40settimane
Non
credo di aver mai realizzato veramente quanto il mondo sia enorme.
Non
è un semplice pianeta. È un insieme di
entità differenti, di anime.
Anima.
Esiste davvero? Cos’è l’anima, se non un
frammento di ciò che è stato?
Cos’è l’anima, se non un concentrato di
ricordi? Cos’è l’anima, se non un
qualcosa di flebile, di talmente effimero da scomparire come impronte
sulla sabbia?
Il
mio sguardo si perde sulla cartina geografica attaccata al muro di
questa stanza troppo piccola, forse per coprire qualche crepa. Una
cartina geografica in uno studio di oncologia. Bizzarro. Quasi a voler
ricordare ai pazienti con una crudeltà sottile e quasi
impercettibile tutti i luoghi meravigliosi che mai vedranno coi loro
occhi.
“Signor
Tomlinson.” la voce stanca del Dottor Ross mi distoglie dai
miei pensieri. Mi volto, alzandomi a stringergli la mano prima di
sedermi nuovamente.
“Come
si sente oggi?” chiede, più per abitudine che per
vero interesse.
Rispondo
nella stessa, rassegnata ma ironica, maniera di sempre.
“Peggio di ieri, meno di domani.”
Normalmente,
Arthur Ross si sarebbe messo a ridere. Magari appoggiando le spalle
ricurve allo schienale della sua poltrona, scuotendo la testa e alzando
gli occhi al cielo. È una specie di rito, il nostro.
Rimpinzarci di negatività per poi vomitarla tutta in
seguito.
Ma
oggi l’unica reazione è una ruga che si forma tra
le sue sopracciglia folte e bianche.
Il
mio cuore manca un battito, poi ricomincia a pompare sangue a
velocità anormale e insana.
Mi
mordo l’interno della guancia per ricompormi. Il dolore aiuta
le persone a ricomporsi.
Almeno
fino a quando non le uccide.
“Brutte
notizie in arrivo, immagino. Ed io che contavo su Babbo Natale
quest’anno.” il sarcasmo che volevo fosse pungente
viene distorto da una nota di preoccupazione nella mia voce.
“Ha
ragione, purtroppo. Brutte notizie sotto l’albero.”
I
miei polmoni non filtrano più aria, come se si rifiutassero
di collaborare, come se volessero distogliermi da ciò che il
Dottor Ross ha intenzione di dirmi.
“Spari,
Ross.”
Lui
chiude gli occhi, unendo le mani come se stesse pregando e
posizionandole sotto il mento.
“La
terapia che abbiamo intrapreso qualche mese fa sta vacillando. Non
perché non sia efficace, anche se le avevo preannunciato che
ci sarebbero potute essere delle complicazioni,
ma…perché qualcosa è cambiato, Louis.
Nella sua testa.”
Deglutisco
rumorosamente. I palmi delle mie mani sono sudati.
Nonostante
non voglia sentire il resto, sussurro. “Vada
avanti.”
“Dai
primi esami avevamo riscontrato un linfoma primario. Difficile da
trattare, ma non impossibile. Credevamo che bastassero le iniezioni di
corticosteroidi e la radioterapia per contrastarlo, data la sua giovane
età e le sue ottime condizioni fisiche.” fa una
pausa. “Ma ci sbagliavamo. Non si tratta di un semplice
linfoma primario.”
Dillo.
“È
una metastasi cerebrale, Louis.”
Rabbrividisco,
nonostante non abbia alcuna idea di cosa sia una metastasi cerebrale.
“Cercherò
di spiegarglielo nel modo più semplice possibile. La sua
metastasi…il suo tumore, per intenderci, è
causato da un melanoma. I sintomi che ha riscontrato, come nausea,
vomito, epilessia, alterazioni del suo stato mentale, sono analoghi a
quelli dei tumori primitivi. Le lesioni che attualmente si trovano nel
suo cervello sono causate da cellule cancerose trasportate dal sangue e
connesse alla materia grigia. In teoria la cura più efficace
sarebbe la radioterapia, quella che avevamo intrapreso per il linfoma,
o una radiochirurgia stereotassica. Purtroppo, le sue lesioni hanno
raggiunto un livello troppo avanzato, e neppure la chemioterapia
sarebbe efficace.” si passa una mano tra i radi capelli
bianchi.
“Perché?”
sussurro a denti stretti.
“Le
cause possono essere diverse, Louis, non si è mai
sicuri…”
“Non
intendevo quello.” lo interrompo, cercando con tutte le mie
forze di impedire alla mia voce di tremare.
“Perché lo chiama ‘il suo
tumore’? Cazzo…come se fossi stato io a volerlo.
Come se avessi pregato per avere quella fottuta metastasi! Come
se…” credo di essere entrato in una fase di crisi
isterica. Il mio corpo è scosso da un tremore violento e
incontrollabile. Mi prendo la testa tra le mani, i gomiti appoggiati
alle ginocchia, dondolandomi avanti e indietro sulla sedia.
Cazzo.
Cazzo. Cazzo.
“Signor
Tomlinson. Non sprecherò tempo a cercare di consolarla, a
raccontarle una favola. Aprire gli occhi ai propri pazienti, dirgli la
verità e solo la verità, aiutarli ad accettare
ciò che è nel loro corpo…questo
è il mio lavoro. Quel tumore, il suo tumore, si trova nel
suo cervello, Louis. Il suo. E per quanto lei possa aborrire questa
consapevolezza, non potrà mai cancellarla. Potrà
solo imparare a conviverci, col tempo.”
Tempo.
Quel maledetto, bastardo. Un poeta giapponese di cui non ricordo il
nome una volta disse ‘Chi ha tempo, ha vita.’
Ironico, per chi come me soffre della mancanza di entrambi.
“Quanto
mi resta?” la domanda fatale. Tre parole.
“Difficile
a dirsi.” risponde. “Mediamente, la sopravvivenza
di un paziente con metastasi cerebrale è di quattro o sei
mesi. Nel suo caso, Louis, possiamo aspirare alle quaranta
settimane.”
