Il bambino correva
scalzo
per la spiaggia. Indossava ancora il suo pigiamino rosso e teneva in
mano l'orsacchiotto con cui dormiva la notte. Era di stoffa marrone,
un po' spelacchiato. Una macchia più chiara gli circondava l'occhio
destro.
Il sole era ancora basso
nel cielo. Lui era triste e stava piangendo, perché i genitori
avevano litigato più del solito. Non l'avevano degnato di uno
sguardo, così era uscito da solo e si era diretto verso il mare. Lì
avrebbe trovato il suo scoglio e, come d'abitudine, vi si sarebbe
seduto, guardando l'orizzonte. Quel giorno l'acqua era limpida e
rifletteva le prime luci del giorno. Quando si adagiò sulla roccia,
rimase in silenzio ad ascoltare i gabbiani che lo sorvolavano. Volse
lo sguardo verso il basso e vide una conchiglia sul fondo.
Si ricordava l'anno
precedente. Aveva passato gran parte della giornata a cercare
conchiglie con la mamma. Tornato a casa, le aveva riposte in un
contenitore e disposte come soprammobile in camera sua. Le aveva
mostrate agli amici, venuti a fargli visita durante le vacanze, fiero
di sé.
Ora osservava quella
conchiglia, enorme come non l'aveva mai vista in vita sua. Voleva
raccoglierla, ma si sarebbe bagnato. Cercò un bastoncino lì
intorno, ma non ne trovò.
Sentì la voce di papà
che lo chiamava. Si voltò e vide la sua faccia arrabbiata.
“Torna subito qui!
Quante volte ti ho detto che non devi arrampicarti lì sopra!”
Il bambino aveva paura.
Tornò con lo sguardo alla conchiglia e vide qualcosa spostarsi.
Era come una corrente di acqua fredda. Si sporse di più per capire
cosa fosse e notò una specie di volto che lo scrutava attentamente.
Gli sembrò che parlasse, in realtà sentì le parole solamente nella
propria testa. “Vieni con me”, gli sussurrò.
Senza
pensarci scese fino a toccare la superficie dell'acqua con un piede.
Era come attratto da quella presenza. Si tenne stretto il pupazzo al
petto.
“Fai
in fretta, sta per arrivare”, continuò con tono amichevole.
Scese
dallo scoglio. Non voleva essere sgridato da papà. E poi quella
conchiglia era sempre più vicina. Si immerse fino al collo, poi mise
una mano in avanti come cercando aiuto. Sentì qualcosa che la
afferrava dolcemente e lo tirava verso il basso. Ora vedeva la
conchiglia a pochi centimetri da sé. Fece per afferrarla, quando
questa scomparve. La stretta viscida dell'essere si fece più forte
sul suo braccio e il bambino venne trascinato via.
Il
padre arrivò in cima allo scoglio e vide solo per un attimo un
riflesso più scuro sul fondale. Quasi non se ne accorse, perché la
sua mente era concentrata sull'orsacchiotto di stoffa marrone,
appartenuto a suo figlio, che galleggiava davanti a lui. Allora urlò.
Katy
Miller viaggiava a cinquanta all'ora sulla Mercedes blu di suo padre,
diretta alla nuova casa. Era seduta sul sedile posteriore e guardava
fuori dal finestrino, con la speranza di vedere qualche altra
macchina, oltre la loro. Era nella stessa posizione da più di due
ore, e non vedeva l'ora di scendere per sgranchirsi un po' le gambe.
Vide un cartello sfrecciarle veloce alla sinistra e non fece in tempo
a leggerlo.
“Quanto
manca, papà?”, chiese.
“Ci
siamo quasi, tesoruccio”
La
mamma stava leggendo una cartina del posto, affascinata dalla
presenza di nuovi sentieri da esplorare. La mappa mostrava anche
molte spiagge, che però non sembravano interessarla.
L'auto
girò a destra e imboccò una stradina sterrata, proseguì per
qualche chilometro, e si fermò. Si intravvedeva dietro gli alberi
una casetta di legno grigio, con un portico a indicarne l'ingresso.
