Erano
tre mesi ormai che Isabelle si trovava in quel maledetto ospedale.
Aveva
solo quattordici anni, ma loro
dicevano che era pazza, che erano costretti a tenerla lì per
sicurezza, altrimenti chissà cosa sarebbe potuto succedere.
Questo
dicevano i medici.
Lei
li sentiva quando bisbigliavano oltre la porta della sua stanza ogni
volta che i suoi genitori venivano a farle visita.
L'ospedale
psichiatrico era una struttura estremamente strana e sgradevole: il
cibo sapeva di plastica e un odore di legno bruciato aleggiava
costantemente nell'aria.
Le
tende erano bianche e sporche e fuori dalla finestra il panorama
grigio dei bidoni della spazzatura era tutta la sua visuale.
Oltre
i bidoni c'era un muro bianco e sopra il cielo azzurro.
Si
chiedeva se quel cielo fosse davvero infinito come dicevano o avesse
una fine, come tutto al mondo.
Durante
le sue giornate vuote leggeva oppure si sedeva alla finestra ad
osservare il muro e il confine con quell'infinita distesa celeste,
fantasticando su cosa ci fosse dall'altra parte.
Immaginava
che ogni uccello le dicesse qualcosa, oppure che gli alberi appena
visibili ai due estremi dell'ospedale la salutassero e cominciassero
una conversazione con lei.
Dopo
cena era libera di uscire in quel cortile grigio e vuoto fatto di
cemento, e ogni volta provava ad avvicinarsi ai due alberi.
Quello
del lato sinistro le stava simpatico.
Era
più piccolo dell'altro, ma riusciva a comunicare molto
meglio.
"Ciao",
la salutò un giorno.
Lei
rispose chiedendogli che cosa avesse visto di bello durante la
giornata.
"Nulla,
in realtà. A parte qualche formica che ogni tanto mi fa il
solletico
alle dita", disse l'albero.
Così
la bambina tornò soddisfatta nella sua stanza.
Si
sdraiò nel letto dopo essersi messa la sua bianca
camicia da notte e chiuse gli occhi, cominciando a pensare alla
conversazione con l'alberello, quando improvvisamente udì
una musica
provenire da oltre la porta.
Sembrava
una melodia piuttosto inquietante, ma Isabelle non era per niente
spaventata.
Aprì
gli occhi e sorrise. Le piaceva quella sequenza.
Così
si alzò al buio e scostò le tende.
Osservò
l'albero e sorrise ancora.
Il
muro non sembrava più così chiaro nella notte.
Poi,
solo per un attimo, riuscì a scorgere una piccola testa tra
i rami.
Assomigliava
a lei, a differenza dei capelli rossi come il fuoco, e il suo corpo
era molto più piccolo, ridotto di un bel po' rispetto al suo.
Poi
la misteriosa figura scomparve e una voce cominciò ad
accompagnare
quella melodia.
A
quella se ne aggiunsero subito altre, tantissime, che la bambina
sentiva sempre più vicine e profonde.
Fu
a quel punto che Isabelle si mise lentamente a letto, chiuse gli
occhi e si addormentò tranquilla.
~
Per
tutto il giorno seguente pensò alla piccola bambina
sull'albero e a
quella melodia sconosciuta.
Pensò
che fosse strano che qualcuno suonasse a quell'ora.
Quella
sera, durante l'ora libera, chiese all'albero se aveva notato
qualcosa di strano la notte passata.
"No",
ripose l'albero con calma, ma Isabelle capì subito che stava
mentendo.
Poteva
essere pazza, ma non era stupida.
Così
insistette ancora, fino a quando non sentì la
verità.
"E
va bene", rispose la pianta, "una bambola era seduta su un
mio braccio stanotte. Non so cosa facesse, avevo sonno, ma teneva
qualcosa in mano e a un certo punto è scomparsa".
Quando
Isabelle tornò in camera quella sera, si mise alla finestra
e
osservò il sole scomparire dietro il muro bianco.
Sentiva
i suoi genitori parlare ancora con i medici, dopo la visita.
"É
possibile che la bambina veda cose che non esistono", sentì
dire ad una voce mai sentita prima, "e che viva in un mondo
parallelo, tutto suo".
Si
chiedeva se fosse vero.
Si
chiedeva perché la sua famiglia e la sua casa non le
mancassero
nemmeno un po'.
Non
stava bene in quell'ospedale, ma per qualche motivo a lei sconosciuto
era contenta di stare lontano da casa.
La
luce del tramonto rifletteva nella sua camera e tutto sembrava
più
bianco di quanto già non fosse.
Pensò
a quanto fosse ricorrente quel colore nella sua vita, e a quanto lei
l'avesse desiderato.
A
Isabelle sarebbe piaciuto sposarsi un giorno, con un abito lungo e
morbido e bianco.
Poi,
catturata da questi pensieri, spostò spontaneamente lo
sguardo
sull'albero suo amico, che se ne stava lì immobile ad
osservarla,
forse attendendo l'arrivo di quella strana bambina.
E
Isabelle rimase alla finestra a controllarlo fino a quando le
palpebre non le calarono e dolcemente si addormentò.
~
Quando
aprì gli occhi la ragazza capì subito di non
essere nella sua
camera d'ospedale.
Non
era nemmeno a casa sua, ma in un luogo umido e abbandonato.
O
almeno così sembrava.
