Occhi... Occhi rossi.
Non era il bel rosso di una rosa in fiore o delle fragole, no: era il rosso
macabro del sangue che macchiava i suoi artigli.
Stava dritto di fronte
a lei e la guardava con quelle pupille azzurre come il gelo dell'inverno.
I suoi capelli argenti
danzavano intorno al suo corpo che, malgrado tutto, era un modello di
perfezione.
Lei era incantata e
intimorita da quella figura dalle fattezze umane.
All'improvviso la
creatura mosse un arto.
Era un gesto
minaccioso oppure voleva che afferrasse la sua mano?
Si avvicinò lentamente
e quando le proprie dita sfiorarono quelle dell'uomo, impregnate di rosso
plasma, sentì un peso che le schiacciò l'addome e che le impedì di respirare...
-Kagome!-
La ragazza spalancò i propri occhi color cioccolato
annaspando in cerca d'aria. Quando si fu un po’ calmata si alzò dal letto in un
nano secondo facendo cadere a terra il suo fratellino. Si girò
verso quel bambino tanto odioso quanto amabile in maniera omicida e
gli urlò: -Ma sei impazzito?! Volevi forse soffocarmi buttandoti sopra di me in
quel modo?-
Il bambino di circa dodici anni la guardò impaurito. -M_ma
eri tutta sudata nel letto, ti muovevi e sembravi spaventata. Mi sono
preoccupato e così ti ho svegliato!-
Lo sguardo della sorella mutò da “brutto moccioso ora ti
ammazzo” a “che dolce questo bambino che si preoccupa per me!”
- Va bene Sota, sei perdonato.- Si guardò in giro per la sua
cameretta. –Ma che ore sono? –
-Sono le cinque e la mamma ha appena sfornato la torta-
Gli occhi della maggiore brillarono di una strana luce. Il
fratello conosceva molto bene quello sguardo, significava solo una cosa…
-Chi arriva ultimo niente torta!!!- E Kagome si precipitò
come una forsennata al piano inferiore.
-Ma così non vale!!!- gli urlò il fratello.
La signora Higurashi sentì delle urla al piano di sopra e
sospirò: sua figlia certe volte si dimostrava più piccola del fratello
nonostante i suoi diciotto anni. Si vide arrivare in cucina una mandria
burrascosa che si sedeva al tavolo e che urlava di volere la torta. La donna
sorrise e servì la torta ai suoi due figli, Sota era arrivato subito dopo
Kagome, che la ringraziarono e si sbafarono subito la loro porzione. Si rese
nuovamente conto, mentre li guardava, che quei due ragazzi erano la cosa più bella
che le potesse capitare nella vita: Sota era un bambino meraviglioso e cresceva
ogni giorno diventando sempre più forte, invece Kagome era una ragazza solare,
gentile e piena di voglia di vivere e imparare. Sorridendo si girò verso il
frigo e lo aprì, vedendo cosa doveva cucinare per quella sera. Notò che le
mancavano degli ingredienti e chiamò la figlia, la quale le rispose con un
mugolio.
-Ti dispiacerebbe andare a fare qualche spesa?-
-Sì che mi dispiacerebbe.- rispose la ragazza sbuffando. –Ma
so che se mi rifiuto non potremo mangiare e quindi ci devo andare per forza.-
-Altro che dispiacerti!- le disse di rimando il fratellino.-
Al mini market qua dietro ci lavora il tuo adorato Hojo sempai!- nell’ultima parte della frase aveva fatto una vocina
stridula, con l’intento di imitare la sorella. Kagome gli diede un colpo sulla
testa, il viso arrossato, e si rivolse alla madre, la quale aveva un pericoloso
sorrisino sulle labbra. –Allora io mi vado a preparare, non posso uscire in
pigiama!-
La ragazza salì di corsa in bagno, maledicendo mentalmente
il fratello minore, e si sciacquò velocemente il viso. Entrò poi in camera sua
e scelse velocemente i vestiti: dei corti pantaloncini jeans e una maglietta
verde. Si acconciò i lunghi capelli neri in una coda bassa, riflettendo sul
fatto che la prossima volta che sua madre le avesse detto di far uscire insieme
a lei anche Sota, l’avrebbe strangolata. Come diavolo faceva sa pere suo
fratello che lei aveva preso una cotta per Hojo sempai? Sicuramente aveva
origliato la sua discussione con Yuka! Diede un’ultima occhiata alla sua
immagine riflessa nello specchio. Forse quella magliettina era un po’ troppo
scollata, ma ad agosto il caldo era davvero insopportabile. Scese da camera sua
e prese i soldi e la lista della spesa che la madre le aveva lasciato sul
tavolo. Suo fratello fortunatamente era scappato dalla cucina, perché se lo
vedeva lo strigliava per ben benino. Sfortunatamente in cucina vi era la madre.
