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{La storia ha un punto di
vista. Non è in terza persona, sebbene inizialmente lo sembri
essere.
Avrebbe
voluto tornare ad un attimo prima, all'attimo in cui la sua nave era
stata colpita, sventrata, derubata di tutte le scorte e bruciata.
Erano poco più di una trentina di pirati eppure avevano avuto
la meglio su quella nave della marina britannica. Su quella nave dove
aveva imparato a divenire un buon soldato della Regina e un buon
amico del Commodoro.
Il
Commodoro insieme ai suoi superiori era stato legato agli alberi
della nave e mentre i pirati buttavano giù nel profondo
dell'oceano i giovani soldatini, a quelli di grado più alto
riservavano il fuoco.
Come
ogni uomo anche lui si era posto un giorno quella fatidica domanda:
sarebbe stato peggio morire affogato e sentendo il respiro mancarti o
bruciare sentendo lacerarti la pelle?
La
risposta, lui, non se l'era mica mai data.
Poi
non ricordava più cos'era successo. Però avrebbe voluto
tornare ad un attimo prima invece che ritrovarsi in quella stanza
spoglia, dalle pareti bianche, asimmetriche e lontane miglia e miglia
senza che neppure i suoi passi o le sue urla potessero essere uditi. Non v'era
eco, non v'era suono.
«Ehi,
l'ora del tè è finita da tempo*.» sentì,
al contrario delle sue aspettative, come fosse un tuono per le sue
orecchie. Una scossa dopo un silenzio che era diventato assordante,
perché la sua mente urlava e scalpitava continuando a
ricordagli il blu dell'oceano e il rosso delle fiamme e a parlare non
c'aveva manco provato. Tutt'intorno pareva ovattato.
«Chi
sei?» fu la prima frase che gli uscì dalla bocca, una
frase dalle labbra quasi serrate, una frase sussurrata e con una
compostezza che non gli apparteneva poi più di tanto.
«Questo
dovrei chiedertelo io, gioiellino. Anche se in realtà non me
ne frega poi molto di un inglese in calzamaglia, mi frega di più
sapere dove diavolo siamo quando fino ad un momento fa ero dentro un
saloon della contea di Marshall nel Kansas.»
«Non
conosco nessuna contea del Kansas, anzi non conosco nessun Kansas.»
«Non
fare l'inglese con me, intesi? Okay, ci siamo presi la nostra
maledetta indipendenza, ma fare i permalosi a tal punto da non
riconoscere più uno stato americano..! Dai, pensavo c'aveste
messo una pietra su! Stiamo quasi alle porte del nuovo secolo, man!»
«Cosa
stai dicen-...
«Ehi,
ehi... sapete dove siamo?- interruppe il dialogo un terzo uomo, dalla
parlata mezza americana, ma con un'intonazione strana -Che cavolo è
questo posto di merda? Io se non torno immediatamente dov'ero... mi
scordo la paga di questo mese. E a Palermo la mia famiglia ha bisogno
di me! Devo spedirgli la rimessa*!»
Gli
altri due si girarono contemporaneamente verso la terza voce: davanti
ai loro occhi apparve la figura d'un ragazzo che avrà avuto
più o meno la loro età, un ragazzo con le bretelle e un
cappello che nessuno dei due aveva mai visto prima. Un cappello e una
faccia che era tutto un programma, chiara sì, ma annerita da
chissà quale lavoro che aveva a che fare col carbone.
«Dove
siamo? Bella domanda.- il giovane americano provò a rispondere
alla febbrile richiesta del ragazzo -Vorrei saperlo anch'io, amico. E
vorrei avere con me il mio tabacco, giusto per sentirmi meglio.»
«Ho
delle sigarette se vuoi,- se ne uscì fuori l'italiano, con la
sua pronuncia alquanto sindacabile, tirando dalle tasche il
pacchetto- magari fumi solo con la pipa, ma meglio di niente.»
e gli accese con un fiammifero la sigaretta.
«Sono
proprio sottili, comode però.»