Quaranta
settimane. Ecco tutto quello che mi resta. Quaranta settimane. A cosa
corrispondono? Nove, dieci mesi?
“Mi
dispiace, signor Tomlinson.”
Quaranta
settimane. Dieci mesi.
“Quindi,
Dottor Ross, mi sta dicendo che mi lascerete morire?”
E,
nel silenzio in cui inizio ad annaspare, capisco che ho ragione.
Dicembre 2013.
Caro
Diario,
Il
mio nome è Louis. Louis Tomlinson. E non so per quale cazzo
di motivo io stia sprecando minuti preziosi della mia vita (che
finirà entro quaranta settimane, giusto per fartelo sapere)
a scriverti. A scrivere nelle tue pagine. La mia psicologa,
l’ho soprannominata ‘Fusa’, mi ha
consigliato di usarti come terapia. Stronzate. Peccato che sia
obbligato a farlo, o si rifiuterà di aiutarmi.
Ho
una metastasi cerebrale, Diario. Non starò qui a spiegarti
in modo scientifico di che cosa si tratta, ma sappi che è
una bastarda. E che mi sta rovinando la vita. O forse l’ha
già fatto.
Sai,
Diario, è strano. Non ho paura di morire. Anche se mi sono
sempre considerato ateo, so che c’è
qualcosa…qualcosa là fuori. Lassù. Non
so cosa sia, ma potrebbe salvarmi. Anche dopo che il mio corpo
sarà diventato cenere.
Ho
avuto un’idea. In queste ultime, maledette, quaranta
settimane, ti racconterò una storia. Non sono mai stato
bravo nel farlo, ma mi impegnerò.
La
mia storia si chiama Harry.
La
prima volta che lo incontrai fu nel 2011. In un caldissimo
venerdì di agosto, in un famosissimo festival musicale che
ogni anno si svolge nella città di Leeds. Forse ne avrai
sentito parlare, Diario. È il sogno di ogni singolo
adolescente inglese.
Avevo
diciott’anni. Mi ero concesso tre giorni di tregua dal lavoro
e dalla famiglia per svagarmi col mio gruppo di amici. Eravamo in otto.
Io, Stan (il mio migliore amico storico) e Alaska (la lesbica
più popolare di Doncaster) condividevamo una tenda. Ai tempi
non avevo ancora compreso bene la mia sessualità. O meglio,
non me n’ero mai preoccupato. Avevo avuto solo una ragazza,
Hannah, che avevo definito come “prima storia
seria”. Non credo di essere stato davvero innamorato di lei,
ma sicuramente c’era alchimia. Infatuazione, per meglio dire.
Ci
avevo fatto sesso. Avevo perso la mia verginità con lei.
Normale, dopo tanti mesi di relazione. Non mi sono mai curato della
differenza tra piacere fisico e piacere mentale. Con lei
l’orgasmo lo raggiungevo sempre, era inevitabile. Pura
estasi, estasi fisica. Ma sapevo che c’era qualcosa di
sbagliato, qualcosa che mancava, qualcosa di astratto ma fondamentale.
Senso
di appartenenza.
Lo
capii solo in seguito. A sedici, diciassette, diciotto
anni…il sesso è il nucleo dei tuoi pensieri.
Sesso. Sesso. Sesso. Nulla di più profondo, nulla di meno
carnale. Solo l’incontro di due insiemi di organi, cellule e
sangue. Nient’altro.
Ero
tranquillo, quel venerdì sera. Fumammo qualche canna in
compagnia, una Guinness scura a scaldarci la gola e lo stomaco, la
mente leggera. Ero tranquillo. Noncurante di quello che sarebbe
successo poi, noncurante di come le ore seguenti avrebbero marchiato la
mia vita irrimediabilmente, riempiendola di memorie. Come un tatuaggio.
Inchiostro nero sulla pelle, che ti incide, ti fa sanguinare. E cosa
succede quando non riesci più ad andare avanti? Cosa succede
quando i ricordi diventano troppi da sopportare per una persona sola?
Come fai a rimuoverli senza soffrire? Non puoi. Perché
l’inchiostro è inchiostro. Potrà
sbiadire, ma non si affievolirà mai del tutto.
Quella
sera, quella notte, ero inerme. Senza difese, senza
un’armatura, senza nulla a proteggermi. Per tutto il giorno
avevamo riso, ci eravamo svagati a ritmo di musica indie. Dopo le tre
di notte (o del mattino, stessa cosa), gli organizzatori decisero che
era il momento di uccidere quell’atmosfera festosa con della
malinconia. Canzoni mielose, romantiche, strappalacrime iniziarono a
risuonare nell’aria, costringendo molti dei partecipanti al
festival a ritirarsi nelle proprie tende per trovare qualche altro
svago.
“Qualcuno
mi tiri una martellata nei coglioni, per favore.”
esclamò Stan, ridendo e concedendosi una lunga sorsata di
sambuca greca da cinque sterline.
“Ma
se neanche li hai, i coglioni!” Alaska si accese
l’ennesima sigaretta, rendendo l’ambiente
all’interno della tenda soffocante.
I
miei due migliori amici iniziarono a litigare come due marmocchi
dell’asilo, mentre io mi innervosivo sempre di
più. Non ero mai stato propenso ad una compagnia esagerata.
Mi piaceva passare del tempo con le persone a me care, ma
c’erano momenti in cui mi sentivo oppresso, intrappolato.
Momenti in cui dovevo stare solo, pensare.
“Vado
a fare un giro.” annunciai. Nessuno dei due mi
prestò attenzione, così uscii da quella maledetta
tenda, respirando a pieni polmoni l’aria calda e umida di
agosto.
Camminai
tra i diversi ‘accampamenti’, li definii
così data l’esagerazione di alcuni, dirigendomi
verso il bosco. Mi fermai dopo una mezz’ora, quando trovai
una radura nascosta dalle fronde. Un luogo sereno, pacifico, dove poter
rilassarsi in completa solitudine.
Le
note di una delle mie canzoni preferite colmarono il silenzio della
notte, e mi ritrovai a cantare, steso a terra e col viso rivolto alle
stelle.