-Buona spesa- le disse sorridendo mentre Kagome arrossiva.
La ragazza salutò tutti ad alta voce e uscì. Fuori casa si ritrovò nel cortile
del tempio dove abitava: la grandissima quercia che sovrastava il giardino,
goshimboku, proiettava dolcemente la sua ombra sul terreno. Sospirò, godendo
del piccolo filo di vento che si era alzato provocando un dolce rumore fra le
fronde del Goshimboku e portando con sé un dolce profumo. Ogni volta che
guardava quell’albero, Kagome si sentiva in pace con se stessa; indubbiamente
quel albero aveva qualcosa di mistico. Attraversò il giardino del tempio,
dimenticando completamente il rancore verso suo fratello, godendosi quella
piccola e piacevole passeggiata, e quando stava per scendere le scale, sentì
una voce che la fece sobbalzare.
-Nonno!- esclamò, sorpresa voltandosi –mi hai fatta
spaventare!-
-Dove stai andando?- domandò il vecchietto vestito da
sacerdote.
-Vado a fare la spesa, vuoi qualcosa?- gli disse sorridente.
Suo nonno era un tipetto molto strano, ma simpatico. Aveva compiuto da poco
ottant’anni ma era ancora piuttosto arzillo per la sua età, anche se aveva una
strana fissazione per mostri e antiche leggende.
-No, piuttosto…- mise una mano dentro la sua casacca.-… ho
un regalino per te.-
-Davvero?- rispose un po’ meno entusiasta Kagome. Sperava ardentemente
che non fosse una mano mummificata di un Kappa oppure una radice di mandragola,
come sosteneva lui. Era contenta che lui pensasse alla sua nipotina, ma avrebbe
preferito dei regali un po’ più normali. Invece, con sua enorme sorpresa, dalla
manica uscì una deliziosa e piccola sfera dai riflessi rosei e argentei che la
incantò. La sfera era attaccata ad una collanina in argento di squisita
fattura.
-Che bella- disse la ragazza prendendola fra le mani.
-Shikon no Tama. Questo è il nome di quella collana.-
-Me lo ricorderò! Grazie mille per il regalo, nonno!-
dichiarò la ragazza mettendosi la collanina al collo e dando un bacio sulla
guancia al suo progenitore.
-Fa attenzione nipotina, e fa buon viaggio.-
La ragazza di fronte il vecchio rise a quell’affermazione e
mentre scendeva le scale che conducono all’entrata del tempio, disse:- Non
parto mica nonno! Vado solo a fare la spesa!- Suo nonno la guardò in modo
strano, ma non ci fece caso e iniziò a scendere i gradini del tempio dove
abitava.
-Buon viaggio.- sussurrò lui come risposta, dando le spalle
alla sua allegra nipotina e riprendendo il suo lavoro.
Dopo un bel po’ di strada, passata a godersi il paesaggio
attorno a lei, si trovò davanti al mini market. Entrò e fece la sua bella spesa
nella speranza di incontrare il suo sempai. Ormai la scuola era finita,
quell’anno aveva preso il diploma, e aveva deciso che avrebbe fatto la stessa
università del suo adorato sempai. Lo conosceva dal primo anno di superiori,
lui andava al secondo, e aveva sempre avuto una cotta per lui. Quando Hojo
sempai aveva finito il superiore, cosa che aveva ridotto in pezzi la parte
femminile restante della scuola, visto che lui era uno fra i più ambiti, aveva
scoperto per puro caso che lui lavorava part-time al mini market dietro casa
sua. La sua gioia aveva raggiunto le stelle. Aveva quasi rinunciato quando
sentì una voce che chiamava il suo nome, si girò e lo vide correre sorridente
verso di lei, coi suoi occhi scuri che brillavano e i suoi capelli castano
chiaro che danzavano sotto al sole.
-Speravo proprio di vederti oggi, Kagome.- disse dopo i
convenevoli.
-D_davvero?!-Dire che era imbarazzata era poco.
-Ho saputo ieri da tua madre che ti sei diplomata a pieni
voti e stai per entrare all’università!- le sorrise e lei si sentì felice a
quel sorriso. Era un tipo solare e allegro, si sentiva sempre molto bene con
lui e sapeva che poteva dirgli tutto.
