una banda di
assassini; di quelli che lui di solito va in giro ad ammazzare. Peccato che in
qualche modo fossero stati proprio loro a insegnarglielo, come fare ad andare
in giro ad ammazzarla, la gente. Ad ammazzarla sul serio.
“Toppato di nuovo” ride
Dick. “Ritenta.”
“Cazzo dici? Non c’è
nessun altro.”
Ha socchiuso un occhio.
E la faccia sorniona di Grayson, con quel sorrisetto
di chi la sa lunga, gli manda il sangue al cervello. Fottuto bastardo. Gli mollerebbe volentieri un pugno. Se solo non
significasse dover alzare la mano per farlo. Sarebbe un bello spettacolo,
certo: Richard Grayson spalmato sulla sua parete.
Come un trofeo. Se solo la mano volesse collaborare, certo. E tutto il suo
corpo non gli stesse dicendo forte e chiaro di non azzardarsi a contrarre un
muscolo.
Cazzo. È così rilassato
che quando dovrà muoversi, e prima o poi succederà, lo sa bene, sentirà
protestare anche le cellule. Ti metto in
conto anche questa Grayson.
“Eravate Bruce, Alfred
e tu” conta, alzando le dita della mano. E se ne resta immobile a fissarlo,
quel terzo dito. Fermo così sopra la testa, contro il soffitto. E dietro c‘è il
sogghigno di Grayson.“Tu! Sei tu lo stronzo che devo
ringraziare.”
E si sente un
deficiente, mentre Dick abbozza un applauso. Uno di quelli di sufficienza che
lo hanno fatto sempre incazzare, perché gli sembrava sempre di essere lui,
l’ultimo cretino ad arrivarci, alle cose. Mai
stato granchè, con il cervello. Meglio le mani.
E, a proposito di mani.
Se l’è immaginata, vero, quella di Grayson sulla sua
testa. Al massimo, sulla testa, Grayson cerca di
assestagli un pugno o una bella sprangata. Se l’è immaginata, giusto? Giusto. Grayson si sta stiracchiando, ecco tutto. Anche ammesso che
gliel’abbia toccata, la testa, e non vuole pensare che possa essere così, che
possa averlo fatto volontariamente, è stato solo un caso. Mentre si muoveva.
Giusto? Giusto. Punto.
“Ma da dove cazzo l’hai
tirata fuori quell’idea? Da un incubo?”
“Forse” scrolla appena
le spalle Dick. E lui vorrebbe tanto che qualcuno gli spiegasse perché Grayson è diventato all’improvviso così serio. E triste. E
cazzo lui non lo sopporta proprio, con quella faccia lì. Vorrebbe soffocarlo,
quando ce l’ha.
“Era il mio costume di
scena. Al circo. Quando sono morti i miei.”
Cazzo. Di nuovo?
È la seconda figura di
merda, quella notte. È la seconda volta che si pente di quello che dice e
vorrebbe chiedere scusa.
Neanche morto. Mentre invece lo fissa e per qualche dannato motivo
decide che la conversazione può chiudersi lì. Facendo la figura del cretino,
con la bocca aperta e la faccia da idiota che s’è perso anche le parole.
Ma allunga le braccia
sopra la testa, attorno al busto di Dick. Non è un abbraccio, sia chiaro. Aveva
solo voglia di allungare le braccia, tutto qui. Non è assolutamente un abbraccio sembra sottolineare a Dick
quell’espressione indifferente. Ma ci si avvicina molto. Anche se da quando è
morto una volta, a Jason le mezze misure vanno decisamente strette. E si
sentirà anche un emerito imbecille, ma quel quasi abbraccio ha deciso che
doveva starci. Anche se è sicuro che preferirebbe morire mordendosi la lingua
piuttosto che doverlo ammettere. O anche solo di dover provare a pensare di
poterlo ammettere.
“Sei un bastardo.”
Perché solo un bastardo
come Dick Grayson può dirti una cosa del genere con
una faccia da schiaffi degna del guinness dei primati. Come se fosse la cosa
più ovvia del mondo e ti sfidasse ad aggiungere anche un solo semplice commento
alla cosa. Lo odi anche per questo.
E ha davvero voglia di
tirarglielo, quel pugno in faccia.
Perché, cazzo, questo è
colpire sotto la cintura. Questo è farlo sentire più merda di quanto già non si
senta da solo, nelle giornate no. E la cosa peggiore è che lo fa senza nemmeno rendersi
conto che lo sta mandando elegantemente a farsi fottere.
“Anche tu.”