“Bello,
andiamo!”, esclamò entusiasta scendendo dall'auto. Si mise a
correre in direzione della casetta, alzando le braccia al cielo e
gridando “Siamo arrivati! Venite!”
Quando
furono tutti e tre insieme, il papà chiese “Che ne dite?”
“È
stupenda!”, disse la mamma.
Katy
si avvicinò alla porta. Papà tirò fuori una chiave e l'aprì.
Entrarono, preceduti dalla bambina, che salì di corsa le scale e
raggiunse la sua cameretta. C'erano conchiglie appese al muro e delle
stelle marine sopra al suo lettino. Sul cuscino qualcuno aveva già
appoggiato la sua bambola di pezza. Si sentì subito a suo agio.
Quando
scese per cena, vide i genitori portare in casa dei sacchetti di
provviste acquistate prima di partire. Quel luogo era distante
parecchi chilometri dal negozio più vicino.
“Aspettaci
fuori, Katy. Mangiamo sulla spiaggia!”, disse papà.
“Vaaadoooooo!”,
urlò Katy uscendo di casa.
Si
chiuse la porta alle spalle e si avviò verso il mare. C'era un
venticello fresco. Piccole onde si infrangevano sugli scogli vicini.
Si chiuse la felpa e si sedette sulla sabbia. Osservava il mare e i
gabbiani che lo sorvolavano. Girandosi verso destra, vide un piccolo
faro proiettare la sua luce che compariva e scompariva. I suoi occhi
la seguirono. Le sue palpebre si aprivano, si chiudevano, si apri...
“Katy,
vieni qui!”, la chiamò mamma.
La
bambina si tolse le scarpette rosa e le calze, e iniziò a camminare.
I piedi le affondavano nella sabbia morbida, lasciando orme bagnate
sulla spiaggia, che riflettevano la luce del sole al tramonto. Non
era abituata a quelle sensazioni, essendo sempre vissuta in città.
La
mamma stava stendendo una coperta per terra. Il papà invece arrivava
in quel momento, portando delle pizze. Mangiarono, ascoltando i suoni
della natura, e poi passeggiarono per la spiaggia. Andarono verso
quel faro che aveva visto poco prima, ma non riuscirono a
raggiungerlo, perché iniziava a fare freddo, e tornarono verso casa.
Durante il tragitto videro puntini di luce all'orizzonte,
probabilmente barche che tornavano al porto.
Quando
furono a casa, Katy andò subito a dormire. Sognò di giungere presso
il piccolo faro prima dell'alba e di trovarvi un anziano signore che
la ospitava, offrendole un tè caldo.
L'indomani
mattina si svegliò pensando di essere ancora con il vecchio, ma poi
si ricredette quando vide la sua bambola Jenny che la osservava. Si
alzò e andò in cucina, dove l'aspettavano mamma e papà per fare
colazione. Non raccontò loro del sogno, invece preferì tenerlo solo
per sé, come un segreto.
I
genitori avevano da sistemare ancora alcune cose, così Katy uscì da
sola e si guardò intorno. Aveva con sé la bambola. A lei aveva
detto del sogno. Voleva accompagnarla al faro per farle conoscere il
guardiano. Camminò, seguendo un sentiero nel bosco, invece di stare
sulla riva come la sera prima. Si inoltrò nella vegetazione e per un
po' il faro scomparì dalla sua vista, così si fidò del sentiero,
sicura che l'avrebbe portata là.
Dopo
alcuni minuti si trovò alla base di una scogliera alta una ventina
di metri. Prese una stradina tra le rocce che saliva lentamente. Fece
attenzione a dove metteva i piedi per evitare di farsi male. Arrivò
in cima con il fiatone e le gambe che le dolevano, ma in compenso
c'era una vista bellissima, quasi irreale, del paesaggio. La spiaggia
procedeva per molti chilometri in tutte e due le direzioni. Si
vedevano due strisce contrastanti: una gialla della sabbia e l'altra
di un verde scuro, dove iniziava il bosco. Alla sinistra scorgeva la
sua nuova casa, seminascosta dagli alberi. Si girò e guardò dal
basso verso l'alto il faro, che ora dava l'impressione di essere
immenso.