«Voi...
avete provato a raggiungere le pareti? Anche se lontane forse in
tutto questo bianco c'è una porta... un'uscita...»
rabbrividì nel frattempo il soldato inglese.
«Sì.-
rispose ancora una volta lo yankee -E... no, non c'è
un'uscita. Non so manco che diamine ci faccio qui, non ricordo
neanche come ci sia finito qui! Devo aver avuto una bella sbronza per
iniziare a vedere un soldatino blu e un italiano cencioso.»
«Sto
lavorando alla nuova Ferrovia del confine, scusa tanto se non sono in
frac. Far esplodere dinamite sul percorso è un cazzo di
lavoro, ma sempre un lavoro.» si sentì chiamato in causa
il ragazzo, strofinandosi le mani su i pantaloni.
L'inglese,
nel frattempo, sentendosi lontano addirittura dai discorsi che
dicevano quei due, si sedette. O almeno credette di sedersi, perché
in tutto quel bianco circostante, senza che neanche la sua ombra lo
seguisse, non era poi così sicuro di essersi seduto davvero.
La terra non vi era, così come il pavimento. Ma aveva chinato
le gambe e questo bastava a dargli un po' di certezza.
Sembrava
fosse l'unico preoccupato sul serio. O forse il ciarlare dei due
ragazzi era solamente un modo come un altro per non sentirsi
schiacciati dalla paura, dal timore, dalla solitudine di quel bianco
opprimente e violento.
«Vorrei
solo tornare in patria...» sospirò.
«Anch'io.
-gli si sedette accanto l'italiano udendo quelle meste e tremolanti
parole- Ma abbiamo un politico bello stronzo giù in Italia,
tutto al nord e niente al sud, così mi è toccato
emigrare. Ma tu non hai di questi problemi, penso... insomma sarà
bella costosa 'sta uniforme. Cos'è che sei, un sergente?»
«Un
soldato semplice. -gli rispose, ringraziando con un sorriso appena
accennato quello straniero dalla chiacchiera facile -E questa è
l'uniforme della Marina Britannica, sai. Mio padre quando partii nel
1719 gli splendevano gli occhi a vedermi con la divisa.»
«O
forse cercava di ricacciare indietro le lacrime. Mio padre era tutto
d'un pezzo, ma quando dovetti andarmene gli splendevanogli
occhi perché sapeva quanto poteva essere doloroso per me
lasciare Palermo.» a questo il soldato non c'aveva mai pensato.
Niente sentimentalisti nella sua famiglia di media borghesia. E poi
era inglese, lui.
Sebbene non si sentì
alcun passo, ad un certo punto fra i due s'accovacciò
l'americano che, con il suo modo di parlare sciatto e dalle vocali
allungate, s'intromise: «1719? Anche tu hai bevuto
forte, eh!»
«No! Sono in servizio.
-reclamò l'interessato- E perché mai pensi che abbia
bevuto?» alzò il volto, guardando in faccia il ragazzo
dagli occhi scuri e dall'alito dall'odor del vino.
«Perché siamo nel
1913!» rispose ovvio l'italiano.
«Siamo nel 1891!»
aveva risposto in contemporanea lo yankee.
Per un manciata di secondi il
fastidioso silenzio si impadronì nuovamente di quella gabbia
biancastra. E le menti dei prigionieri vorticarono gridando.
Delle date non erano niente e si
poteva facilmente litigare per esse in un ambiente normale, solito,
conosciuto...
Ma
se lo spavento, il terrore più vivo, l'apoteosi dell'angoscia
e del panico si formasse nel proprio cervello a causa di una stanza
senza uscita, senza vie né finestre, senza ombre e senza luce,
senza la minima idea di come ci si sia arrivati, cercando di
scacciare ogni brutta sensazione, pensando solo che sarà stata
colpa dell'alcol, del troppo lavoro, del fuoco o dell'acqua, buttando
giù qualche idea razionale anche se non si era poi mai stati
troppo acuti... allora delle date non erano niente,
ma al contrario erano il crollo definitivo delle proprie mura, il
tracollo decisivo della propria ragione.