No. Cazzo. Lo sa eccome.
Il fottuto bastardo lo
sa; e si diverte a prenderlo per il culo. Forse forse
non è così perfettino come sembra; o forse la
compagnia dello psicopatico lo sta davvero mandando fuori di testa. Non ci ha
passato anche lui qualche mese, ad Arkham? Con la faccia del Joker addosso poi.
Jason reprime una
smorfia. Come cazzo abbia fatto Grayson a guardarsi
allo specchio e vedere la faccia di quel pazzoide, lui non lo sa. E non lo voglio nemmeno sapere.
Intanto, sa che la
prossima volta che sentirà la voglia di picchiare Damian
per una delle sue trovate da stupido moccioso, se avrà il costume di Robin
addosso a lui verrà in mente la faccia di Grayson in
quel momento. E se non gli passerà la voglia, sarà un miracolo.
E la colpa sarà anche
sua, ma la figura del cretino ce la farà lui.
Perhcè
Grayson non gli ha mai raccontato granchè,
del suo passato. Non che lui si sia lasciato andare a chissà quali confidenze.
Ma dopo tutti quegli anni, chissà perché, forse avrebbe voluto saperlo che
quello che ha indossato era una specie di requiem
funebre ai suoi genitori. Così. Giusto per correttezza, eh! Magari non si
sarebbe messo a denigrarlo proprio in quel modo, il costume.
Bastardo sì. Stronzo proprio no.
Anche lui ha una sua
morale. Da schifo, va bene. Ma ce l’ha; e fare a pezzi una cosa del genere non
è esattamente lo stile che gli piace adottare. Se capita capita
e tanti saluti a tutti. Ma solo se capita proprio. E comunque con Grayson è difficile. È sempre fottutamente difficile.
“Uomo-bambino.”
Le braccia sono rimaste
lì, in quel quasi abbraccio. E anche la voglia di mollargli il pungo non se n’è
andata. Almeno, Grayson ha cambiato faccia e per un
po’ la pioggia insistente è stato l’unico rumore per tutta la stanza.
“Mi chiamavano così. All’Unica
Corte.”
La faccia di Grayson va decisamente meglio. Meglio vederlo con quell’espressione
da stupido che con l’altra faccia. Quella dell’uomo, quella del ragazzo che ha
visto fracassarsi i suoi genitori. Quella del sentimentale che non riesce
ancora a lasciarsi tutto alle spalle e si aggrappa ad un costume, ad una
missione, a qualsiasi fottuta cosa gli possa servire. Anche all’idea che
quattro chiacchiere e un casco possano essere un buon ramoscello d’ulivo. E che
le cose si possono aggiustare ancora.
Dio Jason. Sei proprio un coglione.
“Unica Corte?”
Già. Non ne sa niente.
Nessuno ne sa niente. Tranne Roy e Kori. E non perché
avesse proprio voglia di far saper loro i fatti suoi, sia chiaro. Diciamo
piuttosto che ha scoperto che è difficile scrollarsi di dosso l’arciere pazzo e
la pupa aliena, se loro non sono d’accordo. E all’Unica Corte lo hanno seguito
di loro iniziativa. Glielo ha messo bene in chiaro, giusto per non avere morsi
di coscienza se fossero crepati. Lui, lì, non ce li aveva di certo trascinati. Però mi hanno fatto comodo.
“Un posto. Ci sono
stato per un po’.”
Per un bel po’, ad
esser sinceri. Il secondo posto al mondo che qualche volta gli venga il
sospetto di poter chiamare casa. Un
buco in una caverna grande come il più grande grattacielo di Gotham. Ma pur sempre un buco in una caverna. Manco fosse cambiato qualcosa.
Però ci era stato bene,
in quel buco di caverna. Anche se alla sera ci arrivava pesto e l’unica cosa
che voleva era andarsene in branda e dormire. Senza incubi possibilmente. Ma a
volte era chiedere troppo, e la notte la passava a fissare il soffitto della
stanza.
“E ti chiamavano
uomo-bambino?”
“Lascia perdere” sbuffa
girandosi sul fianco. “Ma perché cazzo te l’ho detto?”
Ducra.
Gliel’ha detto perché
il suo cervello, per qualche associazione che non ha voglia di indagare, gli ha
fatto venire in mente quella vecchia testarda e quello che cercava di ficcargli
in testa. Dio. Gli manca. Se lo sapesse si farebbe una risata delle sue e poi
gli darebbe una bastonata in testa. Di quelle che dava lei, per cercare di fargli
venire un po’ di buon senso. Non che ci
sia riuscita poi molto.
