In
bianco e nero
“Se me ne restavo lì era perché cercavo di provare il senso
di una specie di addio.
Voglio
dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo
lasciando.
E' una
cosa che odio. Che l'addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma
quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando.
Se no, ti
senti ancora peggio.”
(Salinger, “Il giovane
Holden”)
7. Strumenti del proprio
mestiere
Il
cielo bagnato offuscava le luci dell'universo. Ora, nel pieno di una notte che
scrosciava senza sosta, la metropoli sfavillante appariva oscurata, dormiva
ripiegata su se stessa, avvolta da un sonno profondo. Le poche anime che
barcollavano per le strade scivolose non bastavano a destarla. Ce n'era una di
anima, piccola e invisibile nonostante fosse stata forse la più ricercata in
quella giornata altalenante tra nuvole grigie e azzurri squarci di cielo.
Leggera, quasi pattinava sull'asfalto bagnato, ogni attrito era scomparso e
correre più forte avrebbe voluto dire solo continuare a cadere. L'anima
sperduta si appoggiò all'intonaco zuppo di un palazzo, riprese il fiato che non
aveva mai sprecato. Guardò in basso, le scarpe erano diventate due barche piene
di acqua: aveva la sgradevole ma veritiera sensazione di affondare ad ogni
passo. Si chinò e le sfilò a fatica, mentre la pioggia gli martellava senza
pietà la camicia ormai fusa alla schiena magra e bianca. Era quando sentiva il
peso di quella fatica che si accorgeva di essere ancora un ragazzo, e non
un'anima smarrita vagante per la città fantasma. Quando il fardello delle
emozioni e dei rimorsi lo schiacciava da dentro era come se il corpo stesse per
scoppiare, ma non esplodeva mai e tutto finiva per collassare dentro di lui di
nuovo, come in un enorme buco nero, scintillante nel suo oscuro mistero.
Afferrò le scarpe e, prima di ripartire, alzò gli occhi sulla volta che lo
sovrastava: non vide niente, se non acqua sulle pupille. Il cielo si illuminò,
poi rombò, e lui si rimise in cammino. Non ci vedeva bene. La notte precedente
aveva perso i suoi occhiali in quel fiume in cui aveva cercato rifugio, e che
l'aveva crudelmente riconsegnato al mondo a cui lui aveva già detto addio.
Trovare il coraggio di dire addio non è mai semplice: e quando la vita tradisce
i tuoi sforzi, riportandoti nello stesso luogo che sai dover abbandonare di
nuovo prima o poi, allora rincominciare a salutare è ancora più difficile. Una
macchina gli sfrecciò accanto, ma parve non accorgersi di quella piccola figura
oscillante a lato della strada. Era troppo sottile, infinitamente coperta da
quel mantello di acqua. Continuava a barcollare appoggiata ad ogni cosa
trovasse, in cerca di una piccola luce che potesse dargli la sua strada. Quando
sbucò da quell'intrico zuppo di vie, i suoi piedi scalzi scivolarono appena
sull'asfalto di un'enorme strada che correva a lato del fiume nero e traditore.
Ebbe l'istinto di correre, ma quella poca fradicia lucidità che gli era rimasta
gli suggerì che non sarebbe servito a niente. Si guardò intorno. In fondo al
cuore, c'era qualcosa che stava cercando, il suo non era un vagare senza meta
né sosta. Avrebbe ripetuto il suo copione, forse meno acclamato del giorno
precedente, ma comunque ugualmente intenso. Sarebbe stato l'ultimo spettacolo
senza pubblico, con solo una città ovattata intorno che, coperta da quella
pioggia, non avrebbe comunque potuto vederlo. Ma non gli importava, tutto era
già durato troppo a lungo, e non vedeva in quella fortuita coincidenza che gli
aveva permesso di vivere più a lungo nessun segno del destino. Semmai quello
era uno scherzo, e per niente divertente. Avrebbe riposto nuovamente fiducia in
quelle acque torbide, e questa volta sarebbe andato tutto solo e semplicemente
come doveva andare. Si incamminò, strizzando gli occhi per mettere a fuoco
meglio quello che lo circondava. Cercava tante piccole lucette in fila tra
acqua e cielo: nient'altro gli serviva per scrivere di nuovo la parola fine. Si
accostò al fiume, e guardò prima l'acqua, poi i suoi piedi scalzi, poi le
scarpe che teneva in mano, poi ancora l'acqua, poi l'asfalto, poi la città, poi
tentò di scorgere le stelle, poi l'acqua sopra di sé, poi lanciò le scarpe nel
fiume con un grido strozzato e provò a guardare dentro se stesso. Tremò, né di
paura né di freddo. Forse di sconforto. Gli sembrò di distinguere una chiazza
ancora più scura muoversi trasportata dalla corrente, e camminò nel verso
opposto rispetto alle sue scarpe. In fondo, distante, gli parve di scorgere le
lucette che andava cercando. Fu una lunga camminata, ancora più lunga di quel
giorno passato all'ombra della luce. Ripensò a quando si era svegliato, con
l'acqua che gli bagnava ancora le scarpe e il viso immerso nella rada erba che
cresceva vicino al fiume. Si era guardato intorno, e per un attimo aveva
creduto nell'aldilà. Poi era arrivato un rumore, un altro ancora, e appena la
mente aveva recuperato i suoi sensi, aveva compreso che no, quella era ancora
la vita che si era aggrappata a lui con tutte le sue potenti e incomprensibili
forze. Ed era rimasto lì per un po', a chilometri di distanza dal luogo in cui
aveva pronunciato il suo addio, steso nell'erba più rada delle sue forze ad
ascoltare le lacrime silenziose che gli scorrevano sulla pelle e il sole che lo
accarezzava, asciugandolo con dolcezza. Era stato come vedere improvvisamente
il mondo prendersi cura di lui, e per un attimo era stato assalito da un amaro
senso di colpa per aver rifiutato una natura che ora sembrava averlo accolto
con tenerezza nel suo seno. Ma quando poi aveva mosso i primi passi nel mondo
vero, aveva capito di nuovo che lì non c'era posto per lui. Non era quello che
voleva, non era quello che desiderava. Si era nascosto, lontano da tutti, e
aveva pensato a quanto migliore sarebbe forse stato quel pianeta senza l'uomo
ad infestarlo con i suoi mostri di cemento. E aveva pianto, di nuovo e ancora.
Forse era per quello che, quando si ritrovò a costeggiare di nuovo quel fiume,
non versò neppure una lacrima: non ne aveva più.