«Mi chiamo-... il mio nome
è Damian Moore, sono un soldato. -iniziò tentennante
l'inglese -È il 12 settembre del 1721 e io stavo pregando Dio,
perché un branco di pirati aveva preso possesso di una nave
della Marina Britannica. L'aveva depredata e... e stava buttando giù
negli abissi dell'oceano l'equipaggio, bruciando per sfregio le vele,
il legno e i soldati di alto grado. E io pregavo Dio, perché
presto la sorte mi sarebbe toccata e poi... bianco. Dannato e feroce
bianco. Io non ricordo... non lo ricordo davvero.» parlava a
bassa voce, ma udibile. A bassa voce come a convincersi lui stesso di
ciò che affermava, ma udibile per provare a se stesso che le
sue parole avevano senso anche fuori dalla sua mente, pronunciate
dalla sua bocca.
Gli altri due, seduti ancora
intorno a lui, lo ascoltarono seriamente. E un brivido tremendo
serpeggiò su i loro corpi. Perché o fedelmente pazzo o
assolutamente convinto il ragazzo credeva in quello che aveva
pronunciato; di questo non si poteva dubitare, neanche scherzarci su.
Allora il giovane americano
cercò di non cadere ai postumi dell'alcol, o di guardare
quella vastità di bianco che lo sommergeva, squadrò
Damian e sospirando disse: «Io sono Jonathan, Jo mi chiamano.
Ho una splendida puledra di nome Light Tulip e una pistola... quasi
sempre senza cartucce. In fondo basta farla vedere una revolver, per
far allontanare qualche landruncolo del West. È il 12
settembre del 1891, sicuro quant'Iddio, e sono le prime luci
dell'alba perché Danny, il ragazzino dei giornali, ha appena
posato i giornali sul bancone del locale. Io ho... bevuto sì,
la sera prima, ma so ancora contarmi le dita e va bene così.
Non ho un lavoro fisso, ma mi occupo qualche volta dei cavalli giù
in città. È scoppiata una rissa, solita routine e
poi... wow, bianco vivido e che fa male agli occhi...» e finito
quello che aveva da dire sulle ultime cose che ricordava intrecciò
dietro la testa le mani, sdraiandosi a terra.
L'ultimo ragazzo, sbigottito,
rimase un altro minuto a cercare di elaborare quello che aveva appena
ascoltato. Non aveva senso. Ma in realtà non aveva senso
neanche che tre uomini come loro fossero dentro quel bianco
accecante, quasi claustrofobico.
Nessuno fiatò però
e, mancando solo lui, l'italiano parlò: «Io mi chiamo
Domenico Casaldi, palermitano da generazioni. Noi italiani ci
facciamo caso a queste cose, non perdiamo mai le nostre origini.
-spiegò nel suo americano imparato alla buona -Ma mi è
toccato andarmene in America, la grande America! Tanto per non morire
di fame. Però è tutto okay. Faccio l'operaio di
mestiere, costruisco le ferrovie; il capo è uno che ci fa
filare dritto e la figlia di un suo dipendente è una rosa!
Appena faccio più grana non le comprerò solo dei fiori.
Oggi è il 12 settembre, questo è vero, il 12 settembre
del 1913 e stavo usando la dinamite per far esplodere l'ennesimo
ostacolo per la costruzione di una rotaia, mi ricordo Jim che si
tappa le orecchie, come fa sempre, poi... questo... questa cosa...
bianco.» non riuscì a spiegarsi, non riuscì più
ad andare avanti.
Il pensiero, quell'unico
pensiero che avrebbe dovuto girare nella testa d'ognuno, era forse il
solo che non riusciva a farsi spazio nella loro mente.
Nella mente di chi era troppo
attaccato alla vita o di chi, semplicemente, nella sua vita aveva
pensato solo al presente, al futuro... all'uomo che sarebbe diventato
e alla donna che l'avrebbe accompagnato.