“I’ve
waited a hundred years, but I’d wait a million more for
you.”
Ho
aspettato centinaia di anni, ma ne aspetterei un altro milione per te.
“Nothing
prepared me for what the privilege of being yours would do.”
Nulla
mi aveva preparato a cosa il privilegio di essere tuo avrebbe fatto.
Il
rumore di un sospiro mi fece sobbalzare, costringendomi ad aprire e gli
occhi e a voltarmi. Imprecai a labbra strette.
Un
ragazzo minuto mi osservava, visibilmente imbarazzato, seduto su una
roccia a qualche metro di distanza da me.
“Cazzo,
non ti hanno insegnato a bussare?!” gli ringhiai contro.
Volevo
intimidirlo, fragile come appariva, e mi aspettavo che si scusasse
balbettando.
E
invece, contro ogni mia previsione, iniziò a ridere. Una
risata che non ti aspetteresti mai da una persona con un viso
così da infante. Una risata roca, vibrante, che
paralizzò l’intero universo per un decimo di
secondo.
Mi
ripresi quasi subito. “Cosa c’è di tanto
divertente?! Avrò perso cinquant’anni di vita come
minimo!” borbottai, cercando di apparire indifferente.
Il
volto del ragazzo tornò serio, ma due adorabili fossette
rimasero a fronteggiarmi in modo sfacciato sulle sue guance. Un impulso
quasi irrefrenabile di morderle mi infiammò, ma lo soppressi
con orrore, stupore e incredulità.
“Mi
sembra piuttosto difficile riuscire a trovare una porta da bussare in
mezzo al bosco, non credi?” disse, continuando a sorridere.
Lentamente, come se stesse avendo a che fare con un animale pericoloso,
si alzò e si diresse verso di me, sedendosi a pochi
centimetri di distanza. Si passò una mano tra i ricci
ribelli che gli ricadevano sulla fronte, sistemandosi il colletto della
polo che indossava.
Diario,
non dimenticherò mai il suo profumo. Mi colpì
come uno schiaffo. Profumo di muschio, delicato, con una nota pungente
che non riuscii ad identificare.
Dalla
tasca dei miei jeans attillati tirai fuori un pacchetto di sigarette,
le mie Lucky Strike rosse, accendendomene una, riuscendo
così ad illuminare meglio il suo volto.
“Vuoi?”
gliene porsi un’altra.
Lui
scosse la testa. “No, grazie. Non fumo.”
“Come
vuoi.” scrollai le spalle, aspirando.
Con
la coda dell’occhio lo vidi alzare gli occhi al cielo, poi
sorridere di nuovo. Una canzone in qualche modo a me familiare
iniziò a risuonare.
“Hey!
È una delle mie preferite!” esclamò il
ragazzo. Socchiuse le labbra, delle incredibili labbra a forma di
cuore, carnose e rosse, e seguì la melodia accompagnandola
con delle parole.
“Who
said lose your mind? Slowly it takes time, it takes time. You worry too
much, all those sunny days, you worry too much. Who cares,
anyways?”
Chi
ha detto che hai perso la testa? Lentamente ci vuole tempo, ci vuole
tempo. Ti preoccupi troppo, tutti quei giorni soleggiati, ti preoccupi
troppo. A chi interessa, comunque?
Mi
ritrovai a sorridere anch’io, senza un motivo valido. Mi
ristesi sul prato, voltando il viso nella sua direzione, incontrando
quegli occhi che mai avrei dimenticato. Occhi verdi. Verdi di smeraldo,
verdi di ciuffi d’erba ricoperti di rugiada, verdi di
speranza.
Mi
si mozzò il respiro in gola.
Per
la prima volta a me, Louis Tomlinson, mancò il respiro.
“Allora,
hai intenzione di dirmi il tuo nome o no?” chiesi, arrogante.
“Harry.”
rispose. “Mi chiamo Harry.”
Harry.
Assaporai il suono silenzioso di quelle sillabe sulla lingua. Lo
ripetei più volte nella mia testa, quasi urlandolo.
“D’accordo,
Harry. E qual buon vento ti ha condotto qui, in questa notte afosa e
stellata?” lo conoscevo da poco più di un quarto
d’ora, ma già adoravo il suo sguardo di
indignazione quando mi prendevo gioco di lui.
“Avevo
bisogno di pensare.” gli angoli della bocca si distesero in
un sorriso. “Allora, hai intenzione di dirmi il tuo nome o
no?” mi imitò.
Risi.
“Louis. Louis Tomlinson.”
“Chissà
perché mi aspettavo una risposta del genere.”
borbottò.
“In
che senso?”
“Mi
sembri l’esatto tipo di persona che quando si presenta deve
fissare bene il proprio nome nella mente degli altri.”
Ci
pensai su. “Mi piace farmi ricordare, credo.”
“Poi
scopriremo se sarà difficile dimenticarti.”
Parlammo
molto, quella notte. Scoprii che Harry, Styles era il suo cognome,
aveva diciassette anni e veniva da una cittadina chiamata Holmes
Chapel, nel Cheshire. Andava ancora al liceo, e dopo scuola lavorava in
un panificio. Viveva con la sorella, di nome Gemma, la madre e il
patrigno. Non menzionò il padre, ed io non mi azzardai a
fare domande. Di solito, quando qualcuno omette qualcosa di importante
dalla sua vita, è perché ha paura dei ricordi.
La
notte seguente tornai nella radura, e così fece anche lui. E
parlammo, ancora una volta.
E
così successe l’ultima sera del festival. Stesso
posto, stessa ora. Gli raccontai un po’ della mia vita
monotona. Nessuna voglia di andare al college, nessun talento
particolare. Una famiglia enorme e altrettanto disastrata, una madre
nervosa, cinque sorelle. Un lavoro part-time in un cinema.
Sentii
più e più volte quella strana attrazione che
provai sin dal primo momento in cui lo vidi, ma ogni volta la repressi,
la cancellai.
E
poi finì. Ci salutammo come due persone che hanno condiviso
parte di un tragitto, ma che poi si dividono ad un bivio. Ci salutammo
come due viaggiatori solitari, come due rondini che migrano in
primavera, come le ultime note di una canzone.