Vi
camminò intorno cercando l'entrata. Trovò una piccola porticina
marrone. Quando provò ad aprirla, si accorse che era bloccata. Fece
più forza, spingendo anche con il corpo, e riuscì a creare una
fessura che le permise di entrare. Era buio; non riusciva a vedere.
C'era parecchia umidità. Non era come nel sogno; nessuno era lì ad
accoglierla. Il vecchio era solo frutto della sua fantasia.
Provò
paura. Quel luogo trasmetteva sensazioni sgradevoli, come se fosse
stato infestato dalle anime di persone che vi erano passate negli
anni. Pensò di essere stata stupida a essersi avventurata da sola in
quel posto. Sarebbe dovuta rimanere vicina a casa, invece si era
allontanata. Però sapeva che non era colpa sua. Era stato quel faro.
Lui l'aveva attratta a sé. Sentì una specie di fruscio, ma
non proveniva da fuori. Era prodotto da qualcosa davanti a
lei. Sembrava un respiro. Era lento e regolare. Non osò muoversi.
Immaginava un mostro che si nascondeva nell'oscurità, una presenza
malefica schiacciata contro la parete che la osservava, aspettando il
momento per attaccare. Il respiro si fece più rapido.
Katy
prese forza e indietreggiò lentamente, sapendo che da un momento
all'altro quella cosa le sarebbe saltata addosso. Avrebbe
sentito dei denti aguzzi affondarle nella carne e non sarebbe mai più
uscita da lì. Ma così non fu. Il rumore si attenuò e lei raggiunse
la porticina, uscendo dalla tana del mostro.
Si
mise a correre, riprendendo al contrario la strada di prima, solo che
adesso le pareva che non finisse mai. Non si voltò, per paura di
vedere l'essere mostruoso che la seguiva, finché arrivò sulla
spiaggia davanti a casa. Nessuno la stava rincorrendo.
Quando
fu sotto il portico, i ricordi dell'esperienza divennero confusi. Non
ricordava neanche perché stesse correndo. Tirò la maniglia e
dimenticò completamente.
Era
ormai ora di pranzo. Per la prima volta mangiavano seduti a quel
tavolo e i genitori sembravano curiosi e insieme preoccupati di dove
fosse stata tutta la mattina.
“Ho
fatto un giro per esplorare i dintorni. Mi sono divertita a tal punto
che non mi sono accorta del tempo che passava!”, disse. E veramente
era andata così. O no?
“La
prossima volta faresti meglio ad avvisarci se hai intenzione di
allontanarti”, disse il papà.
“Certo,
scusatemi”
Era
molto stanca quel pomeriggio, perciò fece un pisolino che la rimise
in sesto. Svegliandosi, si accorse che Jenny non c'era più. La sua
bambola era sparita. Saltò giù dal letto e chiamò i genitori.
“Probabilmente
l'hai lasciata da qualche parte quando sei uscita...”, disse mamma.
“Vado
a cercarla, torno subito!”, esclamò correndo fuori.
Appena
mise i piedi sulla sabbia, si fermò. Non sapeva dove andare. Era
molto confusa. Aveva l'impressione che quella mattina non fosse mai
esistita. Ore e ore erano passate senza lasciare traccia.
All'improvviso non le importava più di aver perso la bambola;
sarebbe saltata fuori da un momento all'altro. Rientrò in casa e
disse di non averla trovata.
Trascorse
una serata tranquilla in famiglia, tra giochi di società e
barzellette divertenti. Papà era bravissimo a raccontarne. Lei aveva
soltanto un libricino su cui leggerle, che le aveva regalato la nonna
per il suo compleanno.
Si
coricò verso le dieci, ma riuscì ad addormentarsi solo un'ora dopo.