Guardò
le pareti di legno: c'era un quadro appeso a una parete, ma
l'immagine raffigurata sembrava sfocata, si confondeva facilmente.
Poteva
essere una donna, forse due, forse molto giovani, ma era tutto
così
confuso che non riusciva proprio a capire con certezza ciò
che era
rappresentato.
Poi
osservò l'altra parete, quasi spoglia, con al fondo, in un
angolo,
un mobile vuoto e una scopa di paglia.
Si
chiedeva a cosa servissero in quel luogo dimenticato dal mondo.
Poi
si alzò lentamente, accorgendosi di non indossare
più la sua
adorata camicia da notte, ma un vestito rosa che le donava
moltissimo.
Aveva
il colletto e i polsini di pizzo bianco,
e il resto era rosa come uno degli ombretti della mamma.
Nonostante
intuì di essere sola e probabilmente anche in pericolo,
Isabelle non
aveva paura.
La
paura non faceva proprio parte di lei e del suo modo di essere.
Aveva
presto capito che la paura ti blocca, ma non ti fa ragionare.
Ti
immobilizza e basta. E a lei questo non sarebbe mai servito.
Scorse
lentamente lo sguardo sul resto della parete, scoprendo poi una
finestra senza vetro.
Sul
davanzale, immobile, si trovava un gatto nero, con i baffi talmente
lunghi che brillavano alla luce della luna, come il suo pelo.
Quando
spostò lo sguardo su di essa capì che doveva
essere notte fonda,
nonostante nella stanza ci fosse una luce quasi naturale proveniente
da una lampadina penzolante dal soffitto.
Poi
il gatto si mosse lentamente, scendendo dal davanzale e
incamminandosi verso la strada oltre la finestra.
Sembrava
quasi che la incitasse a seguirlo, ma Isabelle non si mosse.
Poi
l'animale si fermò e si volse verso di lei, guardandola con
quelle
iridi chiare alla luce notturna.
Così
la bambina si mosse, si avvicinò alla finestra, ma con sua
grande
sorpresa capì di essersi sbagliata.
Il
vetro c'era, perché la sua immagine ne era riflessa
all'interno.
Sembrava
uno specchio, poteva vedere i suoi lineamenti così bene da
fermarsi
a lisciare i capelli biondi, assorta.
Si
accorse di indossare un piccolo nastro che le teneva sollevata la
parte anteriore dei capelli, scoprendo il viso pallido e ovale.
Poi
il gatto miagolò placidamente, come ad invitarla a
proseguire
insieme a lui.
Lei
lo osservò un attimo, poi, senza pensarci,
oltrepassò il vetro.
Atterrò
sull'erba fresca della notte, proseguendo per il sentiero sterrato,
raggiungendo il gatto nero, senza mai voltarsi.
Dopo
circa dieci minuti di cammino, il gatto si fermò e lei si
volse a
guardarlo.
"Dove
stiamo andando?" gli chiese, confidando in una risposta
esaustiva.
Aveva
sempre creduto (e loro le avevano sempre dato modo di crederci) che i
gatti fossero degli animali estremamente precisi e più
pignoli
rispetto agli altri.
Alcuni
erano anche molto intelligenti.
Ma
il gatto non le rispose, semplicemente la guardò.
I
suoi occhi sembravano sinceri, come quelli di un buon amico.
Poi
l'animale si volse, osservando il sentiero davanti a sé, e
Isabelle
seguì il suo sguardo, scoprendo con sua sorpresa che un
albero era
comparso a pochi centimetri da loro.
Assomigliava
a quello dell'ospedale, ma era molto più grande e ingente.
Nascosta
tra i rami poté vedere una piccola bambina, una bambola con
un
vestito rosa e i capelli rossi fermati da un nastro dello stesso
colore del cielo notturno.
Si
volse verso il gatto per una spiegazione, ma non c'era più.
Era
sola con quella misteriosa bambola, e l'albero imponente.
Ma,
ancora una volta, non aveva paura.
Amava
l'avventura e i misteri, e sentiva una sorta di liberazione dentro di
sé, un potente senso di libertà.
Per
la prima volta, si sentiva libera.
Poi
la bambola le tese la mano, e lei poté finalmente notare i
suoi
occhi, rossi come le fiamme infernali.
Tutto
di lei ora sembrava di un rosso acceso, ardente.
Notò
che nell'altra mano impugnava un coltello affilato e lucidissimo.
Isabelle
esitò qualche secondo, poi prese la mano tesa.
Fece
in tempo a sentire un rantolo provenire dalla bambola:"Ora non
puoi più tornare indietro, non puoi più tornare e
basta".
Poi,
il bianco si impossessò di lei.
Il
colore dei suoi sogni, il colore che forse è un colore e
forse non
lo è la inghiottì come il buio investe la terra
quando il sole
scompare.
Il
bianco era dappertutto nella sua vita, ma lei non l'aveva mai notato
realmente.
Semplicemente,
l'aveva accantonato di proposito, perché il bianco era il
colore dei
sogni impossibili, era il colore della paura.
Un
colore morto che finge di essere vivo, oppure il contrario.
Un
colore che racchiude in sé tutti gli altri colori del mondo.
La
mattina seguente Isabelle non si sarebbe svegliata nel suo letto
d'ospedale, e nemmeno nel letto della sua casa di città.
Le
sue paure represse l'avevano imprigionata nella loro tela mortale.
Isabelle
non si sarebbe più svegliata e basta.
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