Non
lo toccai neanche una volta. Forse per vergogna, forse per paura di una
sua reazione, forse perché ero convinto che quella era
l’ultima pagina di un libro letto in fretta e furia.
Ma
il destino aveva qualcos’altro in serbo per me.
Gennaio 2014.
Caro
Diario,
Scusa
se questo mese sono stato assente. Dopo aver scritto qualche
pagina…è come se mi fossi bloccato. Ma ora sono
pronto a ricominciare. Almeno, così mi ha detto Fusa. Sai,
dicembre è un mese che odio. Il mio compleanno, poi il
Natale, Capodanno, feste ovunque, persone che non ti rivolgono la
parola da secoli che poi si rifanno vive. Noioso.
Almeno
mi sono goduto qualche giorno di pura tranquillità con
Harry. Ma ora è meglio che continui la mia storia, Diario,
prima che decida di gettarti nel camino acceso nel mio salotto.
Dopo
il Leeds Festival tornai a Doncaster, la mia città natale.
Ci rimasi qualche mese, e lavorai come mai avevo fatto in vita mia,
mettendo da parte dei risparmi per un qualsiasi progetto futuro.
Conobbi una ragazza, Eleanor, e diventammo una coppia dopo poco tempo.
Avevo bisogno di affetto, Diario. Avevo bisogno di sentire il tocco di
qualcuno su di me, avevo bisogno di sentire il sapore di altre labbra
sulle mie, avevo bisogno di sentirmi meno solo.
Eleanor
era fantastica, una ragazza d’oro. Attraente, comprensiva,
gentile. Molto ingenua, non un mostro di intelligenza, viziata. Ma le
volevo bene. Non quanto lei ne volesse a me, ma comunque provavo
qualcosa per lei. Un senso di protezione, quasi fraterno. Ci scopavo,
d’altronde era la mia ragazza, ma come sempre mancava
qualcosa. Nonostante questo, tra lavoro, litigate con la mia famiglia,
serate sprecate a bere coi miei amici, non ci facevo troppo caso. Mi
ero abituato, convinto che ci fosse semplicemente qualcosa di sbagliato
in me.
Il
tempo passava veloce e monotono.
Un
giorno di primavera, mi pare che fosse marzo 2012, Stan mi propose di
trasferirmi assieme a lui a Manchester. Accettai senza rifletterci
troppo, felice di poter cambiare finalmente aria e lasciarmi alle
spalle Doncaster una volta per tutte. Ne parlai con mia madre,
dicendole che avrei lavorato fino a guadagnare abbastanza da
permettermi la prima retta del college, e rifilandole altre stronzate.
Non so come, ma mi credette, forse accecata da una visione che si era
creata di un me studioso e di successo.
A
maggio il trasloco era già stato completato. Io e Stan, con
l’aiuto di Alaska, avevamo trovato un appartamento squallido
in periferia. Ma era pur sempre meglio di niente, e finalmente non
dovevo più dipendere dalla mia famiglia.
Eleanor,
come mi aspettavo, vinse una borsa di studio per
l’università. Il campus della facoltà
di legge dove si iscrisse era situato nel centro della
città, e frequentato dai figli di papà di tutta
Inghilterra. Era un ambiente fin troppo finto per me, ma finsi di
farmelo piacere per non deluderla.
Trovai
lavoro in un locale come barista. Non mi richiedeva alcun sforzo
mentale, gli orari erano piuttosto flessibili e la paga soddisfaceva i
miei desideri. Pensavo di non poter ottenere niente di meglio dalla
vita.
L’estate
passò senza recarmi particolari gioie o emozioni memorabili.
Lavoravo, scopavo, facevo festa. Quell’agosto non riuscii ad
andare al Leeds Festival, e ne rimasi amareggiato per qualche giorno.
Ma ero sicuro che qualcosa sarebbe cambiato.
E
avevo ragione.
Halloween
arrivò inaspettato, senza preavviso. Quando diedi
un’occhiata al calendario e mi resi conto che erano passati
già sei mesi dal mio trasferimento, quasi mi spaventai. Non
mi ero reso conto di quanto il tempo potesse trascorrere veloce.
Mi
svegliai con una chiamata da parte di Eleanor.
“Lou!
Ho una proposta…” esclamò, e
l’eccitazione nella sua voce era palpabile.
“’Giorno,
El.”
“Halloween.
Party. Nel campus. Non puoi mancare. Ci saranno tutti i miei amici,
vogliono conoscerti da tantissimo! Ho già in mente i nostri
costumi, dobbiamo abbinarli, sai, e…”
“Quando?”
“Stasera!
Passo da te tra mezz’ora per le prove!”
Mi
ritrovai ad imprecare contro la segreteria telefonica.
Mi
feci una doccia, cercando di sistemare il più possibile il
caos creato da me ed il mio coinquilino. Eleanor arrivò
puntuale come sempre, facendomi indossare un paio di pantaloni cachi,
un pullover grigio fumo ed un trench scuro. Mi riempì i
capelli di gel, dandogli una forma “disordinata ma
sexy!” come la definì. Mi spalmò tre
quintali di cipria sulla faccia, accentuò le mie occhiaie
con dell’ombretto e mi porse delle lenti a contatto color
rame.
“Da
cosa dovrei essere mascherato, se posso chiedertelo?”
sibilai, nervoso.
“Ma
non è ovvio?! Pelle diafana, occhi ambra, occhiaie, capelli
in disordine…Edward Cullen! Twilight! Vampiri!
Romance!” sorrise, baciandomi per poi ripulirsi la bocca
dalla cipria.
“Oh.
Giusto. Quindi tu saresti la ragazza-zombie…?”
chiesi, confuso.
“Bella.”
mi lanciò un’occhiataccia. “Ma meno
passiva.” rise.