Ma gli manca, inutile
nasconderlo. E allora è meglio non pensarci.
“Ce l’ho ancora con te.
Lo sai?”
Va bene. Facciamo la figura del poppante. Ma in
fondo che c’è di sbagliato a non lasciarsi scottare troppo? Non ha voglia di
parlare di Ducra. O dell’Unica Corte. O di qualsiasi
altra cosa collegata a quel periodo. Non ha voglia di andare a spifferare a Grayson i fatti suoi, giusto per ricordargli che non è
l’unico con qualche fantasma sullo stomaco. Ma intanto qualcosa gliel’ha detta,
e spera gli basti per fargli capire che deve piantarla e che di cose non dette
ce ne sono ancora tante.
“Ce l’hai con me per un
po’ troppe cose” scherza Dick. “Dovresti specificare per cosa.”
L’hai capita, eh?
Sì. Dick ha capito. Ha
capito che se lui porta ancora il peso della morte dei suoi genitori, e niente
e nessuno, tanto meno il tempo o quella vita da eroe, potrà mai alleggerirlo o
farlo sparire, anche Jason ha i suoi macigni da portare. E che ognuno di loro
ha scelto la zavorra che li trascinerà a fondo. E poco importa se si
rinfacciano a vicenda che si sono abituati troppo a uccidere con le pistole o a
non farlo. Perché nei momenti in cui succede, e vorrebbero proprio chiamarlo,
l’altro, per chiedergli se è contento di averla avuta lui, alla fine, la
ragione, c’è qualcosa che lo impedisce. Minimo il tentativo di portare a casa
la pelle.
Intanto ha capito. E
non chiederà altro.
“Per il ritratto. Quello
di famiglia” sbuffò Jason, come fosse una questione di nessuna importanza. E
non un qualcosa che gli ha roso il fegato da quando ne è venuto a conoscenza.
Ma perché cazzo me la prendo, poi?
“E io che c’entro?”
Certo. Lui non c’entra
nulla. Ovvio. Perché non è stato lui a spiattellarglielo sotto al naso giusto giusto per vedere come avrebbe reagito. E a rigirare il
coltello nella piaga con quelle sue battute idiote che lo mandano in bestia, ma
che, guarda caso, gli dicono sempre una verità. Soprattutto una certa verità
che non ha proprio voglia di sentirsi ribadire.
“Potevi avvisare.”
“Tim no, allora?” ride
Dick.
Perché lo sa che ci
terrebbe, a sentirsi ancora parte di quel mondo. Lo sa che l’unica cosa che
vorrebbe è pregare in ginocchio Bruce di dargli una seconda possibilità, di
lasciargli dimostrare di poter ancora essere il ragazzo che ha raccattato in un
vicolo di Gotham, quello che è riuscito a farlo
ridere e gli ha restituito un po’ della serenità che se n’era andata con Dick.
E sa anche che, se non
lo fa, è per quel suo fottuto orgoglio e la volontà di emanciparsi, di far
vedere a Bruce, a lui, a Tim, a se stesso, di avere le palle per prendere una
strada e seguirla fino in fondo. Perché anche lui sta cercando di fare qualcosa
per quella città. Nel modo più sbagliato possibile, ma ci sta provando. E se si
sta comportando da feccia è perché a
volte è proprio della feccia che si ha bisogno, per uscire da certe situazioni.
“Lui può essere ancora
sbattuto fuori. Tu no.”
Grazie tante.
Come se lui avesse mai
voluto esser sbattuto fuori. Come se quell’identità che sta ancora cercando di
raccattare in giro l’avesse chiesta lui. Dio. Forse proprio chiesta no, ma
nemmeno è da buttare del tutto nel cesso. In fondo,se Bruce non lo avesse
costretto a decidere di fare le cose da solo, alla fine si sarebbe ritrovato
troppo grande per essere Robin e senza altre vie d’uscita. Non è stato di certo
indolore, ma ormai è andata com’è andata. E anche se è dovuto andarsene dalla
porta principale, quella della caverna non l’ha mai trovata chiusa.
“Potevi passare” gli fa
notare, sistemandoselo meglio sulle gambe e piegando un braccio dietro la nuca.
“Senza invito?”
“E da quando ti serve
un invito?”
Già. Da quando gli
serve un invito per presentarsi alla caverna, mentre il pipistrello non c’è?