-Sì, sempai. E ti annuncio fin da adesso che anche l’anno
prossimo sarò una tua kohai.-
Hojo non credette alle sue orecchie. Rise di cuore a quella
notizia. –Quindi anche tu ti iscriverai alla mia università? Bene, sono
contento, non te ne pentirai- improvvisamente sembrò illuminarsi il viso. –Ho
un’idea, che ne dici di uscire a festeggiare questo sabato?
Kagome quasi esultò a quella proposta, ma fece finta di
niente e, dopo aver simulato di pensarci un po’ su, rispose -Mi sembra che non
ho impegni questo sabato. Sì, va bene.-
-Allora kohai, ci vediamo sabato.- le disse sorridendo.
-Certo sempai, a sabato.- gli sorrise di rimando voltandosi
per ritornare a casa.
La ragazza uscì dal negozio di alimentari felice come non lo
era mai stata in vita sua: uno dei ragazzi più belli che avesse mai conosciuto
le aveva chiesto di uscire. Non vedeva l’ora di arrivare a casa per raccontarlo
a Yuka! La sua amica era sempre stata convita del fatto che lei ed Hojo erano
una coppia perfetta, sarebbe stata felicissima di quella notizia. Passeggiando
tutta contenta coi sacchetti in mano
improvvisamente si accorse di un particolare che la fece fermare davanti
al fioraio.
Rosso…
In un vaso vi erano delle splendide rose. I petali erano
tutti dischiusi e sembravano vellutate e molto profumate. Avvicinò piano una
mano alla rosa e la sfiorò. Non era tanto la bellezza della regale pianta che
l’aveva fatta fermare cogli occhi sbarrati, ma il colore. Il colore del fiore
rosso.
Occhi… Occhi rossi, il
colore macabro del sangue.
-…non è vero?- una voce la portò bruscamente alla realtà. Si
girò verso il suo interlocutore con faccia meravigliata e gli chiese, come se
si fosse appena svegliata: -Come ha detto, scusi?-
Il negoziante riespose la sua domanda:- Sono molto belle
queste rose, non è vero, signorina?-
-Sì.- Affermò la ragazza. -Molto.-
Dopo questo cortese scambio di battute la ragazza si
allontanò sentendosi improvvisamente a disagio. Cosa c’entravano gli occhi del
suo sogno? Perché avevano questo potere di intimorirla e affascinarla al tempo
stesso? E poi, perché si sentiva in questo modo per uno stupido sogno?!
Era da molto tempo ormai che sognava di quell’uomo dai
capelli argentati. Ogni notte riusciva a vedere solo i suoi spaventosi occhi, i
capelli argentei e il contorno del corpo. Le sue mani inoltre le facevano
terrore: lunghi artigli al posto delle unghie ed erano ricoperte di sangue.
Sembrava che la chiamasse a sé, che la volesse… ma non era così sicura di ciò.
Che cosa… significava?
Le dolse improvvisamente la testa in maniera lancinante,
tanto che lasciò cadere i sacchetti che aveva in mano per poter afferrare il
cranio. Strinse forte le palpebre per il dolore e sentì le sue gambe barcollare
leggermente. Dopo qualche istante il dolore sembrò attutirsi e provò ad aprire
gli occhi ma si sentì tirare indietro da una forza a lei sconosciuta. Il
terreno le mancò sotto i piedi, il cuore le batteva a mille, sentiva come se
stesse fluttuando. La collanina che aveva al collo si era repentinamente
riscaldata e finalmente aprì gli occhi: brillava di mille colori.
Si sentì mancare, la testa le girò vorticosamente e svenne.
Non capì più niente. Silenzio assoluto.
All’improvviso delle voci cominciarono a levarsi intorno a
lei. Sembravano agitate, confuse, preoccupate. Naturale, se una ragazza ti cade
davanti agli occhi.
Kagome si alzò a sedere lentamente con gli occhi chiusi
mentre si massaggiava la testa. Le faceva ancora un po’ male. Si chiese cosa le
fosse successo, forse il caldo? Di certo non era da lei svenire in mezzo alla
strada. Si accorse improvvisamente del silenzio che regnava intorno a lei. Che
maleducati, però. Non potevano aiutare una ragazza che era appena svenuta e
chiederle come stava? In quel momento aprì gli occhi.
Subito desiderò non averlo mai fatto.
Effettivamente attorno a lei c’erano delle persone che
sembravano abbastanza preoccupate, ma… insomma, com’erano vestite? Mai aveva visto
in vita sua gente simile.