Era sempre così.
«È sempre così-
ripetei ad alta voce, guardandoli dall'alto per poi bruscamente
volare a picco, verso di loro -Non riuscite proprio ad arrivarci,
voi.» e forse quella che per me era una semplice affermazione,
era per loro l'ultimo barlume di ragione che gli veniva strappato.
I tre ragazzi mi videro piombare
fra loro, senza farmi un graffio, ma atterrando quasi avessi le ali.
C'è chi ci pensa infatti, gli sovviene il ricordo di un
angelo... di qualche strana storia della Bibbia o dell'ultima volta
che ha recitato quella preghiera su “L'angelo di Dio”.
C'è anche chi pensa stia
diventando completamente matto.
«Chi sei?» mi chiese
Damian. Sembrava il più concentrato nel comprendere la strana
situazione che gli era capitata. Ma non c'era niente da comprendere,
o almeno niente che nella sua ardua corsa verso la razionalità
avrebbe compreso.
«Un angelo...» se ne
uscì fuori Domenico, togliendosi il cappello per rispetto e
quasi morendo dalla voglia di vedere che prima o poi avrei mostrato
delle ali.
«Sta diventando sempre più
assurda tutta questa storia.» finì di dire per tutti e
tre l'americano, rimettendosi a sedere in tutta fretta.
«No, non assurda. Neanche
insolita o strana... vi è toccato molte volte tornare qui.
Sempre come uomini diversi, sempre con attitudini, caratteri, storie
differenti, ma vi è capitato molte volte di tornare qui. E
ogni volta avete scelto, come quasi tutti gli uomini fanno, la
possibilità di tornare ancora.»
«Che farnetichi? Mai stato
in questo... posto. Io... io me lo ricorderei!» cercò di
alzare il tono di voce con me Damian.
«Come ricordi la tua
morte?»
Invece del silenzio che avrebbe,
ancora una volta, dovuto riempire quella deforme stanza, si fece
largo fra i presenti un brusco e frenetico vociferare.
«Come sei morto?! In che
senso sei morto?» gli chiedeva Jo.
«Ma io ti vedo qui, in
carne ed ossa!» proferì Domenico rimettendosi il
cappello in testa.
«Non sono morto! Non sono
morto.- Damian continuava a ripetere, come a calmare gli altri. -Ho
la lucidità necessaria per poterlo affermare! Non sono morto.»
«Sì
che lo sei.- continuai -In realtà siete tutti morti. TAC!
“Povero ragazzo, aveva solo 22 anni!”
“Morire così! Senza neanche salutarmi...”
“Fino all'ultimo ha servito la patria!”...
questi i commenti che faranno su di voi. Poi... piano, non troppo
piano, vi dimenticheranno.» ogni volta dovevo essere diretto
per dargli loro la consapevolezza; per fargli entrare quell'unico
pensiero che non v'era riuscito ad insinuarsi.
E... giusto per non sentire
altre mille volte ancora le loro folli, quasi imbarazzanti lamentele,
ma poter passare alla fase successiva: l'ultima scelta che avrebbero
dovuto prendere. Certamente per permettere loro d'iniziare a credermi
avevo preso in prestito le voci dei loro cari nei commenti appena
dichiarati: la ragazza di Domenico piangente sull'appresa morte di
quest'ultimo. Il migliore amico di Jo, un ragazzo che veniva dal
Missouri con il pallino per il gioco d'azzardo. L'ammiraglio che
aveva veduto Damian quando per la prima volta s'era imbarcato e che
nell'ultima spedizione in mare aperto era rimasto a Londra.
Ammiraglio che, conoscendo suo padre, sicuramente sarebbe stato
l'uomo che gli avrebbe dato tale triste notizia.
Parole autentiche. Frasi che
facevano tremare.
«Non... è...
vero...» provò ancora Damian. Sebbene l'orrore di quella
scoperta v'era evidente sul volto esterrefatto, mortificato.
«Ma sì, ma sì.