Quando ebbe chiuso gli occhi, immagini sconnesse si susseguirono
nella sua mente. Un sentiero nel bosco, una porticina di legno, un
luogo buio... e la sua bambola. La fissava immobile, distesa su un
pavimento umido, chiedendole pietà. Le lacrime le percorrevano la
superficie di stoffa che aveva come faccia, formando rigagnoli che
proseguivano fino a toccare terra. Continuavano ad avanzare verso una
piccola fessura, dove finalmente scomparivano.
Mentre
Katy dormiva, la sua testa si alzò. Così fece anche il suo busto.
Quando fu seduta sul materasso, si girò lentamente, permettendo alle
gambe di liberarsi dalle coperte. Appoggiò i piedi sul pavimento di
legno freddo della sua camera. Scese dal letto, aprì senza fare
rumore la porta e si avviò per le scale. Scese con calma,
inconsapevole di quello che faceva. Si avvicinò all'ingresso e uscì.
Nessuno la sentì, e la casa ripiombò nel silenzio della notte.
Erano
le undici e mezza. Fuori la temperatura era notevolmente bassa, ma
lei non se ne accorse. Il suo corpo era trainato da una forza
che proveniva da quel faro. Lei non vedeva, ma quel qualcosa
sì, e le faceva da guida. Lei si lasciò trascinare, e lui
l'accompagnò per il sentiero e su per la scogliera. Questa volta non
si fermò, neanche per un momento, perché sapeva di potersi fidare
di quella cosa.
Arrivò
davanti alla porticina. Adesso la sua percezione della realtà stava
ritornando, ed iniziò ad avere freddo. Fece per tirarsi su la
coperta, ma non la trovò. Ebbe un fremito. Gli occhi le si stavano
riaprendo contro la sua volontà. Era il faro che lo voleva.
Sentì la sua mano chiudersi attorno al pomello ed aprire la porta.
Entrò.
Si svegliò di colpo. All'inizio pensò di essere dentro un altro
incubo, poi rifletté, troppo bene per stare sognando, e capì dove
si trovava. Sapeva cosa doveva fare.
Avanzò
con le braccia protese in avanti. Ad un tratto si fermò ed iniziò
ad accovacciarsi. Era come se seguisse una mappa precisa, incisa nel
suo subconscio. Afferrò per una gamba Jenny, nascosta nell'oscurità,
la mise all'altezza del suo viso e l'abbracciò forte. Raggiunse
l'uscita e tornò a casa, senza notare le nubi temporalesche che
ricoprivano il cielo, senza percepire l'essere che la scrutava,
studiando il suo comportamento.
“Mamma!
Papà! L'ho trovata! L'ho trovata!”, urlò appena superata la
soglia.
Ci
furono dei rumori al piano di sopra. Dopo un paio di minuti i
genitori scesero le scale di corsa.
“Cosa
ci fai in piedi?”, chiese la mamma assonnata.
“L'ho
trovata! Ho trovato la bambola!”
“Dove?”,
chiesero entrambi contemporaneamente.
“Al
faro”, rispose senza esitazione.
Katy
trascorse il resto della notte piangendo nel suo letto. Quando aveva
detto loro di essere uscita senza permesso, papà l'aveva mandata a
dormire con uno schiaffo. Non era stato quel gesto a farle più male,
però. Era stato invece il fatto che lei, fino a quel momento, non
aveva neanche lontanamente pensato di aver fatto qualcosa di male.
Credeva che l'aver trovato Jenny al faro avrebbe fatto piacere ai
suoi genitori, ma non aveva riflettuto su cosa sarebbe potuto
succederle in quel posto. Semplicemente le sembrava stato giusto.
Al
sorgere del sole, Katy non aveva ancora chiuso occhio. Non solo non
voleva sentire gridare papà, che l'avrebbe sicuramente messa in
punizione, ma era anche arrabbiata. Poche volte aveva
sperimentato quello stato emotivo. In quei momenti sentiva come un
fastidio allo stomaco che non riusciva a sopportare. Qualcosa che le
rodeva dentro.