Tuniche dai sgargianti colori, nastri sopraffini, gioielli
in oro, argento, rame. Nessuno di quelli aveva uno stile preciso. Sembravano un
po’, un po’ troppo, alle vesti che portavano gli antichi greci e romani, solo
con qualche variazione che sembrava giapponese, cinese o indiana. Alcune donne
portavano un obi alla vita, altre un velo davanti al viso. Certi uomini avevano
o dei gonnellini di stoffa leggera con mantelli o lunghe tuniche e lasciavano
il petto scoperto, altri dei pantaloni di un kimono (o sembravano tali) con una
strana fascia alla vita. I gioielli variavano da uno all’altro: celtici,
egiziani, greci, romani e alcuni anche molto moderni.
Volse lo sguardo al luogo dove di trovava e si rispose senza
avere dubbi: quello era un tempio. La prima fila di colonne era palmiforme e
una seconda era ionica. La trabeazione era dorica e narrava le gesta di un tale
che lei non conosceva. Il tetto era stranamente piatto e aveva delle statue che
ti guardavano, imponenti. La ragazza, anche se non sapeva dove si trovava,
rimase incantata da quello strano stile architettonico che sembrava rimescolare
tutte le antiche culture.
Niente, nessun indizio che poteva rivelarle dove fosse
capitata.
Si guardò intorno, completamente spaesata.
-Dove sono finita?-
-Sei sicuro, caro, che non ci saranno problemi?- Una
bellissima donna aveva parlato. Lunghissimi capelli neri le ricadevano sulla
schiena, ed era vestita con una candida tunica ornata con delle cuciture d’oro.
I gioielli, d’oro anch’essi, erano di splendida fattura ed impreziositi con
gemme preziose. La donna si era rivolta al marito, seduto su una poltrona di
platino. Questa poltrona non sembrava stare mai ferma, infatti il platino si
combinava e ricombinava di continuo.
-Non preoccuparti- La rassicurò il regale marito. –E’ stato
tutto pianificato prima che lei nascesse. E’ la figlia del mio sacerdote, solo
che lei non ne è a conoscenza. Ha anche il sangue del nostro popolo nelle sue
vene.-
-Sì, ma… sono preoccupata.- Si girò verso una fonte d’acqua
cristallina dove vi era raffigurata una ragazza dall’aspetto spaesato. –E’
molto giovane, come farà a difendersi dai suoi attacchi di collera? Nostro
figlio è molto violento, lo sai.-
L’imponente uomo, se così si può appellare, si alzò dal suo
soglio e si avvicinò alla moglie. Arrivato accanto a lei, vicino alla fonte,
indicò un oggetto che la ragazza portava al collo. La bella donna sussultò.
-Ma quella….-
-La Shikon
no Tama
-Ma come può… cioè, è un’umana non potrebbe nemmeno sfiorare
uno monile del genere!-
Il marito sorrise. –Mi sembra di avertelo già detto, lei è
la prescelta. Riuscirà a calmarlo.- Si risedette sul suo seggio e incrociò le
mani sotto il mento, poggiando i gomiti sulle ginocchia. I suoi profondi occhi
ambrati erano mortalmente seri. –Deve riuscire a placarlo…-
-Bentornato Eccellenza-
Un uomo dalla bellissima armatura nera ricamata in argento,
che richiamava il colore dei suoi lunghi capelli, scese dal suo cavallo del
fuoco, affidandolo ai suoi piccoli stallieri Roku e Dai.
Alzò gli angoli della bocca in un’imitazione di un sorriso a
quell’affermazione: piccoli.
In realtà quei due mocciosi erano più vecchi di quanto
dimostravano.
Erano due gemelli. Entrambi avevano una carnagione
abbronzata, gli occhi chiari e i capelli metà arancione e verde, che si
invertivano da un ragazzo all’altro. Avevano, da sempre, il brutto vizio di
andargli a rompere le scatole quando meno se lo aspettava. Sembravano prenderci
gusto provocarlo… e anche a incassare pugni in testa da parte sua, a quanto
pare. Spostò il suo sguardo sul bellissimo cavallo che Roku stava liberando
dalle redini: Eros, il suo bellissimo cavallo di lava. Dal manto nero e gli
occhi d’orati, era il più grande, possente cavallo dalla muscolatura più
perfetta che avesse mai visto. La cosa che più incantava il suo padrone era la
sua criniera e la sua coda. Infatti esse erano fatte di fuoco, una fiamma
avvampante che bruciava a tutti tranne lui e i suoi stallieri.
Mentre Dai si occupava del cavallo, Roku si rivolse al suo
padrone, sinceramente sorpreso:-Come mai stavolta siete tornato così presto? Di
solito venite a guerra finita, non a metà!-
L’uomo gli lanciò un’occhiata che fu peggiore del solito
pugno che gli rifilava ogni volta che combinava qualcosa insieme al fratello.