Io non sono un angelo e questo non è il Paradiso. Ma per il
resto è tutto vero! Sono un “Messaggero”, di
quelli che si occupano delle “lettere da consegnare”.
Dobbiamo fare presto, siete tre lettere che debbono essere consegnate
e chissà se tutte e tre arriveranno a destinazione! Chissà
cosa sceglierete, mi diverto sempre un po', perché spero
sempre nell'altra possibilità... eppure, prevedibili, fate
sempre quella. Ahh...» misi una mano fra i capelli, un gesto
tipicamente umano.
«Chi sei...?» tentò
di ribadire Damian, in una voce così sottotono rispetto al suo
solito “Signor sì”.
«Chi-siete-voi,
piuttosto!- osai far comprendere loro -Anime stanche a cui il
“Consigliere”, il mio capo, per non impazzire fa
dimenticare gli ultimi istanti prima della loro morte. Prima della
sventura, della brutta storia, dello strazio... avete capito! Poi,
arrivo io..!» con uno schiocco delle dita riportai lentamente
nei loro ricordi, nei loro abiti, nei loro corpi l'ultimo atto prima
di giungere qui.
La divisa di Damian iniziò
a impregnarsi e a grondare acqua, i suoi capelli a sgocciolare, le
mani e le labbra a colorarsi di viola livido.
La camicia di Jo si inzuppò
di sangue, il petto si ricoprì di tre piccoli fori d'arma da
fuoco con i rispettivi proiettili all'interno, il labbro inferiore
divenne tumefatto e spaccato.
Il cappello così come gli
abiti di Domenico cominciarono ad annerirsi, a consumarsi, le punte
delle dita a coprirsi di fuliggine, di ferro, di polveri nere e
opache.
Non riportai il loro dolore, lo
cancellai.
«Oh mio Dio... OH MIO
DIO..!» urlò l'italiano nella sua lingua madre. Guardò
le sue mani e si strofinò gli occhi, per poi cadere a sedere
con un tonfo.
Jo si sbottonò la camicia
in un gesto quasi meccanico e con un po' di esitazione tastò
quei tre buchi nella sua pelle, come fosse in trance.
Damian allargò le braccia
per vedere da dove uscisse tutta quell'acqua, per cercare di
asciugarsi e tentare di capire come potesse non avere freddo...
Ma quando gli sguardi di tutti e
tre gli giovani si incrociarono la verità, chiara e crudele
come quelle mura asimmetriche, piombò nelle loro menti come
neve sopra i tetti delle case.
Fu qualcosa di... brutalmente
delicato. Come neve sopra i tetti delle case.
Agghiacciante e leggera.
La Morte.
«Non è la prima
volta che si muore, su. Ogni volta è come la prima, ma anche
in vita vige questa regola! Si muore e poi si torna qui. E si vede
che siete proprio mortali, perché vi dà così
fastidio esserlo che allora alla domanda “Volete rinascere?”
-ehi, nuova famiglia, tutto da capo, amici nuovi, ricordi nuovi,
nascendo lo stesso giorno in cui siete morti, lo stesso orario in cui
siete arrivati qui, pressapoco vicino a dove ve ne siete andati
l'ultima volta-... voi comunque rispondete “Sì”.
Non volete manco sapere qual è l'alternativa... perché
vi spaventa il “Io non sono”, il non esistere più
fra i mortali è forse quello che dà più fastidio
ad un mortale. Ed è un po' una cosa che fa ridere. Ma fa
ridere me, non voi.» arricciai le labbra in una specie di
sorriso. Si vede che a stare a contatto con gli uomini poi si fanno
gli stessi movimenti stupidi e... e anche da Messaggero non li avevo
abbandonati.
«Ed è... perché
abbiamo scelto... l'ultima volta di voler... rinascere che siamo...
ancora una volta qui?» domandò Damian.
«Esatto.» risposi,
puntando gli occhi su di lui.
«Siamo morti davvero
così?» frastornato chiese Jo. I ricordi c'erano... ma
l'accettazione non era mai stato il lavoro più facile per
l'uomo.