Fece
colazione da sola verso le sei, per evitare momenti di imbarazzo, poi
portò una sedia sotto il portico e si mise ad ascoltare la musica
sul suo nuovo lettore Mp3. Riuscì a dimenticarsi per alcuni minuti
della discussione che l'attendeva; la musica aveva su di lei un
effetto rilassante. Non aveva altro per la testa che le sue canzoni.
Quando
la mamma la chiamò, lei non se ne accorse.
“Katy,
vieni dentro!”, le gridò dalla cucina.
Non
ci fu risposta.
Dopo
cinque minuti venne chiamata dal papà, ma lei non lo sentì. Lui si
diresse a passo svelto verso la porta d'ingresso, furioso per la
mancanza di rispetto della figlia. Si bloccò. Ebbe uno strano
presentimento. Esitò a tirare la maniglia, come per ritardare ciò
che lo aspettava. Sapeva già prima di vedere con i suoi occhi. Uscì
senza più pensare a niente. Lei non c'era. Era tornata al faro.
Katy
correva ai limiti della sua velocità, graffiandosi di continuo
braccia e gambe. Le sue lacrime le rendevano faticoso vedere dove
andava. Comunque, sapeva la strada. Era ormai la terza volta che la
percorreva, e ogni volta si sentiva più sicura di quello che faceva.
Poi c'era Jenny a darle conforto.
Le
prime gocce di pioggia scendevano dal cielo grigio, creando
pozzanghere fangose lungo tutto il sentiero. Le sue scarpe
scivolavano di continuo, ma lei non voleva saperne di cadere. Non
c'era tempo di fermarsi. Doveva mettersi al sicuro. Probabilmente
mamma e papà la stavano già cercando. E là sarebbe stata al
sicuro. Lo sapeva.
I
genitori si misero a correre nella sua direzione urlando il suo nome.
Loro non avevano la fortuna di esserci già stati, perciò si
limitarono a seguire le orme nel fango, sempre più nascoste dalla
pioggia. Si inoltrarono nel bosco.
Katy
giunse alla scogliera. Le sembrò che salisse all'infinito, e non ne
vide la fine. Forse non doveva passare di là. Magari quella cosa
sapeva dei suoi genitori e la stava conducendo dove non l'avrebbero
trovata. Prese un sentiero sulla sinistra. Era la prima volta che lo
notava, forse perché nascosto dai cespugli. Proseguì per un tempo
indefinibile, saltando tronchi di alberi caduti e scostando rami che
le ostruivano il passaggio.
Si
fermò quando raggiunse il mare. Un venticello dolce la invogliava ad
andare avanti, allora si lasciò trasportare. Immerse prima i piedi,
poi le gambe e il bacino. Intanto sosteneva Jenny in alto per non
farla bagnare. La guardava fissa negli occhi.
L'acqua
le arrivò fino alle spalle. Vide un'onda arrivare velocemente verso
di lei. Era troppo tardi per arrendersi. Ora la bambola sorrideva, ne
era certa. Ad un tratto capì che non era più lei. Non era più la
bambola che aveva tenuto stretto fin da piccola. Era qualcosa di
diverso. Il faro adesso non c'entrava più con ciò che stava
accadendo. Ora era quella piccola forma di pezza che la guidava.
Si
sommerse completamente e la bambola fece lo stesso. Katy la vide
illuminarsi di una luce verde-giallastra e staccarsi da lei. Stava
cambiando forma. Si stava... liquefacendo. Era come se
diventasse tutt'uno con il mare. Intanto si ingrandiva, ingrandiva,
finché la circondò completamente con il suo manto blu e la
intrappolò.
Katy
non riusciva a liberarsi. Si dimenava e cercava di salire a galla per
respirare, ma tutto fu inutile. A poco a poco le sue forze si
esaurirono e lei chiuse gli occhi.
Riprese
conoscenza in un luogo buio e umido. Era immobilizzata da una
sostanza viscida e oleosa che la teneva attaccata ad una parete di
roccia. Sentiva il bruciore di ferite sulla schiena e un formicolio
alle gambe dovuto alla posizione in cui si trovava.