Alzai
gli occhi al cielo, ma alla fine decisi di accontentarla e di fingermi
felice. Ci avviammo, lei fasciata da un grazioso (e minuscolo) vestito
blu elettrico, diretti verso il centro di Manchester. Arrivammo al
campus in venti minuti, e la festa era già nel vivo del suo
corso. Eleanor mi presentò una trentina di persone di cui
dimenticai il nome dopo la stretta di mano. Tutti si complimentarono
per il nostro “travestimento di coppia”, e la mia
ragazza ne fu più felice che mai. Dopo venti minuti decisi
che era il momento di concedermi una sigaretta, così mi
congedai dall’allegra compagnia per dirigermi verso la
terrazza dell’edificio.
L’aria
fresca e frizzante di quasi Novembre mi accolse con gioia. Mi accesi
una Lucky, aspirando a pieni polmoni la mia dannazione sotto forma di
nicotina e catrame.
La
porta di ferro si spalancò di nuovo, e ne uscirono tre
ragazzi, ridendo sguaiati.
“Torniamo
dentro! Porca puttana, si gela!” esclamò uno di
loro.
“Con
tutta la birra che ti sei scolato dovresti essere più che
accaldato, Nick.” replicò una voce roca, e in
qualche modo familiare. Una voce che mi fece venire la pelle
d’oca, una voce che vibrò nell’aria come
una corda d’arpa.
“Fanculo,
lasciamo questo stronzo per i cazzi suoi!” rispose quello che
presunsi fosse Nick, rientrando nell’afa del locale assieme
ad uno dei due amici e richiudendosi la porta alle spalle.
Finii
la mia sigaretta in fretta, e feci per accendermene un’altra.
“Hey,
poeta solitario!” l’unico ragazzo rimasto di
rivolse a me, dirigendosi nella mia direzione.
Finsi
di non accorgermi della sua presenza.
Si
fermò al mio fianco, appoggiando gli avambracci nudi alla
ringhiera della terrazza.
“Vuoi?”
gli porsi il pacchetto di Lucky.
“No,
grazie. Non fumo.”
Un
dejà vu, o forse un flashback. Una notte stellata
d’agosto. Una radura. Una canzone.
Lo
riconobbi.
“Harry?”,
“Louis?!” esclamammo nello stesso momento,
voltandoci l’uno verso l’altro.
Il
cambiamento avvenuto nel suo aspetto mi sconvolse, lasciandomi senza
parole. Il diciassettenne col viso da bambino che avevo conosciuto poco
più di un anno prima aveva lasciato il posto ad un
diciottenne ben piazzato. I ricci ribelli che solevano ricadergli sulla
fronte erano quasi del tutto scomparsi, sostituiti da
un’acconciatura volutamente spettinata. Il suo corpo goffo
doveva aver subito una sottospecie di mutazione, pensai.
L’Harry che mi ritrovai davanti era alto, altissimo, smilzo
ma allo stesso tempo con una muscolatura tonica e definita. Le spalle
larghe e la vita stretta erano ben visibili, poco coperte dal semplice
gilet nero che indossava, accompagnato da pantaloni attillati di pelle
e stivali.
Ma
alcune cose erano rimaste le stelle. Le fossette, per esempio.
Insolenti, sfacciate. O le labbra. Quelle dannate labbra, quelle labbra
perfette, labbra nate per essere torturate senza tregua. E gli occhi.
Quei maledetti occhi, creati per essere ammirati, occhi in cui affogare.
“Sei…diverso.”
commentai.
“Potrei
dire lo stesso di te, Louis Tomlinson.” sorrise, passandosi
una delle sue mani affusolate tra i capelli. Repressi
l’istinto di farlo a mia volta.
“Notevole.
Ti ricordi persino il mio cognome.”
“Avresti
dovuto prevederlo.” si avvicinò di qualche
centimetro. “Non sei una persona facile da
dimenticare.” disse, usando le stesse parole che ci
rivolgemmo mesi e mesi fa.
Sentii
un calore infiammarmi le vene, e seppi che non era causato
dall’alcool. Del sudore freddo mi ricoprì la
schiena, il mio respiro si fece più irregolare.
“Posso
farti una domanda?” chiese.
Annuii,
non mi fidavo della mia voce. Non ancora.
“Da
cosa dovresti essere travestito?” fece scorrere il suo
sguardo su di me, sorridendo.
Alzai
gli occhi al cielo. “Da un certo Edwin o Edmumd…un
vampiro sexy, credo.”
Harry
rise, facendo fremere l’aria tra noi.
“Interessante.”
“E
tu?”
“Non
si vede?” fece una giravolta su se stesso, lentamente,
torturandomi. Mi nutrii di ogni parte visibile del suo corpo, e mi
accorsi di desiderarlo. Oh, come lo desideravo. Forse avevo bevuto
troppo, forse era l’atmosfera festaiola…cercai di
giustificarmi con me stesso in tutti i modi. “Sono il nuovo
Mick Jagger!” esclamò.
Aspirai
l’ultimo tiro di sigaretta, spegnendola contro il metallo
della ringhiera. Feci uscire dalle mie labbra socchiuse il fumo
restante, distogliendo i miei occhi dalla sua pelle nuda.
Lui
fece per dire qualcosa, quando la porta si spalancò
nuovamente.
“Lou!”
la voce di Eleanor interruppe i miei pensieri. Ci raggiunse,
abbracciandomi e schioccandomi un bacio sulla guancia. Harry
inarcò un sopracciglio. Lei si rivolse a lui con un sorriso
dolce e sospettoso allo stesso tempo.
“El,
lui è Harry. Un mio…amico.” presi in
mano la situazione.
Le
sue labbra si incurvarono all’insù.
“Harry,
lei è Eleanor, la mia ragazza.” mi sentii un
bugiardo nel dirlo, anche se non riuscii a spiegarmi il motivo. Si
strinsero la mano, Harry con un sorriso indecifrabile sul volto, lei
con un’aria confusa.
“Torni
dentro?” mi chiese.
“Un’ultima
sigaretta e arrivo.” risposi. Eleanor si voltò,
lanciando un’ultima occhiata a Harry, e raggiungendo i suoi
amici che la stavano aspettando.
“Carina
la tua…ragazza.” Harry ruppe il silenzio,
enfatizzando l’ultima parola in modo divertito. Distolsi il
mio sguardo dal suo, non riuscivo a sostenerlo.