«Perché siamo solo
noi tre... qui? Perché non tutti i miei compagni?»
chiese l'inglese.
«I
pirati stavano razziando la nave e i soldati ancora in vita era ormai
pochi. -raccontai, alzandomi in volo di qualche metro per avere
l'attenzione di tutti e tre i giovani che s'alzarono in piedi- Gli
ultimi superstiti erano ancora sul ponte, mentre altri appena caduti
in mare cercavano ancora di nuotare per vivere. Sentisti le risa
sghignazzanti e derisorie dei filibustieri sino a quando con una
pistola puntata non ti spinsero nelle profondità dell'oceano.
Erano le cinque e quarantatré del mattino quando hai smesso di
respirare Damian. Il tuo ultimo pensiero rimase “sarebbe
stato peggio morire affogato e sentendo il respiro mancarti o
bruciare sentendo lacerarti la pelle?”.
-pronunciai con la sua voce- Perché poi avevi solo provato a
sopravvivere, a cercare di guardare su. Ma l'acqua è fredda e
le correnti ti hanno spinto, ti hanno tirato giù. Il 12
settembre del 1721 alle ore cinque e quarantatré.»
Nessuno si sentì in grado
di interrompermi, era la loro vita quella che stavo raccontando.
«Danny
aveva appena consegnato i giornali quando, per il rumore di quel
ragazzino che frenetico se ne correva via, alzasti la testa dal
bancone. Eri sì sbronzo, ma non a tal punto da non ascoltare
il frastuono di alcuni messicani che avevano iniziato una rissa.
“Solita routine” affermasti,
pure un po' divertito. La rissa però non si placò, anzi
si spostò verso il bancone in cerca di qualche bottiglia da
spaccare addosso a qualcuno. C'era chi urlava in messicano, chi in
americano. Eri di spalle, girato a guardare il locandiere fino a
quando uno non ti cadde addosso, ubriaco fradicio. Lo scrollasti di
dosso, quello non gradì. Poco male, non t'interessava. Ti
girasti mentre gli uomini s'accerchiarono, tirasti fuori la pistola e
forse proprio per questo volarono spari. La tua era scarica, per fare
strizza... la loro no. C'è chi muore sul colpo, chi invece no.
Il 12 settembre del 1891 alle ore cinque e quarantatré il tuo
cuore Jonathan... cessa di battere.»
«Che morte del cazzo...»
se ne uscì esclamando l'americano che fra poco piangeva, fra
poco rideva.
«La
dinamite era pronta e a chi ti chiedeva se era tutto okay Domenico,
rispondevi “tutto okay”.
Pensavano ancora che tu non riuscissi a capire o che tu fossi di
poche parole, ma tutte le tue parole le riservavi nelle lettere che
ti facevi scrivere dalla figlia di un operaio; una ragazza che sapeva
leggere e scrivere e che ti aiutava a mandare quelle lettere ai tuoi
genitori. Giù a Palermo tuo cugino sapeva leggere e quel che
avrebbe letto era anche che ti eri bel che innamorato di quella
ragazza intelligente. Eri vicino al detonatore di quell'esplosione
controllata. Era un lavoro che ormai conoscevi a memoria. “Tutto
okay” ti ripetesti mentre
Jim si tappava le orecchie... Abbassi la leva e non c'è
contatto o forse c'è stato, non subito, non visibile.
L'esplosione avviene, solo non come dovrebbe. Quello che senti non è
solo il suono, ma dolore. Sono le cinque e quarantatré del 12
settembre 1913.»
«Harriette...»
Domenico rimembrò il nome della ragazza con un tale rammarico.
«Tre ragazzi di ventidue
anni, che possono comprendersi e parlare bene o male la stessa
lingua, morti il 12 settembre alle ore cinque e quarantatré...
ecco perché siete qui. Meglio raggruppare e suddividere in
base alla comprensione, all'orario e all'età per non creare
inutili rappresaglie. Così ha deciso il capo. Siete tre
giovani che arrivando qui hanno condiviso incertezze e storie. E così
doveva essere, ma ora... ora cosa sceglierete?»