Il loro signore si girò e si diresse verso la sua nobile casa.
Appena messo piede nel salone fu accolto da quattro voci
fanciullesche che gli davano il benvenuto. Erano le sue altre inservienti.
All’apparenza erano quattro bambine, ma in realtà avevano molti anni in più di
chiunque essere umano. Ai, Asagi, Shion e Moegi, questi erano i loro nomi.
Tutte e quattro s’inchinarono appena lo videro, tranne Ai che, dopo il piccolo
inchino, gli saltellò intorno contenta che fosse tornato, guadagnandosi
un’occhiataccia da parte di Asagi, la sorella maggiore. Asagi era una graziosa
bambina dai capelli verde smeraldo, legati in una coda alta e con una frangetta
sbarazzina, e gli occhi anch’essi verdi, però più chiari. Aveva un bel
caratterino ribelle, per questo litigava sempre coi ragazzi, ma voleva davvero
bene alla sorellina. Ai, la piccola del gruppo, aveva i capelli acconciati in
un buffo chignon, ed occhi blu. Era
piccola, gracile e molto dolce. Poi vi erano Shion e Moegi. Benché di aspetto
completamente diverso, le due avevano lo stesso carattere riservato. La prima
era scura di carnagione con corti capelli ed occhi violetto ed era capace di
tirare fuori una grinta fuori dal comune. La seconda aveva gli occhi e i
capelli del colore della foglia in primavera. Aveva due buffi cornini che le
spuntavano dai capelli; la chioma era divisa in due bassi codini e la frangia
stava ritta davanti agli occhi. Era molto intelligente e rimaneva sempre calma.
Il loro signore diede un buffetto sul capo dalla piccola Ai
che gli annunciò che il suo bagno era pronto. Moegi chiese se volesse portato
del cibo e da bere mentre faceva il bagno e lui acconsentì.
Si diresse verso il bagno spostò la preziosa tenda che
fungeva da porta e vi entrò. Tutti avrebbero voluto un bagno come quello. La vasca
termale era grande quanto una piscina olimpionica. Entrando l’acqua ti arrivava
appena sotto la vita e lì ti potevi benissimo sedere, ma se andavi più avanti
la profondità della vasca aumentava e una nuotata non te la toglieva nessuno.
La stanza era rettangolare e circondata da colonne doriche e fra queste, a
fungere da pareti, vi erano delle preziosissime tende quasi trasparenti di
diversi colori sovrapposte che formavano le molteplici incantevoli sfumature
del tramonto d’estate. La cosa più sorprendente era che tutto, e ripeto tutto,
il bagno era interamente in marmo, con piccole decorazioni in argento. In
alcuni punti studiati vi erano delle belle piante verdi che davano un tocco in
più alla stanza.
Si spogliò del suo rivestimento e del suo rosso mantello e
li ripose in un angolo sapendo che Asagi sarebbe venuta fra poco, insieme al
cibo, per prenderlo e lucidarlo a dovere.
S’immerse completamente nella vasca e poi riemerse
completamente pulito dal sangue che macchiava la sua pelle. Sospirando si
appoggiò al bordo della piscina, mentre i suoi capelli ondeggiavano nell’acqua
e le sue orecchie canine si muovevano al rumore della ragazzina che entrava,
prendeva l’armatura e portava il cibo al suo padrone. Asagi posò le vivande sul
piccolo tavolo, anch’esso in marmo, davanti all’uomo. Appena se ne fu andata
lui allungò una mano e prese un po’ di quella magnifica bevanda che solo gli
Dei potevano bere.
Era furioso, anche se non lo dava a vedere… almeno, non
adesso. Suo padre lo aveva richiamato dalla guerra, suo unico passatempo e
svago, oltre che dovere, per non si sa quale assurda ragione. Ringhiò. Lui era
il Dio della Guerra, non poteva mollare il suo nemico prima di averlo
sterminato!
Respirò a fondo, cercando di calmarsi. Poteva essere
successo qualcosa di grave… Che qualche bestia divinamente feroce stesse
tentando di attaccarli? Che i giganti del nord avessero mosso guerra contro di
loro? Non credeva, in quel momento avrebbe trovato tutto il regno celeste in un
caos. Insomma, sperava davvero, per l’incolumità di suo padre, che fosse
davvero qualcosa d’importante il motivo per cui aveva mollato in tredici la
battaglia.
Si fece una piccola nuotata e poco dopo uscì dalla vasca,
prendendo un telo per coprirsi, e si diresse nelle sue stanze per prepararsi a
far visita ai suoi genitori.