Vide,
finalmente, quello che cercava. Il maestoso seppur stretto ponte di pietra
acceso dalle miriadi di lucette artificiali. Non accelerò, non spinse di più i
suoi piedi sull'asfalto: non c'era nessuno, non c'era fretta. Sarebbe stato
tutto molto più silenzioso, un'esplosione interiore che avrebbe travolto lui
solo e di cui nessuno si sarebbe accorto. Constatò con una punta di disagio come la sua morte non sarebbe stata molto
diversa dalla sua vita. Ma anche allora non pianse. Continuò solo a camminare,
guardando fisso verso quelle luci offuscate. Era quasi arrivato. Si fermò.
C'erano delle sbarre, delle transenne che bloccavano il passaggio. Non era
possibile percorrere il ponte. Eppure non c'era nessuno a controllare
l'accesso, nessuno aveva voglia di bagnarsi fino all'ultima goccia di anima in
quella notte tuonante. Che senso aveva preoccuparsi delle regole di una società
da cui si era già congedato e a cui stava per dire di nuovo addio? Scavalcò le
transenne, scivolando. Si rialzò, e continuò a camminare su quel ponte, calpestando
con la propria pelle le pietre aguzze. Per un istante ebbe paura di morire
solo, senza nessuno. C'era qualcuno, in quel momento, che stava pensando a lui?
Gli tornò alla mente il viso del padre, poi l'immagine sfumò, e arrivò quella
di un uomo con gli occhiali e i baffetti, una mano protesa e lo sguardo triste,
triste per lui. Qualcosa gli scaldò il cuore, e l'ultimo barlume di
paura scomparse. Ricordava il punto da cui si era lasciato andare la notte
prima, e voleva tornarci, voleva chiudere ancora una volta gli occhi e
immaginare le stelle che non avrebbe potuto vedere prima di cullarsi in un
addio definitivo. Era convinto di essere solo, eppure scorse una figura. Non la
distingueva bene, era un enorme chiazza nera, e per un attimo pensò solo che
fosse una sbavatura di inchiostro in quel dipinto meraviglioso. Lì, esattamente
tra i due lampioni, appoggiata alla balaustra, solo una piccola imperfezione.
Si avvicinò, lasciando scivolare il palmo della mano sul muretto mentre
camminava. E quando fu a pochi passi, percepì la vitalità di quello spruzzo di
nero. Era un uomo. Un uomo che se ne stava sulle sue, vestito di nero,
guardando di tanto in tanto l'orologio, bagnato fradicio, faceva tamburellare
nervosamente il piede sul pavimento. Non si era accorto di lui? Non disse
niente, stesse a guardarlo con gli occhi spalancati, chiedendosi se forse
avrebbe potuto trovare una complicità in quell'altra anima solitaria che aveva
trovato lì, esattamente dove aveva creduto di essere da solo. Per lo meno, qualcuno
avrebbe assistito alla sua morte, e doveva ammettere che in parte questo lo
confortava. D'un tratto, l'Uomo Nero si girò. Portava degli occhiali da sole,
ma il ragazzo non lo trovò buffo. Non c'era niente di strano, tutto era una
propria scelta. Poi l'Uomo Nero parlò, sovrastando la pioggia in una sorta di
grugnito.
“Ma
tu guarda.”
Il
ragazzo capì all'istante che non avrebbe mai trovato complicità con una voce
del genere. Ci mise un altro attimo a capire che quell'uomo non gli piaceva. Si
sentì solo contro l'infinito.
“Buonasera.”
bisbigliò. Si rese conto che non pronunciava parola alcuna da un giorno, e la
voce era ridotta ad un soffio. Probabilmente l'Uomo Nero non aveva nemmeno
sentito. Il bestione sfilò dalla tasca un cellulare, ben attento a coprirlo con
la sua giacca per non farne bagnare lo schermo. Fissò il ragazzo, poi lo
schermo, un altro grugnito e infine ripose il cellulare in tasca.
“Direi
che sei proprio tu. Il nostro piccolo attore che si è messo in testa di
recitare un copione troppo difficile per lui. Com'è che ti chiami? Arthur, dico
bene?”
Il
ragazzo mosse un passo indietro d'istinto. L'istinto della vita che non lo
abbandonava anche quando aveva deciso di troncarla.
“No
no, non devi di certo avere paura. Non fissarmi con quegli occhioni sbarrati.
Non sai quanto sia contento di averti trovato senza tanta fatica. Sei venuto da
solo da me, e non avresti potuto farmi regalo migliore.”
Si
rizzò in piedi. Un lampo illuminò la loro conversazione.
“Ma
tu guarda che tempaccio. Che ne dici di fare due chiacchere in un posto più
tranquillo?”
Al
ragazzo sembrò di vedere un sorriso sadico dipinto sul volto dell'Uomo Nero, ma
forse era solo immaginazione. Il tuono rombò, e poi fu tutto nero e rumore di
acqua, e infine solo nero e silenzio.
“Stai
fermo un secondo Shinichi, altrimenti non riuscirò mai a fare un buon lavoro!”
Yukiko,
china sul figlio, era intenta in una delle sue magistrali opere di trucco.
Sorrideva compiaciuta nel vedere come, sotto le sue pennellate veloci e
precise, il volto del bambino stesse a poco a poco cambiando fisionomia.
Conan
non rispose, si limitò a cercare, per quanto possibile, di non muoversi. Stare
lì, immobile, senza poter battere ciglio, era per lui una tortura quasi
insostenibile: sentiva il corpo chiedergli a gran voce un piccolo movimento,
anche il più impercettibile. Inoltre, doveva ammetterlo, vedere su di sé una
persona che non aveva più l'aspetto di sua madre ma ne possedeva ancora la
voce, lo faceva sentire un po’ in soggezione. La donna aveva ora lunghi capelli
neri così perfettamente portati da sembrare quasi i suoi, e un trucco così ben
studiato sugli occhi da rendere quelli dolci e vispi di Yukiko praticamente
irriconoscibili.
Il
figlio era il suo ultimo lavoro. Prima di lui, erano passati sotto le sue abili
mani Yusaku e Ai, e ne erano usciti rispettivamente senza baffi, con un dito di
barba e di fondotinta lui, e con un'adorabile caschetto biondo e un'abile
passata di fard e mascara lei. Mentre Conan era sotto i pennelli, i due si
guardavano straniti allo specchio.
“Non
mi sono mai truccata tanto in vita mia, nemmeno quando avevo l'età giusta per
farlo.” diceva Ai, forse più a se stessa che ad altri, osservando le ciglia
rifinite. Doveva ammettere che, così, sembrava una ragazzina totalmente diversa.
Quel trucco la rinvigoriva, rendeva rosse le sue guance pallide per la nottata
insonne appena trascorsa, e copriva con una brezza di spensieratezza i pensieri
cupi che portava dentro.
“Appena
tutto questo sarà finito, mi occuperò personalmente di insegnarti qualche
trucchetto.”