«Dimenticheremo tutto?-
domandò amareggiato Domenico -Anche la nostra famiglia? La
nostra terra? La mia Harriette? Non ho fatto in tempo a dirle così
tante cose...»
«Sì.- asserii
-Anche se voi umani siete proprio strani. Quello che verrà
studiato poi come Déjà-vu o Déjà-vécu
non è altro che un ricordo che avete legato con voi anche
nella vostra nuova vita. Noi facciamo del nostro meglio per darvi una
nuova vita, un'altra ancora. Ma un mortale ha sempre bisogno di
essere legato a qualcosa perché anche una nuova vita sulla
Terra è per voi un tuffo nell'ignoto... nel buio, nella morte.
Così se incrocerete per sbaglio o che lo si voglia una strada,
un profumo lo rimembrerete senza darvi una spiegazione. Capita di
rado di riconoscere una persona però Domenico, per via degli
anni, e seppur accada il sentimento che vi legava non lo sentirai.»
«Nasceremo... cavolo noi
nasceremo l'esatto istante quando siamo morti... ventidue anni
dopo... il mondo sarà ancora come prima.»
«Non ci scommetterei. Se
rinascerete tutti e tre c'è chi vedrà la Presa della
Bastiglia, la Rivoluzione Francese prima di morire. Chi si arruolerà
alla Prima guerra mondiale, chi alla Seconda. Chi nel fronte giusto,
chi in quello sbagliato...»
«Dimenticheremo ogni
cosa.» concluse Damian, indietreggiando.
«Anche quello che vi ho
appena detto. -ammisi chinando un attimo il capo- Ma rinascerete il
12 settembre dell'anno in cui ve ne siete appena andati. Vivrete e
camminerete ancora sulla vostra Terra e amerete, vi ammalerete e
sorriderete grazie alle emozioni che potrete provare di nuovo con la
vostra gente. Poggerete i vostri piedi sul cemento e la vostra ombra
vi seguirà, fedele.»
«Oppure finiremo per
sempre di vivere...» si crucciò di rammentare Damian.
«Non c'è neanche da
chiederlo. Fammi ritornare, amico!» proclamò a gran voce
Jo. Aveva le sue buone ragioni, ognuno le sue. Perché perdere
questa chance? Era giusto.
Tese le mani agli altri due e,
così com'era apparso a Damian poco tempo prima, con un sorriso
sfacciato se ne sparì dalla stanza.
«Spero di essere un figlio
migliore e di diventare un uomo che sa qual è il momento
giusto per amare una donna. Né un momento dopo, né un
momento prima, ma mai troppo tardi... fammi andare!» decise a
fine del suo dialogo l'italiano. E con un abbraccio e due pacche
sulle spalle a Damian il ragazzo scomparve.
«Io...»
La stanza era più vuota,
ora.
«...Rimpianti non ne ho.
Cosa tornerei a fare?»
«Come?» aveva capito
tutti i vantaggi del poter far ritorno sulla Terra quel ragazzo,
eppure restò lì a fissarmi... senza scegliere.
«L'alternativa... è
non rinascere più, no? Ma non avrò dolore, non avrò
male, semplicemente sparirò giusto?»
«Per non tornare più
alla luce.» mi affrettai a spiegare.
«Non ho rimpianti
Messaggero.»
«Non dirlo. Ogni essere
umano che arriva qui ha sempre qualcosa in sospeso, non fregarmi.
L'uomo sogna, spera e ricorda e per questo ha rimpianti. Alle volte
sono gravi, alle volte facilmente passabili. Così quando sa
che sta per arrivare la sua ora inizia a pregare, a sorridere ai suoi
cari, a dire che gli vuole bene e che devono andare avanti. Lascia
tutto nelle loro mani e si sente amato, protetto, sicuro, in attesa e
in pace con se stesso. Fa questo per dimenticare i lati negativi
della sua vita, fa questo per lasciarsi addosso fino alla fine un
latente senso di amore che oscuri tutto il resto. Ma una vita
stroncata come la tua...»
