Epilogo

di annies
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Era bello. 

Era bello come le foglie d’autunno che cadono e lasciano la strada dorata. Bello come il suono dei pianoforti vecchi, quasi mai aperti e improvvisamente vibranti. 

Era bello come una mattina di inverno, con la sabbia tra le dita dei piedi e i polmoni pieni di aria pulita. 

Era bello come quando ti metti a guardare la luna e improvvisamente riconosci, nella sua curva timida e nitida, il suo sorriso. 

 

Gli occhi verdi ma profondamente neri, ti ci butti dentro e non risali, anneghi, perduto, non sai più nuotare, respirare. 

Paralizzato.

Il sorriso del giovane che pensieri non ha, di chi non sa d’essere amato in ogni crepa, di chi non è consapevole della caducità della vita e di chi i sentimenti preferisce metterli in un canto.

La pelle, la pelle profumata di fresco, mai di qualcosa di pesante, di qualcosa che ricorda le lenzuola sfatte, le mattine con il caffè bruciato e di vita ancora da vivere.

Le mani grandi da uomo, i solchi profondi e ruvidi ma le dita tozze che lo ricordano a tutti, quanto in fondo ti piacerebbe restare bambino per sempre.

 

Era bello perché aveva quell’aria disinteressata e scostante che piace sempre e che fa in ogni caso innamorare. 

Ed era bello, era disperatamente ed incondizionatamente bello perché non riusciva a capirlo. Non riusciva a capire l’intensità del suo sguardo, non riusciva a capire l’ingenuità della sua risata e non riusciva a sentire il tono sommesso del mio cuore.

Sistole, diastole.

Sistole, diastole.

Forse solo il respiro mozzato e le mani che tremano. 

Contrazione, rilassamento, contrazione.

 

Era bello perché mano contro mano, occhi contro occhi, petto contro petto, avresti riconosciuto il mio amore anche fossi stato cieco.

E forse solo in quel momento mi hai vista. Mi hai vista inerme, incapace di proferire parola, solo, solamente stupide e fragili emozioni trasparenti.

Vitree come il suono limpido di un arpeggio, fugaci come un soffione in un giorno di primavera, brevi come una risata, intense come la pioggia di Marzo.

 

Ed è ancora contrazione, rilassamento, contrazione. È ancora sistole, di nuovo diastole e forse cominci a capirlo pure che il cuore batte solo per te.

Non mi lasci, mi chiedi di non andare, mi guardi e mi sorridi.

Io resto, resto perché se potessi restare per tutta la vita a tenerti stretto lo farei, tenerti tanto da non farti cadere mai.

E diventerei forte, forte io che il soffio del vento ancora mi spiazza, diventerei forte perché ti avrei accanto, mi trasmetteresti l’esperienza di chi preferisce soffrire in silenzio e di chi si mostra sempre vincente anche quando non lo è neanche un po’.

Non me ne vado, non me ne andrò mai, sarò l’eco del tuo cuore, l’eco di ogni tua emozione, sarò in ogni “ti amo” sussurrato, in ogni gesto prezioso, in ogni carezza io ci sarò.

 

Ossa contro ossa.

Clavicola, sterno, costole. Ti sento ancora vicino, ti rovino la camicia stirata con il rimmel ma ti giuro che non me ne vado.

Non me ne vado perché il nero non mi piace e senza di te è tutto, tutto troppo nero. 

Non me ne vado, ti tengo la mano.


Ti
tengo





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