“Già.”
“Forse
è meglio che vada, mi sto facendo desiderare
troppo.”
“Okay.”
Sobbalzai
e rabbrividii quando sentii il suo respiro caldo a pochi millimetri dal
mio orecchio.
“Ho
come l’impressione che questa non sarà
l’ultima volta che ci vedremo.”
sussurrò, per poi andarsene, lasciandomi solo ed in preda al
caos.
Febbraio
2014.
Qualcosa
sta cambiando, Diario. Me lo sento.
Non
posso più fingere.
Oggi
è il suo compleanno, Diario. E sono chiuso in camera mia,
circondato da vestiti sporchi del mio stesso vomito. Riesco a malapena
a scrivere.
Non
so se resisterò a lungo. Prima o poi le maschere iniziano a
creparsi, a mostrare segni di debolezza, a vacillare.
E
poi crollano.
Marzo
2014.
Siamo
andati a Leeds per qualche settimana, Diario. Siamo tornati in quella
radura dove tutto iniziò. È stato bello.
Harry
sa, Diario, sa che sto per morire. Ora sa tutto. Ho dovuto dirglielo,
ho dovuto spiegarli, ho dovuto condividere la mia sofferenza e unirla
alla sua. Non era più possibile andare avanti ricoprendolo
di menzogne, di bugie, di finti sorrisi. E mi sento un egoista, Diario,
perché non lo merito. Non lo merito ora come non lo meritavo
anni fa, non lo merito ora come non lo meriterò mai.
Quella
sera, Diario, quella sera di Halloween bevvi troppo. Bevvi, cercando di
cancellare il senso di inadeguatezza nato dentro di me, soffocando
l’incredulità, lo stupore, il mio sentirmi
così anormale, così sbagliato. Ed ero felice da
ubriaco, sai? Ero arrivato al punto in cui non riuscivo a distinguere
cosa fosse reale e cosa non lo fosse, e quando mi ritrovai steso nel
letto di uno sconosciuto non potei fare null’altro che ridere
per poi addormentarmi, o collassare.
Mi
risvegliai con la testa pesante, la bocca impastata e un paio di occhi
verdi a fissarmi.
Nascosi
il mio viso nel cuscino, che profumava di muschio, imponendo a me
stesso di stare sognando. Ma, quando le mie palpebre si sollevarono
un’altra volta, Harry era sempre lì a fissarmi.
“Hey,
Bella Addormentata!” esclamò.
“Cosa
ci fai qui?!” chiesi, tastandomi le tasche dei pantaloni fino
a ritrovare il mio pacchetto di Lucky rosse. Lo aprii, accorgendomi di
essere rimasto a secco.
“Ci
mancava solo questa…” borbottai.
“Forse
dovrei essere io a chiederti cosa ci fai qui.” sorrise.
“Dato che questa, fino a prova contraria, è la mia
stanza.”
Mi
misi a sedere, osservando l’ambiente in cui mi trovavo.
Effettivamente,
aveva tutte le caratteristiche di una stanza da dormitorio
universitario. Due letti, due piccoli armadi, una scrivania, un bagno.
La parete adiacente al letto su cui ero steso, che immaginai fosse
quello di Harry, era tappezzata da fotografie, articoli di giornale,
quadri. Quella opposta era per lo più ornata da estratti di
Playboy e calendari vari, foglietti stropicciati con numeri di telefono
scritti sopra, e, notai con un sorriso, un sacchetto per i
preservativi.
“Il
tuo compagno di stanza dev’essere un ninfomane.”
commentai.
Harry
si alzò, ignorandomi, iniziando a frugare tra i cassetti di
uno dei due comodini. I miei occhi si posarono sulla sua schiena,
fasciata da una maglia attillata, e sulle gambe lunghe, avvolte in dei
comodi pantaloni di tuta grigi.
“Ah!”
si voltò con espressione trionfante e due sigarette nella
mano destra. Si riaccomodò ai piedi del letto, a pochi
centimetri dalle mie caviglie.
Me
ne porse una, accendendosi l’altra.
“Mi
avevi detto che non fumavi.” gli feci notare.
Rise,
facendo vibrare il materasso. “Mentivo. Speravo di accenderti
una lucina in testa.”
Aspirai
piano. “Quindi sapevi che ero io.”
Si
voltò nella mia direzione, passandosi la punta della lingua
sul labbro superiore.
“Sì,
sapevo che eri a quella festa e sapevo che non avresti resistito troppo
a lungo senza concederti di fumare.” fece una pausa,
posizionando la sua sigaretta tra le labbra carnose.
“Insomma, sapevo dove trovarti.”
Mi
osservava con uno sguardo malizioso che non gli riconobbi. Non era
l’Harry che avevo conosciuto a Leeds, ma un suo surrogato che
l’aveva sostituito con prepotenza. Ero confuso.
Perché nella mia vita non avevo mai desiderato altro con
più insistenza che le labbra di Harry Styles in quel
momento. Eppure…eppure questo desiderio mi spaventava.
Perché non era normale, perché non doveva essere
normale.
La
realtà si ripresentò ai miei occhi, chiara e
nitida.
“Devo
andare.” diedi un’occhiata all’orologio
appeso al muro. “Il mio turno inizia tra tre ore.”
Harry
mi guardò, sorpreso. “Adesso? Conciato in quel
modo?!” sorrise.
Mi
alzai, dirigendomi verso il bagno. Il mio riflesso nello specchio quasi
mi spaventò. L’effetto “disordinato ma
sexy” donatomi dal gel era scomparso, lasciando posto solo al
disordinato. La mia pelle era grigia, con qualche residuo di cipria e
di ombretto scuro, anche se le occhiaie color pece erano reali. E
l’odore che emanavo non era dei migliori.
“Puoi
farti una doccia qui, se vuoi. Non fare complimenti.” mi
disse Harry, appoggiato allo stipite della porta.
“D’accordo.”
risposi. Odiavo dover essere in debito con qualcuno.
“Grazie.” aggiunsi, per non sembrare scortese.