«Ho rimpianti Messaggero,
è vero. E mi dispiace davvero non esista il Paradiso sai?»
Un sorriso bonario comparì
su entrambi i nostri volti.
«Ma non voglio tornare.»
«Fantastico! Era da tanto
che nessuno prendeva in opzione questa scelta! Vuoi che ti spieghi,
vuoi che ti dica cosa sentirai prima di sparire?» Una scelta di
vero coraggio o di pessima codardia, quella era.
«No. Avrei solo paura.
L'agonia è l'attesa. Non voglio più morire di nuovo,
non voglio morire. Morire come un soldato sentendo l'acqua aprirmi la
bocca, l'aria mancarmi nei polmoni, sentire il dolore pungente della
morte, lo stancante momento di attendere quando tutto quello smetterà
di uccidermi. Provare la silenziosa morsa dell'acqua che entra nella
gola, restare con gli occhi aperti cercando il modo di riattivare i
miei sensi, di riportarmi verso l'aria fresca, dolce e invitante.
Cercare quindi di stare svegli, non capendo che proprio per questo
attaccamento morboso alla vita mi sto facendo solo più male. E
stringere le mani, con violenza, ultimo atto di un uomo che muore...
- strinse le mani, di nuovo, come stesse barcollando nell'oceano- Non
voglio morire. Non fatemi accettare ancora. Non fatemi più
morire. »
«Non morirai.»
«Non morirai. Sparirai
dalla tua vita da umano, senza obiezioni, non potrai tornare a
vivere. E sarai eterno. Sarai nulla e sarai eterno. Sarai eterno e
sarai niente. Non sarai più un uomo. Non vivrai più.
Non sarai più.»
«Da quant'è che non
vedevi questa scelta? Sembri elettrizzato.» era una domanda
buttata un po' così, giusto per non pensare a quel che sarebbe
accaduto. Una domanda di quelle di cui non volevi manco sapere la
risposta a dire il vero.
«Da quando non l'ho fatta
io.» ed egli scomparve.
Scomparve come uomo e l'oblio,
la dimenticanza lo prese con sé. Non era più umano, non
esisteva più. Il dolore di non esistere più era pari ad
un dolore lacerante, ma non fisico.
Era cancellare la persona, non
farla morire un'altra volta dandole la vita, ma strappargli l'essere
e lasciarla divenire parte di un concetto solamente un po' più
contorto. Come poteva il nulla morire? Come poteva qualcosa che non
si conosce morire?
«“Fino all'ultimo
ha servito la patria!”» pronunciai in un soffio con
il tono di voce di quel ammiraglio.
Egli si girò e sorrise a
quelle parole, poi scomparve anche quell'ultimo barlume di
rimembranza. La sua scelta era impossibile, ma gli uomini erano
strani.
«Deve essere stato un
brav'uomo.» proferì.
Avevo tre lettere da consegnare,
due erano arrivate a destinazione.
Damian era divenuto un
Messaggero.
-
- -
*l'ora
del tè è finita da tempo: una frase che rimanda al
'BOSTON TEA PARTY' quando gli statunitensi iniziarono la rivolta
contro gli inglesi. Ma rimanda anche al fatto che gli inglesi amino
il tè. Ovviamente comprende che è inglese dall'uniforme
della marina britannica che indossa.
*rimessa:
nel periodo dal 1901 al 1914 nell'era Giolittiana in Italia quelli
del Sud emigravano (soprattutto i giovani) per trovare lavoro in
America. Le RIMESSE erano i soldi che gli immigrati italiani
spedivano in Italia ai propri parenti. Giolitti era un politico che a
Sud non faceva altro che accordarsi con la malavita.
Ammetto,
c'ho lavorato tantissimo sopra questa One shot. Ed è forse una
delle più lunghe OS che ho scritto. Per il resto... Io spero
possa essere gradita, anche come conclusione del racconto. :)