La
voce compiaciuta di Yukiko preoccupò Conan, che temeva di ritrovarsi da un
momento all'altro una striscia arancione di fondotinta fuori posto.
“Non
ti distrarre.”
“Non
ti fidi di tua madre? Lo sai che in certe cose non mi batte nessuno.”
“Direi
che hai decisamente ragione.” affermò Yusaku. Si avvicinò con il viso allo
specchio, come a guardarsi meglio. Lo strato di trucco nascondeva in parte
anche le occhiaie marcate, ma ciò che lo colpiva di più era l'assenza dei
baffi: li aveva portati per così tanti anni che non ricordava più come fosse
essere senza. Toccò appena la barba finta, che gli dava non poco fastidio. Per
fortuna presto o tardi la sua sarebbe cresciuta, salvandolo da quel tormento
punzecchiante. Si accorse allora che Yukiko aveva lasciato per un attimo da
parte il viso del figlio, e lo stava fissando nello specchio che aveva di
fronte.
“Forse
dovresti togliere gli occhiali, e portare le lenti a contatto. Sarebbe il tocco
finale.”
Yusaku
non rispose, si limitò a sfilare gli occhiali dal volto e guardarsi nuovamente.
Di chi erano quegli occhi che lo stavano fissando senza battere ciglio? Non gli
sembrarono i suoi. Ebbe un attimo di indecisione, e come a confortarsi disse
piano: “Andrà tutto bene.”
“E'
quasi l'alba.” intervenne Ai. “Dobbiamo sbrigarci. E' meglio andare via prima
che sorga il sole.”
“Com'è
la situazione fuori?”
“Ho
controllato da ogni finestra della casa, in tutte le possibili angolazioni. Per
strada non c'è nessuno. La città sembra deserta dopo il temporale di stanotte.
Solo silenzio e pozzanghere.” rispose Yusaku. Poi aggiunse: “Mi ricorda un po'
una poesia che ho letto una volta.”
“Che
poesia?” chiese Yukiko, assorta nel curare ancora un po' gli zigomi del figlio.
“Fu
scritta da un poeta italiano. La quiete dopo la tempesta. Il suo nome
era Giacomo Leopardi. Un vero peccato non poterla leggere in lingua originale.”
La
sua constatazione restò infine sospesa nel vuoto. La moglie era ancora troppo
assorta negli ultimi ritocchi, il cervello di Conan lavorava solo sulle
preoccupazioni di Shinichi, e Ai si chiedeva se, davvero, la macchina che aveva
visto quella notte fosse stata solo frutto della sua immaginazione. Nessuno si
soffermò più di tanto su quella poesia, che cadde dimenticata all'affermazione
successiva. Forse nemmeno Yusaku ci pensava davvero, forse era solo un
diversivo per immergersi ancora qualche minuto nel suo mondo d'arte, e lasciare
da parte quello vero.
“Non
c'era niente?” chiese titubante Ai.
“No.
Solo qualche macchina parcheggiata a lato della strada, ma.. insomma, è una
cosa normale. Non cadiamo nell'errore di cominciare ad allarmarci per qualsiasi
cosa.”
“Mio
padre ha ragione, Ai.” aggiunse Conan, osservando allo specchio il lavoro della
madre, la quale se ne stava lì, accanto a lui, il piccolo pennello ancora in
mano, e aspettava con la soddisfazione dipinta sul volto il responso del
figlio. Ma Conan aveva tralasciato il suo viso per concentrarsi su quello della
biondina, che lo specchio rifletteva esattamente dietro di lui. Ai teneva lo sguardo
basso e di tanto in tanto si torturava senza pietà la dita, rigirandole e
stuzzicando le unghie. Conan capì subito che c'era qualcosa che la preoccupava.
Qualcosa in particolare.
“C'è
qualcosa che devi o vuoi dirmi?” le chiese. Continuava a guardarla dallo
specchio.
Ai
alzò lo sguardo a fissarlo. I due adulti attendevano immobili la risposta.
“No.”
Il
suo viso si distese, e cercò di tranquillizzarsi. Non voleva allarmare gli
altri inutilmente: in fondo, se Yusaku aveva controllato più e più volte, la probabilità
che quanto visto da lei fosse stata solo suggestione aumentava
esponenzialmente. Non c'era niente di cui preoccuparsi: o meglio, non c'era
niente per cui preoccuparsi più di quanto bisognava inevitabilmente fare.
“Bene,
allora.” esclamò Yukiko un po' nervosamente, per spezzare l'ennesimo silenzio
che si era instaurato in quella strana famiglia. Era dal giorno prima che
quegli attimi di gelato, imbarazzato e nervoso silenzio si insediavano a tratti
tra di loro, paralizzandoli come attori disorientati su un palcoscenico
sconosciuto. Ognuno aveva i suoi pensieri in testa, ognuno sapeva che la
situazione avrebbe potuto degenerare da un momento all'altro oppure
risollevarsi come se niente fosse successo, e allora avrebbero dovuto
ricominciare nuovamente da capo. Ma qual era la possibilità migliore? Prendere
di nuovo la scappatoia oppure sperare che quella surreale condizione si
concludesse una volta per tutte? In fondo, gran parte della loro normalità era
già stata compromessa: se gli Uomini in Nero non si fossero fatti vivi, quale
spiegazione avrebbe fornito Shinichi a Ran dopo averla strappata dalla sua vita
a causa di un allarme poi rivelatosi inutile? Forse sarebbe arrivato il momento
di dire la verità? E Ai e Conan sarebbero tornati di nuovo tra i Detective Boys
dopo un'assenza forse estremamente prolungata? Che cosa avrebbero detto loro?
Per il momento sarebbe stato simulato il ritorno in America di Yusaku Kudo e
della moglie, e il dottor Agasa avrebbe detto che Conan e Ai li avevano
seguiti, per un breve soggiorno negli Stati Uniti. La bugia era stata costruita
in poco tempo, e non avevano potuto inventarne una migliore.
“Avete
preso le vostre cose?” aggiunse ancora Yukiko.
All'ingresso,
vicino alle scarpe ordinatamente riposte, vi erano due borse di media
grandezza. In una vi era ciò che Yukiko e Ai avevano deciso di portare con sé,
l'altra era quella di Yusaku e Conan. Qualche vestito, il minimo indispensabile
e nessuna fatica per riuscire a chiudere la cerniera lampo, il che è un grande
traguardo per qualsiasi valigia. Sembravano pronti per una breve partenza, una
normale famiglia che decide di prendersi qualche giorno di pausa dalla città.