Effettivamente,
la doccia ebbe un effetto benefico. Mi rilassò,
scacciò via gli ultimi postumi della sbornia e mi
aiutò a liberare la mente dalle preoccupazioni. Quando
uscii, mi accorsi che Harry aveva lasciato sul lavandino un paio di
boxer neri, dei jeans scuri ed un maglione bordeaux, mentre i miei
vestiti sporchi erano spariti. Indossai tutto in fretta, ripiegando gli
asciugamani e rimettendoli a posto.
Lui
mi aspettava, seduto a gambe incrociate sul letto in cui avevo dormito,
intento a leggere.
“Meglio?”
chiese. Annuii.
“Ora
puoi scappare come una prostituta minorenne dalla camera
d’albergo di un attore famoso.” aggiunse.
Inarcai
un sopracciglio, indignato da quel paragone.
“Peccato
che io non sia la tua prostituta, Harry.” alzai gli occhi al
cielo.
“Già…un
vero peccato!” rise, scuotendo la testa. Mi persi
nell’osservare la sua mascella quadrata e ben definita.
Qualcuno
bussò alla porta, salvandomi da quella situazione
complicata.
“È
aperta!” gridò Harry.
Un
ragazzo alto e magrissimo entrò, scrutandomi con un paio di
occhi nocciola ed un’espressione insolente.
“Hey,
Nick! Sei vivo.” Harry si alzò immediatamente,
raggiungendo l’amico e afferrando la tazza di
caffè che l’altro gli porgeva.
Decisi
che era il momento di andarmene. “Grazie per i vestiti e
per…l’ospitalità, Harry.”
Aggirai
il ragazzo di nome Nick, che già mi infastidiva nonostante
lo avessi appena conosciuto, e rallentai mentre varcavo la soglia,
sperando in un’altra parola da parte di Harry.
Che
non arrivò.
Nick
chiuse la porta violentemente dietro di sé, e lo
sentì ridere. Mi trattenni dal bussare nuovamente, ed
iniziai a camminare verso l’ala femminile del campus. Quando
arrivai, però, persi tutta la voglia (già molto
flebile) che avevo di vedere Eleanor.
Tornai
a casa amareggiato, con ancora qualche postumo da sbornia. Mi sedetti
sul divano, prendendomi la testa tra le mani.
Era
bastato rivedere Harry Styles, anche solo trascorrere qualche minuto in
sua compagnia, per risvegliare il desiderio che avevo di lui e che
tanto avevo represso quando ci incontrammo la prima volta.
“Che
cazzo stai combinando, Tomlinson?” sussurrai, per poi cadere
in un sonno tormentato da occhi color smeraldo.
Aprile
2014.
Ci
rivedemmo, Diario. Più volte. Sul tetto del campus, che
divenne il nostro rifugio, il nostro luogo d’incontro
nascosto agli altri. I primi pomeriggi pensai che fosse tutto nato per
caso, che fosse un gioco nato tra noi due, un gioco innocente. Ma non
mi ero reso conto di quanto fosse pericoloso.
Perché
le ore trascorse con Harry mi lasciavano sempre spiazzato, inerme e
sempre più confuso. In bilico tra ciò che volevo
con tutto me stesso e ciò che mi rifiutavo di vedere, in
bilico tra giusto e sbagliato, tra vero e falso, tra normale e non.
Normale.
Esiste davvero qualcuno normale? Forse siamo tutti strani, tutti pazzi.
Ci raccontiamo delle favole, fingiamo di credere a quelle favole, e poi
quando è troppo tardi realizziamo che erano un mucchio di
stronzate.
E
così accadde a me, quando capii di aver perso la testa per
Harry Styles.
Smisi
di essere normale. Smisi di essere razionale, smisi di essere schiavo
del mio autocontrollo.
Accadde
la sera del 23 dicembre.
Eravamo
sul tetto, ovviamente. Eleanor sapeva che ero al lavoro, come tutte le
volte d’altronde, mentre Stan credeva fossi con lei. E invece
mi trovavo all’ultimo piano di un edificio in compagnia della
persona più criptica e affascinante dell’intero
universo.
“Sai
cos’è buffo, Lou?” mi disse Harry. Il
modo in cui pronunciava il nomignolo che mi aveva affibbiato mi diede i
brividi.
“Cosa?”
“Diventiamo
ciò che odiamo.”
Non
seppi per quale motivo, ma in quel momento quasi piansi.
Perché quella frase era così vera,
così dannatamente vera, che mi fece male. Mi fece male,
rigettandomi in un mare di ricordi che non volevo condividere. E
invece, per ironia della sorte, decisi di farlo.
“Credo
di odiarmi, Harry.” mormorai, voltandomi nella sua direzione.
Era steso sul pavimento freddo, con gli occhi chiusi, e respirava
lentamente. Lo ammirai come un professore d’arte ammira
un’opera di Leonardo. Era troppo, troppo da sopportare.
“Perché,
Louis?”
Chiusi
gli occhi a mia volta, oppresso dall’importanza di
ciò che stavo per confessare, più a me stesso che
a lui.
“Per
l’effetto che mi fai. Perché non posso impedire al
mio corpo di sentire ciò che sente quando ti vedo,
perché non riesco a resistere neanche un giorno senza udire
la tua voce, perché non è sano volere qualcuno
quanto io voglio te, cazzo. E vorrei essere normale, vorrei poter
essere normale, ma non ci riesco.” feci una pausa.
“Non ci riesco.”
Improvvisamente,
sentii le sue mani calde appoggiarsi ai lati del mio viso. Era la prima
volta che ci toccavamo. Eravamo entrambi consapevoli
dell’attrazione che ci univa, ma nessuno dei due aveva mai
preso l’iniziativa. Era tutto troppo complicato.
Eppure,
Harry lo fece.
“Apri
gli occhi per me, Lou.” sussurrò, il suo respiro
caldo e dolce a solleticarmi il viso.
Obbedii,
anche se non ero pronto a fronteggiare quello che mi aspettava.
“Non…non
pensare mai più cose del genere. Tu sei normale, Louis. Sei
forse l’unica persona normale che io conosca!” i
suoi occhi erano spalancati e brillavano, giuro che brillavano.