Cercò
di muoversi, ma non ci riuscì. Stette in silenzio ad ascoltare.
Udiva delle pietre spostarsi in un punto più in alto. Ci doveva
essere qualcuno. Le tornò alla mente di colpo tutta la mattina
trascorsa da sola, che non riusciva a ricordare. Il respiro.
Chiunque fosse lì con lei, doveva essere quella cosa. L'altra
volta non le aveva fatto del male, ma adesso era diverso. Lui
aveva aspettato. Era stato in agguato. Ora invece era il momento di
attaccare, e lei non poteva muoversi.
“Katy!
Katy!”, gridarono.
Erano
sbucati davanti alla scogliera, si erano guardati intorno in cerca di
sentieri, e avevano proseguito sulle rocce. Raggiunsero la cima e
videro il faro.
“Katy!”
Nessuno
rispose.
Trovarono
la porticina di legno e la buttarono a terra con un calcio. Entrò la
luce. Si precipitarono all'interno e videro la bambola di Katy. Era
lì da più di un giorno. La mamma la prese in mano piangendo.
“Dove
sei, piccola?”, chiese.
“Ehi,
guarda qua...”, disse il papà.
Gli
si avvicinò speranzosa. Lui stava osservando una fessura
rettangolare sul pavimento. Si piegò sulle gambe e la passò con un
dito. Tirò con forza e aprì una specie di botola.
Cos'era
stato? Il rumore di un tonfo aveva rotto il silenzio nella caverna.
Katy
guardò verso l'alto in cerca del mostro. Riuscì a distinguere dei
lineamenti molto confusi. Stava venendo verso di lei. Iniziarono a
notarsi delle braccia di un colore blu scuro, mani e piedi che si
appiccicavano alla roccia come ventose, per sostenere il peso del
corpo. Apparve il volto. Era liscio. Non un'escrescenza, non
un'imperfezione. Katy vi vedeva i riflessi del mare.
Le
arrivò davanti, a pochi centimetri dalla sua faccia. Vide quella
pelle squamosa, gli artigli di un azzurro intenso e sentì il suo
ringhio. La stava fissando attentamente, aspettando l'odore della sua
paura.
L'essere
si mosse in avanti di scatto. Katy lesse in quel volto un miscuglio
di rancore e sofferenze, e ne rimase ipnotizzata. Non riusciva a
distogliere lo sguardo. Si sentiva risucchiare le energie e diventare
sempre più debole. Intanto vedeva altri bambini che gridavano e
imploravano di essere salvati, ma per loro era ormai troppo tardi.
Non
sentiva più caldo o freddo. Non riusciva più a pensare. Ogni sua
capacità di percezione la stava abbandonando. Era sul punto di
arrendersi, quando la cosa se ne andò. La vide arrampicarsi
verso l'alto, nascondersi nell'oscurità da dove era venuta.
Per
qualche secondo non successe niente. Fu il silenzio. Poi iniziò a
sentire in lontananza una debole eco, che si tramutò in qualcosa di
più reale. Katy riprese conoscenza e sentì gridare il suo nome. Ora
non si trovava più intrappolata in quella sostanza melmosa, ma era
distesa per terra con dolori in tutto il corpo. Si mise a sedere con
fatica e vide delle sagome avvicinarsi. Erano mamma e papà.
“Katy,
Katy, Kat...”
“Sì,
papà?”
“Ti
sei fatta male?”, le chiese.
“Cosa...?
No”, rispose.
La
aiutarono ad alzarsi e si avviarono verso la botola.
“Cosa
ci fai qui?”, riprese la mamma.
“Io...
non lo so”, disse e la abbracciò.
La
cosa li osservava dall'ombra. Non poteva fermarli. Non osava
avvicinarsi. Vedeva la bambina avanzare insieme ai genitori mano
nella mano. Era quel gesto innocuo, quel legame d'affetto a tenerlo
lontano. Era sopravvissuto millenni nutrendosi delle paure delle
persone, della loro rabbia e dei loro dolori. E adesso quel gesto...
Non riusciva a sopportarlo.
FINE
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