Eppure non c'era niente di normale nella loro situazione. Prima di tutto, non
erano propriamente una famiglia. In secondo luogo, i due bambini non erano
realmente tali, e tutti e quattro non mostravano il loro vero volto, ma solo
quello di una maschera abilmente costruita. Infine, non stavano assolutamente
partendo per una vacanza: non sapevano quando e se sarebbero tornati, e questa
era forse la sensazione peggiore che potessero provare. Guardando quelle mura,
non sapevano se il loro fosse un addio o un semplice arrivederci. Non sarebbe
stato giusto esserne consapevoli, se avessero dovuto dare un ultimo saluto all'orologio
che ticchettava senza mai stancarsi su quel tavolo, avvertendoli quando erano
stati in terribile ritardo, allo specchio che li aveva riflessi quando avevano
avuto bisogno di un'ultima conferma, alla scarpiera che aveva sempre porto loro
le scarpe adatte per il vestito adatto, a quell'enorme libreria che aveva
offerto loro le pagine giuste per staccare dalla realtà, a quel divano che li
aveva accolti quando erano troppo stanchi per camminare ancora, e a quella
porta che per loro era e sarebbe stata sempre aperta? Erano lì, senza dire una
parola, accanto a quei due borsoni appoggiati sul pavimento, in un silenzio
complice che li avvicinava più che mai. E Ai, seppure avesse conosciuto da poco
quelle mura, sentiva dentro di sé di provare le loro stesse emozioni: era una
strana sensazione, così forte da stordirla e farla sentire cullata allo stesso
tempo; farla sentire accolta, protetta, amata proprio da quelle persone che
forse avrebbero dovuto odiarla più di tutti perché in fondo, sì, in fondo era
partito tutto dal giorno in cui aveva completato quel dannato farmaco. Strinse
istintivamente la mano di Conan e quando il bambino si girò a guardarla, lei si
sciolse in un sorriso che era un involontario miscuglio di tristezza, gioia e
malinconia. A Conan sembrò che quello sguardo e quelle labbra chiedessero solo
perdono: ma da perdonare non c'era assolutamente nulla. Ricambiò la stretta e
il sorriso, sicuro di sé. Non aveva paura di quello che avrebbe affrontato: non
era da solo. Guardò suo padre, lì ritto accanto a lui. Stava riponendo un
blocchetto e una penna nel taschino della camicia a quadri. Li portava sempre
con sé gli strumenti della propria arte: una penna, un taccuino e la fantasia.
“Sarebbe
meglio uscire dal retro.”
Gli
altri annuirono. Yusaku e Yukiko presero le borse, e si incamminarono. Fu la
donna a dire le solite frasi di circostanza, del tipo: “Abbiamo spento tutte le
luci? Hai staccato la televisione del salotto?”
“Non
stiamo partendo per un viaggio, mamma.”
“Oh
beh, lo so.” disse lei, sorridendo. “Però è bello crederlo.”
“Sei
sempre la solita, con te non ci si annoia mai.” le sorrise Yusaku, dandole un
buffetto sui capelli.
“Ehi,
attento alla parrucca!” lo ammonì, controllando immediatamente se fosse tutto a
posto.
“Ops,
scusa, mi devo ancora abituare ad essere conciato come un clown.”
Ci
fu un istante di silenzio, in cui si guardarono l'un altro, e poi scoppiarono
tutti e quattro a ridere. Una risata liberatoria, di sfogo, di ilarità di
fronte all'assurdità di quella situazione che non faceva comunque perdere loro
il piacere di stare insieme. Fu così che, alla fine, lasciarono quella casa,
senza sapere se le stavano realmente dicendo addio. Ma in fondo che cosa
potevano essere quelle mura, per quanto care? Era di gran lunga più importante
essere insieme. Richiusero la porta sul retro senza dire una parola, in
silenzio, ma comunque tranquilli in fondo al loro cuore. Avevano appena vissuto
uno di quegli istanti in cui ci si rende conto che alla vita, per quanto imprevedibile
e stramba, ci si tiene davvero. E nonostante tutto, la vita era bella, era
bella sul serio. Non si voltarono indietro a riguardare quell'edificio, nessuno
di loro lo fece. Ora come ora, bisognava solo guardare avanti, in direzione di
un futuro ignoto che era lì, in attesa solo di essere vissuto.
Non
si accorsero che, qualche metro più indietro, una sagoma avvolta in un paio di
jeans e una felpa scura li stava osservando: il cappuccio ben calato sul viso,
per non lasciar scorgere i propri occhi. Li fissò incamminarsi, ma non si
mosse; affondò le mani nelle tasche della felpa e restò lì, immobile, come a
riflettere sul da farsi.
La
prima sorpresa per quell'insolito gruppo di viaggiatori arrivò appena svoltato
l'angolo. C'era un uomo, basso e dal fisico robusto, appoggiato ad un lampione.
Fissava l'orologio e si guardava intorno, vestito con abiti assolutamente
normali (per quanto possa significare tale termine) e con l'aria di non essere
lì per caso. Nessuno dei quattro l'avrebbe forse riconosciuto se non avesse
notato i folti baffi nel viso tondo dell'uomo.
“Ispettore
Megure?” bisbigliò Yusaku. Nella via regnava un silenzio surreale, e solo il
cinguettare dolce degli uccelli che annunciavano il giorno lo rompeva. Era il
suono della natura, e lo scrittore non volle intromettersi, per quanto sentisse
forte dentro di sé di farne lui stesso parte. Ma c'era dell'altro, c'era anche
la paura di avere addosso occhi e orecchie indiscrete a cui non volevano far
percepire nemmeno una briciola dei loro pensieri.
L'ispettore
sembrò riscuotersi e si voltò verso di loro. I suoi occhi stanchi e assonnati
si fissarono sull'amico che, così truccato, non venne subito riconosciuto.
“Sono
io, ispettore, Yusaku Kudo. Che ci fa qui a quest'ora?”
Megure
sgranò le palpebre: quello era Yusaku? Perché era travestito in quella maniera?
E la donna accanto a lui, era Yukiko? E quei due bambini, invece?
Quella
notte non era riuscito a dormire: il pensiero della strana richiesta del suo
amico scrittore lo tormentava. A che caso stava lavorando Shinichi? Perché una
stupida foto che lo ritraeva in compagnia di Ran poteva compromettere tutto al
punto da mettere in pericolo la vita della ragazza stessa e del padre? E
Shinichi, dov'era finito? Era sempre al lavoro sullo stesso caso fin da quando
era scomparso? C'era qualcosa che puzzava in tutta quella storia e, per quanto
Megure si fidasse di Yusaku, non si poteva chiedere ad un ispettore di
collaborare senza sapere niente di più. Lui doveva capire, comprendere almeno i
punti cardine di quella storia. Il giorno precedente Yusaku gli aveva detto che
sarebbero con tutta probabilità tornati negli Stati Uniti, e di occuparsi della
fuga momentanea di Ran e Kogoro: ma l'ispettore non ci aveva creduto, almeno
non del tutto. E così, dopo ore insonni a pensare ed ascoltare il respiro
tranquillo e regolare della moglie in mezzo ai tuoni che devastavano la città,
si era alzato piano, aveva preso in punta di piedi i primi vestiti che gli
erano capitati, ed era uscito, tra le pozzanghere e i rimasugli di quel terribile temporale.