Non che poi non lo venga a sapere, che lui è passato. Dio. Quel posto è più
controllato della stanza ovale del Presidente. Ma una cosa è infilarsi nella
caverna, recuperare quello di cui ha bisogno, e andarsene. Una cosa è
presentarsi a Villa Wayne. Di giorno. E vedersi
sbattere la porta in faccia.
Sarebbe l’ennesima
delusione della lunga serie di delusioni che ha collezionato nella sua vita.
Soprattutto visto che continua a ripete che non gliene frega un cazzo, né del
pipistrello né della sua combriccola di psicopatici.
In fondo, non è lui
quello che vuole uccidere Batman?
E allora com’è che ultimamente mi ritrovo a dargli troppo spesso una
mano? Quella è un’altra questione che dovrà decidersi ad affrontare. Perché
se dice di aver chiuso il capitolo, il capitolo lo si chiude. Punto. Sta
iniziando a mancare di coerenza, con tutto quel lasciarsi invischiare in
faccende che non lo riguardano. Ma a Tim come si fa a dir di no? Gli deve
ancora qualche favore. E Dio. Quando lo becca che sta ficcanasando nel loro
canale radio, restarci a parlare è anche piacevole. Quasi come sparare cazzate
con Roy.
Se va avanti così,
finirà che sarà lui il bersaglio di qualcuno per attirare Batman. E di fare la
parte del topo che è finito in trappola non gli va proprio, come idea. Lui ama
cacciare, non essere cacciato. Chiaro il concetto? E di solito preferisce la
caccia la pipistrello. Tipo i gufi.
No. Lasciamo perdere i gufi.
Meglio una donnola. Di
quelle che si infilano nelle tane di notte. E
zac. Argomento chiuso.
Il temporale sta
passando, la macchia di umidità sul soffitto si è fatta più scura, ma per il
momento l’intonaco non sembra volerne sapere, di venir giù. Il termosifone
manda ancora un po’ di calore e il tappeto è soffice. Anche la gamba di Dick è
comoda e lui non se la sente proprio di tirarsi in piedi e trascinarsi a letto.
Cinquanta centimetri per cosa? Un materasso?
Potrebbe strisciare. Ma
c’è Grayson.
Già. Grayson.
Che sembra essersi
addormentato, tanto è il tempo ormai che se ne resta zitto. E per quanto sia un
insopportabile rompicoglioni e le sue derisioni non gli manchino per nulla, Jason
sa per certo che è impossibile che fra loro non passi una sfilza di battute ogni
due minuti.
Quindi.
Il fottuto bastardo sta
dormendo. O poco ci manca.
“Non potevi proprio
evitare di venire a rompermi le scatole, questa sera. Uh?” sussurra appena,
premendo la bocca contro la stoffa dei pantaloni. Sa di acqua. E di terra
umida.
Non lo pensa veramente,
ma gli piace farlo incazzare e poi non saprebbe proprio come dirglielo,
altrimenti, che in fondo quella assurda serata, che era iniziata con una voglia
matta di sbattergli la porta in faccia, alla fine non gli è dispiaciuta.
Non tanto da farla
diventare un appuntamento fisso; o da volerla replicare. Ma non gli è
dispiaciuta. Forse era quello che ci
voleva.
“Smettila di sparare
cazzare; e fatti una dormita” lo rimbecca Dick. “È tardi.”
Questa volta non se l’è
immaginata. Jason ne è sicuro. Questa volta se la sente proprio in testa, la
mano di Grayson. Si sta incastrando in quello che è
il groviglio dei suoi capelli, e sembra aver deciso di voler passare lì quello
che resta di quella nottata. Giusto giusto a pochi
centimetri dalla sua faccia, dove potrebbe diventare troppo simile ad una
carezza vera. Come se fosse un suo diritto, restarsene lì; visto anche lo
schiaffo che si prende quando prova a spostarsi.
“Ma si può sapere che
ti prende?”
“Zitto. E dormi.”
La mano alla fine ha
deciso di lasciarla lì. E che a tutto il resto ci penserà quando si
risveglierà. Dio. Sa già che avrà un terribile mal di schiena, e le braccia
tutte intorpidite. Almeno Grayson non sarà messo
meglio di lui. Spera solo di non dover usare la pistola prima di un’ora decente
e di una sessione intensiva per sciogliere i muscoli, o il rinculo gliele
spezzerà, le braccia. E la mira farà schifo.
E lo dovrà a Damian, a quel fottuto casco che gli ha fregato e ad uno
stupido acrobata che non riesce proprio a rassegnarsi di farsi i cazzi suoi. E
che ha deciso di restarsene lì a dormire.
“Fanculo,
Grayson.”
“Altrettanto, Todd.”