C'era qualcosa, in fondo al suo intuito da investigatore, che gli diceva: il
tuo posto adesso è lì, vicino casa di Yusaku. O forse non era un ispettore
in quel momento. Vestito in borghese, era solo un amico preoccupato che voleva
aiutarne un altro. E il suo posto ora era lì, vicino a quella persona di cui si
fidava ma che non aveva il coraggio di abbandonare.
“Ma
come vi siete vestiti? Perché questo travestimento? Lei è.. Yukiko?” chiese di
rimando e, senza aspettare risposta: “E questi bambini?”
Conan
rifletté per un attimo se fosse il caso di mostrarsi o meno. In fondo, che
pericolo poteva esserci? L'ispettore era senza dubbio una persona fidata. E
comunque, anche a Ran avrebbero detto che lui si trovava con i genitori di Shinichi.
Si stranì un attimo nel pensare di sé in terza persona, ma scacciò via quella
sensazione che non poteva che distrarlo.
“Sono
io, ispettore.” fece dire alla sua vocina da bambino. Di chi ci si fidava
bisognava fidarsi del tutto. Erano pochi gli amici, e dovevano esserlo fino in
fondo. Almeno, riguardo a quello che potevano dire. Il grande segreto da non
rivelare per niente al mondo era la sua vera identità: quella no, quella andava
tenuta nascosta, perché era il fulcro attorno a cui tutto ruotava. Non saperne
nulla era fonte solo e soltanto di protezione.
“Conan?
Ma.. cos'è questa storia? Dove state andando?”
Yukiko
e Yusaku si guardarono un attimo prima di rispondere. Fu una strana scena:
improvvisamente erano una famiglia come le altre, in cui spettava ai genitori
prendere le scelte, mentre i figli, dal basso della loro posizione, con il naso
all'insù aspettavano i responso degli adulti.
“E'
una lunga storia.”
La
solita, patetica scusa di quando non si vuole raccontare qualcosa.
“Non
è un problema.”
“Non
posso raccontarle tutto, ispettore, mi dispiace.”
“Perché?”
Yusaku
si morse nervosamente il labbro inferiore, come a trattenere le parole. Sentiva
che l'ispettore non voleva altro che aiutarlo, eppure allo stesso tempo sapeva
che su certi spezzoni di quella strana storia era meglio tacere. Percepiva su
di sé lo sguardo ferito di un amico. No, forse era peggio: era lo sguardo di un
amico che non riusciva a comprenderti. E non c'è cosa peggiore.
“Io
voglio solo aiutarvi.” aggiunse Megure.
“Lo
sappiamo, lo sappiamo benissimo, ispettore.” intervenne Yukiko. Aveva la
straordinaria capacità di capire quando il marito avesse bisogno di aiuto e di
parlare esattamente allora, senza un minuto di ritardo né un attimo di
anticipo. Si sorreggevano l'un l'altro, si aiutavano a vicenda, si sentivano
sempre e comunque più vicini che mai: e se la coppia perfetta non esisteva in
nessun metro quadro di quel pianeta, loro ci andavano comunque molto vicini.
“Però,
vede..” continuò, e tentennò un attimo prima di concludere la frase: “Anche noi
a modo nostro non vogliamo altro che aiutarla. Il caso in cui si è cacciato
Shinichi è complicato, e per ora è meglio che le acque stiano calme. Loro non
devono sapere che li sta inseguendo ancora.”
“Loro
chi?”
“Di
preciso non lo sa nemmeno lui.”
“Ma
che storia è questa?”
“Ispettore,
la prego.” riprese la parola Yusaku, mentre Ai e Conan erano sempre lì. In
quella situazione non avevano voce in capitolo, davanti all'ispettore loro non
erano direttamente coinvolti nella vicenda.
“Glielo
giuro, non è facile per nessuno di noi. Shinichi era sulle tracce di alcuni
criminali, quando è improvvisamente sparito agli occhi del mondo. Sta cercando
di indagare nell'ombra, per avere più possibilità di successo. La foto che è
comparsa nei giornali potrebbe finire davanti ad occhi indiscreti: per questo
bisogna proteggere Ran, che era con lui nella foto. E noi dobbiamo sparire
dalla circolazione per un po'. Sono persone senza scrupoli.”
L'ispettore
sembrava sconcertato. Quante cose erano successe a sua insaputa in tutto quel
tempo? Di quanti particolari non si era accorto? Tutto ciò che sapeva era che
Shinichi non voleva farsi vedere in giro: perché non si era interrogato di più,
chiedendosi come mai il giovane detective, così sicuro di sé e amante delle
prime pagine, avesse improvvisamente deciso di agire lontano dagli occhi della
stampa? Per un attimo sentì addosso il peso di un enorme fallimento; l'attimo
dopo, aveva già deciso che era il momento di rimettersi in carreggiata.
“Come
pensi che possa mettermi da parte dopo aver sentito tutto questo? Dov'è ora
Shinichi?”
Conan
lo fissò, e per un istante ebbe l'impulso di gridare al mondo: Sono qui,
sono io! Possibile che nessuno lo capisca? Ma sentì la mano di Ai tirargli
la maglietta. Lei capiva sempre tutto in quelle circostanze: forse perché era
l'unica che quella situazione poteva comprenderla fino in fondo. E quando si
trattava del rapporto tra Conan e Shinichi, sapeva in anticipo tutto quello che
sarebbe accaduto, e guardava lo scorrere degli eventi anticipandoli un secondo
prima con la mente, come rileggendo un libro già letto o riguardando un film
già visto.
“Non
posso dirglielo.”
“Ma
voi lo sapete?” insistette ancora l'ispettore.
Yusaku
non rispose alla domanda. Si limitò a dire: “E' meglio così, si fidi di me.”
Megure
comprese che non poteva fare altro. Il suo amico era fisso nel suo intento, e
se riteneva che fosse meglio nascondergli qualcosa, doveva avere i suoi buoni
motivi. Yusaku non era il tipo da agire a caso: alle volte forse era un po' bizzarro
ed estroso, amante dei suoi libri e di quelli altrui, appassionato di gialli e
di casi interessanti per quanto tragici, ma non si poteva certo dire che non
avesse la testa sulle spalle. Non gli restava che fidarsi.
“Posso
fare qualcosa per voi?”
“Non
vogliamo coinvolgerla.”
“Dove
state andando? Lasciate la città?”
“In
realtà, no. Vorremmo rimanere nelle vicinanze.”
“E
dove starete?”
“Ce
la caveremo, come abbiamo sempre fatto.” rispose Yukiko, con un sorriso
tranquillo.
L'ispettore
sembrò improvvisamente ricordarsi di qualcosa, e socchiuse gli occhi
massaggiandosi il mento e i baffi. Sembrava stesse valutando una serie di
opzioni, per decidere infine quale fosse la migliore. Dopo un minuto buono,
fissò la famiglia improvvisata e disse: “Se avete intenzione di restare a
Tokyo, forse so come darvi una mano. Per voi sarebbe meglio non farvi vedere in
giro o in alberghi, anche di poco conto, se davvero la situazione è così
rischiosa. Ho un secondo appartamento in città, e per ora non è in affitto. E'
a qualche fermata della metro da qui: se siete d'accordo, potrete alloggiarvi
fin quando lo riterrete opportuno.”
Yusaku
e la moglie si guardarono nuovamente, in cerca di un assenso reciproco, e
questa volta interpellarono con gli occhi anche i due bambini. Alla fine
sorrise all'ispettore, ringraziandolo.
“Non
so davvero cosa dire: lei è un vero amico.”
E
gli porse la mano, che Megure strinse calorosamente. Aiutare qualcuno a cui si
vuole bene provoca sempre quel piacevole sollievo al cuore. E' una sensazione
strana, ma gradevole, che ci fa sentire, in fondo, terribilmente soddisfatti di
noi stessi.
“Non
c'è di che, per tutte le volte che siamo riusciti a risolvere un caso grazie a
te e a Shinichi. In più di un'occasione siete stati la nostra salvezza. Se non
te lo dovevo come amico, te lo dovevo come ispettore di polizia.”
Megure
spiegò loro come raggiungere l'appartamento, si era offerto di accompagnarli ma
loro avevano rifiutando, affermando che avrebbero potuto perfettamente prendere
la metropolitana o una macchina. Anzi, meglio i mezzi pubblici. Si accordarono
per incontrarsi lì, l'ispettore in persona, in abiti borghesi, avrebbe
consegnato loro le chiavi. E poi, probabilmente, si sarebbero augurati a
vicenda la buona fortuna.
“Posso
solo sapere,” aggiunse ancora l'uomo “chi è questa bambina?”
Si
chinò a guardare Ai. Se anche conosceva di vista i Detective Boys, non avrebbe
mai riconosciuto la ragazzina sotto quelle mentite spoglie. Lei non fiatò: era
il caso di parlare?
“E'
una mia amica.” prese in mano la situazione Conan. L'uomo con i baffi non
sembrò convinto.
“Se
siete così attenti a non mettere in pericolo nessuno, come mai vi state
portando dietro Conan e questa ragazzina?”
Allora
Ai parlò. Non serviva che qualcuno rispondesse per lei.
“Ci
sono dentro più di tutti loro, signore. Mi spiace, ma altro non posso dirle.”
Il
tono da adulta che permeava la voce di quella bambina colpì profondamente
l'ispettore. Sembrava, tra tutti, la più consapevole del rischio che stavano
correndo: al di là di quel tono calmo e pacato c'era ansia, timore e angoscia,
ma vi si celava anche una profonda e ben compiuta intelligenza. Megure non
riconobbe in lei la ragazzina che spesso stava con Conan, e si limitò a dire,
quasi rispettoso: “Come volete. Ci vediamo tra poco dove concordato.”
E
salutò con un cenno della mano e un sorriso un po' spento. Si incamminò verso
la macchina, facendo scattare il meccanismo di apertura quando era ancora
distante. I fanali risposero con un lampeggio che si fuse alla luce dell'alba.
E la famiglia ricominciò a procedere a piccoli passi in quell'enorme città che
stava pian piano svegliandosi.
Quando
Ai aprì la porta del laboratorio in cui aveva lavorato in tutti quei mesi, capì
senza bisogno d'altro di come, a poco più di un giorno di distanza, ne sentisse
la mancanza. L'ultima notte passata tra quelle provette era stata quella
dell'omicidio all'Haido City Hotel, quando Subaru Okiya le era improvvisamente
piombato in casa, costringendola involontariamente a interrompere il suo
lavoro. Le ultime ricerche la stavano portando verso il prototipo di un nuovo
farmaco: un pillola che forse avrebbe potuto inibire l'effetto dell'APTX4869
per un periodo di tempo più lungo rispetto ai precedenti. Chissà, forse per un
mese almeno? Ma sarebbe mai riuscita a creare un antidoto definitivo, a ridare
a Shinichi una vita normale, quella che lui meritava? Passò la mano sulla
tastiera del computer logorata dal battito delle sue piccole dita, come a
volerla accarezzare. Quel ticchettio l'aveva accompagnata tra notti insonni e
giornate lontane dal sole, quando gli occhi stanchi si fissavano su quello
schermo e cercavano di analizzare i dati, le strutture, le sequenze anche
quando, rossi e quasi socchiusi, non ne potevano più. Diede uno sguardo al
microscopio ottico che teneva lì accanto, e si accorse allora di aver lasciato
il vetrino lì, al suo posto, pronto per essere analizzato. Più in là, accanto,
vi erano le piastre di alcune colture cellulari, in cui analizzava il
differente sviluppo di cellule inibendo o stimolando determinati enzimi e
proteine. L'ultima fila di quella piastra era costituita da un mucchio di
cellule rachitiche: lesse quale enzima aveva provveduto ad inibire, e sorrise a
se stessa. Aveva immaginato uno sviluppo del genere a seguito di quella
determinata inibizione. Diede uno sguardo alla cappa, e alla soluzione tampone
che aveva preparato qualche giorno prima e aveva lasciato lì, chiusa, in attesa
usarla: era meglio sempre preparane in quantità maggiore rispetto a quella che
serviva nell'immediato. I tamponi li usava per almeno metà dei suoi
esperimenti, e prepararne ogni volta uno ad hoc era davvero una gran seccatura.
Rilesse gli appunti che aveva scarabocchiato qualche notte prima, l'inchiostro
macchiato dal blu di una soluzione di cui non si ricordava nemmeno. E poi lì,
in fondo, lo spettrofotometro a monoraggio che di tanto in tanto si divertiva a
farla esaurire con scherzetti di malfunzionamento: non era uno strumento
nuovissimo, tutt'altro. Ma il dottor Agasa lo aveva acquistato appositamente
per lei, e non poteva fare altro che dirgli grazie. La mente volò tra i ricordi
dei vecchi laboratori dove lavorava, quelli dell'Organizzazione, dotati delle
migliori tecnologie. Aveva il suo spettrofotometro a doppio raggio, che le
permetteva di risparmiare del tempo quando doveva misurare l'assorbanza di una
soluzione; poi c'era una saletta apposita solo per i microscopi, alcuni dei
quali di ultimissima generazione, collegati ad un computer dove le immagini
venivano visualizzate e dove si poteva studiarle mediante software appositi;
c'era poi quell'altra piccola stanza, con lo spettrometro di massa, in cui
lavorava sempre quell'omino basso e un po' pelato, il quale non voleva che
nessuno si avvicinasse al suo sacro strumento: Ai sorrise nel ricordare di come,
per quanto antipatico e scorbutico, quell'uomo bassetto di fisica ne sapesse
tanta, e spesso l'aiutava quando le sfuggivano di mente alcuni concetti di
chimica fisica o biofisica, o ancora quando doveva effettuare calcoli troppo
complicati e non ne aveva per niente voglia. Lui invece si divertiva a starsene
lì, ricurvo sui suoi calcoli, a lanciare occhiate al suo spettrometro di massa,
come timoroso che qualcuno potesse improvvisamente entrare di soppiatto e
rubargli l'amato strumento. Le provette rotte, gli esperimenti falliti in cui
non riesci a trovare l'errore, le cromatografie non riuscite perfettamente, le
analisi sulle soluzioni che alle volte la facevano davvero impazzire, le pesate
svolte con estrema cura, le pipette caricate facendo attenzione a non inserire
un solo microlitro in più: stare in laboratorio le piaceva, e avrebbe voluto
lavorare in uno vero, un laboratorio di ricerca per la vita e non per la morte,
in cui per quanto tu stia impazzendo su quelle misure su cui non ti raccapezzi
più, ci sarà sempre qualcuno accanto disposto a darti una mano.
Aveva insistito per venire con Yusaku in quel posto, per risentire per un attimo la magia e
lo stress di quei mesi, e per salutarlo come doveva. Perché non era tanto
sicura di poterci rimettere piede, in futuro. Se l'Organizzazione l'avesse
trovata? Non se la sarebbero lasciata scappare ancora una volta. Ricordò il suo
sogno, ed ebbe un brivido. Quasi le cadde di mano la pipetta in plastica che
stringeva tra le dita.
Poco
più in là, appoggiati allo stipite della porta, stavano Yusaku e il dottor
Agasa. Osservavano quel piccolo genio mentre dava quel momentaneo addio ai suoi
strumenti. Yusaku sapeva quanto fosse difficile per lei: erano probabilmente
gli stessi sentimenti che aveva provato lui lasciandosi dietro quegli scaffali
ricolmi di libri, e qualche appunto di una vecchia storia che aveva preferito
non portare con sé. Negli strumenti del proprio mestiere ognuno lascia parte
della sua anima.
“Dunque
starete in quell'appartamento fornitovi dall'ispettore?”
Lo
scrittore annuì: “Veniamo da lì. Abbiamo lasciato le poche cose che ci siamo
portati, e poi ho voluto tornare qui, per salutarti. Sei sicuro di non voler
andare via? Ran e Kogoro..”
“Oh
no, non preoccuparti per me. Alla fine non sono che un vicino di casa, non
penso mi possano fare nulla. Non sanno che Ai ha vissuto qui, e..” e qui la
voce gli tremò un attimo, prima di riprendere coraggio con uno dei suoi soliti
sorrisi bonari, “e non penso che farmi scomparire sarebbe una buona idea.
Attirerebbero solo l'attenzione.”
“Non
dire nemmeno una cosa del genere.”
“E
poi ci sono gli altri bambini, sentiranno già abbastanza la mancanza di Conan e
Ai, non posso abbandonarli. Ai è voluta tornare qui?”
“Sì.
Ha detto che ci teneva a salutarla e che voleva ricontrollare alcune cose.
Quella ragazzina ha un'incredibile forza d'animo: non è facile per nessuno, ma
credo che per lei non lo sia in particolar modo.” disse Yusaku, mentre
osservava la bambina rovistare in un cassetto.
“E
Yukiko e Shinichi?”
“Yukiko
è da Ran. Deve parlarle, non possono restare qui, almeno non per ora.”
“E
Shinichi non è con lei?”
“Lui
avrebbe voluto, ma Yukiko sostiene che sia meglio evitare. Si tratterebbe solo
di raccontare altre bugie.”
“Tu
sei d'accordo?”
“Penso
che abbia ragione.”
“Ma
sei d'accordo?”
Yusaku
alzò le spalle.
“Cosa
devo dirti, amico mio. Le donne alle volte capiscono le cose meglio di altri.
Mi fido di mia moglie: se ritiene che sia meglio così per entrambi, allora sì,
sono d'accordo.”
Agasa
sorrise di nuovo, mentre informava Ai del fatto che aveva ordinato alcuni libri
che la bambina aveva lasciato sparsi e che ora erano lì, su quello scaffale a
destra.
“E
Shinichi dov'è adesso?”
“Conoscendolo,
penso che starà osservando l'agenzia da qualche parte. Di sicuro ci tiene a
rivedere Ran. La scorsa notte è dovuto di nuovo scappare senza poterle dire una
parola.”
Il
loro discorso fu interrotto da Ai. Aveva voltato le spalle ai suoi strumenti, e
teneva in mano una piccola scatolina e una chiavetta USB.
“Io
ho finito.”
“Hai
preso i dati che ti servivano?”
“Sì.”
“E
quella scatola?” chiese Yusaku.
Ai
abbassò un attimo lo sguardo a fissarla, poi aggiunse solo: “Niente. Si tratta
semplicemente di qualche ricordo.”
L'uomo
non aggiunse altro, non c'era bisogno di sapere per forza tutto. A ognuno i
suoi piccoli segreti.
“Il
signor Subaru dov'è?” chiese Ai. Non lo aveva notato in casa.
“E'
andato via ieri sera. Ha detto che non voleva disturbare ulteriormente, e che
Shinichi lo aveva contattato dicendo che per un po' era meglio se non
alloggiava da lui. Mi ha detto che sarebbe stato in un albergo. Shinichi non vi
ha detto nulla?” chiese, stranito.
“No.”
affermò Yusaku. Si appuntò a mente che, una volta rivisto il figlio, avrebbe
dovuto chiederglielo. Erano successe così tante cose che quell'uomo era passato
loro di mente. Ai, dal canto suo, aveva uno sguardo leggermente preoccupato, ma
Agasa lasciò correre: sapeva che la bambina non si fidava del tutto di
quell'uomo.
“Comunque
è meglio se andate. Allontanarsi da qui è la cosa più prudente. Salutatemi Shinichi
e Yukiko, e state attenti, vi prego.”
Si
vedeva chiaramente che si sforzava di trattenere gli occhi dal diventare
lucidi. Era un uomo estremamente buono e sensibile, e avrebbe fatto di tutto
per aiutare i propri amici.
“Se
avete bisogno di qualsiasi cosa, io..”
“Hai
fatto già fin troppo, davvero. Grazie di tutto.” disse Yusaku. Fece per
porgergli la mano ma il dottor Agasa lo anticipò, abbracciandolo. Non serviva
essere formali in quel contesto. Yusaku sorrise, ricambiando la stretta. Quando
poi si separarono, lo scienziato si chinò sulle ginocchia, ponendo le mani
sulle spalle di Ai.
“Mi
raccomando, Ai, non fare pazzie. E torna a casa, torna a casa presto. Questa è
casa tua, ormai, la porta sarà sempre aperta per te. Mi mancherai.”
Ai
voleva dire qualcosa, ma le tremò la voce. La scatoletta e la chiavetta le
caddero di mano, e buttò le braccia al collo del dottore, affondando il viso
nella spalla di lui. Non riuscì a trattenere i singhiozzi, e si lasciò
consolare dal nonno bonario e affettuoso che non aveva mai avuto.
“Suvvia
Ai, non è di certo un addio. Quando tutto questo finirà, guai a te se ti
dimentichi di questo vecchietto, eh!”
Ai
scosse la testa, e si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Poi disse,
con un sorriso abbozzato: “Mi raccomando, pochi grassi, soprattutto quelli
saturi. Mangi tanta frutta e verdura, e beva molta acqua. Non mangi troppi
carboidrati, lo sa benissimo che l'eccesso di glucosio viene immagazzinato come
grasso, e questo non va troppo bene nel suo caso. Si ricordi poi che la
prossima settimana ha le analisi del sangue, bisogna tenere d'occhio il
colesterolo.”
Nonostante
le lacrime, aveva un tono tremendamente serio. Mentre Agasa assumeva la solita
espressione un po' intimidita e un po' da cane bastonato, Yusaku scoppiò a
ridere.
“E'
sempre così?”
“Sempre
così, questo piccolo genietto.” e le scombinò i capelli sorridendo.
“Dottore!
La parrucca!” esclamò la bambina, sistemandosi le ciocche finte sul viso.
“Oh
già, me n'ero dimenticato..”
E
ci fu una nuova risata, questa volta generale, in cui si scaricarono tutta la
tensione e la tristezza di quel momento. Mentre Ai si chinava per raccogliere
la scatola e la USB, si sentì leggera, nonostante il costante tormento del peso
delle sue azioni. In quella chiavetta vi erano tutti i dati che le servivano
per il suo lavoro. E nella scatola, riposte con cura, tre pillole. Erano gli
ultimi antidoti che aveva creato, e che con le ultime ricerche stava cercando
di migliorare: se non aveva sbagliato nulla, quei prototipi dovevano comunque
essere più efficaci dei precedenti che aveva dato a Shinichi. Li aveva presi
nel caso in cui si fosse rivelato necessario coprire la loro nuova identità.
Prima
di uscire, diede un ultimo sguardo a quella stanza, ai suoi compagni di
ricerche. E, mentre la porta si richiudeva alle loro spalle, non ebbe il
coraggio di dire addio: sussurrò piano, appena percettibile, un malinconico arrivederci.
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Ed eccomi di nuovo qui con il settimo
capitolo! Come al solito nelle mie intenzioni questa doveva essere solo la metà
del settimo, ma mi sono poi ritrovata con dieci facciate scritte e ho deciso di
concludere qui: voglio dare a Ran il giusto rilievo, e non relegarla alla fine
di un capitolo già comunque lunghetto :)
Ammetto che la parte che ho amato di più
scrivere è quella finale, in cui Ai saluta il suo laboratorio e si ricorda di
quello dell’Organizzazione: ho cercato di dare un’idea generale, accennando ai
vari strumenti più comuni. Per quanto riguarda lo spettrofotometro, ho basato
l’affermazione di Ai (il fatto che la facesse alle volte impazzire) su una mia
esperienza personale xD Ma in quel caso poi, come sempre, eravamo stati noi a
mescolare male la soluzione con la pipetta, ottenendo un valore dell’assorbanza
assolutamente assurdo.. ma andiamo avanti u.u L’assorbanza indica, in soldoni,
l’intensità di “luce” (radiazione elettromagnetica) che la soluzione assorbe ad
una determinata lunghezza d’onda. Capisco che magari non siano cose che tutti
conoscano (io stessa prima di iniziare l’università non avevo idea di cosa
fosse uno spettrofotometro o uno spettrometro di massa, anzi, tra poco non
sapevo neanche raccapezzarmi sulle onde elettromagnetiche), ma ho voluto lo
stesso inserire qualche termine più specifico, per dare un’idea migliore della
situazione. E poi, inevitabilmente, ci si affeziona a tutti quegli strumenti a
forza di vederli per giorni e giorni: ed è vero anche che, quando in
laboratorio qualcosa non viene, si impazzisce sul serio e volano parole non
troppo carine u.u Penso di aver
imprecato contro lo spettrofotometro quella volta ahah xD Va beh, come al
solito mi sono persa a parlare.
Altra parte che spero di aver reso bene è
l’inizio, dedicato ad Arthur. Fin dall’inizio la mia intenzione era quella di
farlo sopravvivere al tentato suicidio, poi ammetto che dopo il capitolo quarto
avevo pensato di modificare la storia.. la parte in cui lui si getta dal ponte
mi era sembrata.. non saprei neanche io definirla. Insomma, mi era sembrata
perfetta per lui, e mi sono chiesta se fosse il caso di far finire lì il
personaggio. Ma avrei dovuto rivedere troppe cose, e alla fine ho tenuto fede
al progetto originale. Inoltre, devo ammettere che un po’ mi ci sono
affezionata <3
Che dire.. spero che il capitolo vi sia
piaciuto, se volete farmi sapere cosa ne pensate ne sarei immensamente felice
*-*
Grazie a tutti quelli che mi seguono, che
hanno la storia tra le preferite, che recensiscono e non mi abbandonano
nonostante sia così lenta a scrivere! Ringrazio per l’ennesima volta Aya_Brea
per avermi consigliato Il giovane Holden,
il libro che ho appena concluso e mi è piaciuto davvero in ogni sua parte,
tanto che non ho potuto fare a meno di citare quel pezzo, proprio del primo
capitolo, che cadeva ad hoc.
Grazie ancora a tutti, e buone vacanze!
Un bacione,
Flami