Sembrava spiritato, sembrava un prete intento a recitare un rosario,
uno scultore che esaltava la sua miglior statua. “Ma non puoi
continuare a mentirmi, a mentire a te stesso. Non puoi impedirti di
provare ciò che provi. Semplicemente non puoi.”
Provai
ad interromperlo, ma lui mi precedette.
“Perché
è quello che sento anch’io, Louis.”
Per
la prima volta, l’apparente armatura inscalfibile che Harry
Styles si era costruito addosso vacillò. Non era
più il ragazzo arrogante che avevo imparato a conoscere, ma
era tornato il diciassettenne spensierato di Leeds.
“Ma…forse
hai ragione tu. Forse è tutto sbagliato.” si
alzò, staccando le mani grandi dal mio viso. “Devo
andare.”
Non
riuscii a fermarlo. Per quanto volessi, non ci riuscii. Lo guardai
andare via, desiderando ancora una volta di poter essere nella sua
testa.
Il
giorno dopo, il giorno del mio compleanno, scoprii che lui e Nick erano
diventati una coppia. Non riuscii a spiegarmelo, e neanche ci provai.
Diventiamo
quello che odiamo.
Mi
ripetei quelle quattro parole nella testa ininterrottamente, cercando
una soluzione, un segno, un qualcosa che potesse aiutarmi a capire.
Diventiamo
quello che odiamo.
Cosa
sei diventato, Harry?
Gennaio
fu un mese duro, per me. Il 2013 era iniziato nel peggiore dei modi.
L’assenza di Harry si faceva sentire, e le mie condizioni
fisiche sembravano peggiorare di giorno in giorno. Inizialmente diedi
la colpa ad una leggera influenza, anche Stan l’aveva
contratta, ma i sintomi si prolungarono, e sembravano non avere
intenzione di fermarsi.
Mia
madre ed Eleanor, con la quale i rapporti sembravano essere compromessi
ma che comunque ancora teneva a me, mi convinsero a visitare uno
specialista.
E
scoprii di avere il cancro.
Le
aspettative di sopravvivenza erano piuttosto buone, così
disse il mio oncologo. Ma un cancro era pur sempre un cancro. Realizzai
che, in qualunque maniera fosse finita, la mia vita non sarebbe stata
più la stessa.
Una
mattina di metà gennaio ricevetti una telefonata.
“Louis.”
“Harry?!”
rimasi per qualche secondo senza parole.
“Possiamo
vederci? Ho bisogno di parlarti. Per favore.”
“D’accordo,
ma…”
“Dammi
un’ora e sono da te.”
Mi
chiesi come faceva a sapere il mio indirizzo. Poi decisi di alzarmi dal
letto, farmi una doccia, sistemare il mio appartamento sudicio. Stan
era fuori, per fortuna, così avremmo potuto parlare
tranquilli. Era passato più di un mese dal suo ultimatum sul
tetto, e non mi sentivo ancora forte abbastanza da rivederlo. Ma, alla
fine dei conti, volevo concedergli un’altra
possibilità.
Arrivò
in anticipo, ed entrò dalla porta principale praticamente
correndo.
“Louis.”
i suoi lineamenti perfetti si distesero quando mi vide.
“Quanto
tempo, Harry.” risposi. Ero arrabbiato, furioso. I sentimenti
che provavo per lui non erano svaniti, ma allo stesso tempo capii che
non dovevo permettergli di sconvolgere la mia vita ancora una volta.
Si
scompose per qualche secondo di fronte alla mia freddezza, ma si
riprese quasi subito.
“Mi
odi, lo so. Sono stato un coglione, ma non sapevo cosa fare, Louis.
Quando ti ho detto che tutto era sbagliato…mentivo. Sono io
ad essere sbagliato. Sono io a non essere abbastanza. Quando ci
incontrammo a Leeds…non ti parlai di mio padre. Ma ti devo
una spiegazione, te la devo. E ora te la darò.”
Si
sedette sul mio divano, prendendosi la testa fra le mani come avevo
fatto io quella sera di dicembre. Era così vulnerabile,
così apparentemente innocente, che volevo solo stringerlo
tra le braccia. Ma mi trattenni, come sempre.
“Ho
sempre saputo di essere gay, Louis. Sono nato così, e non
posso cambiare ciò che sono. Ho sempre provato attrazione
per gli uomini, ma non me ne sono mai vergognato, mai, neanche una
volta. Fino a quindici anni riuscii a nasconderlo alla mia famiglia, ma
poi la verità venne fuori. Mia sorella mi vide con un
ragazzo. Non ti racconterò le circostanze in cui tutto
è avvenuto, ma ti basti sapere che dopo poco tutto il
quartiere era a conoscenza della mia…situazione.
Mio
padre è sempre stato un conservatore. E forse dire
conservatore è minimizzare. Aveva una sua visione del mondo,
di ciò che era giusto e sbagliato, e niente avrebbe potuto
distoglierlo dalle sue opinioni. Quando scoprì che ero
gay…non fu violento. Non mi picchiò, non
provò a farmi del male fisico. Semplicemente, per lui smisi
di esistere. Non ero più nulla. Non ero suo figlio, il
figlio che prima adorava, non ero neanche più una persona.
Ero solo una macchia d’inchiostro sulla nostra famiglia, la
vergogna.” si fermò, rivolgendomi un sorriso
stanco. Mi sedetti ai suoi piedi, prendendogli le mani e catturandole
tra le mie. Non avevo intenzione di lasciarle andare presto. Questa
volta, nonostante quasi lo odiassi, non lo avrei lasciato scappare.
“Mi
trasferii da una zia che viveva nella mia cittadina, era sempre meglio
che rimanere all’inferno. I rapporti con mia madre e mia
sorella iniziarono a diventare nervosi, soprattutto perché
dopo qualche mese mio padre si ammalò. Ed io mi rifiutai di
vederlo, Lou. Persino nei suoi ultimi giorni di vita…non gli
concessi una seconda possibilità. E lo lasciai morire senza
il mio perdono, lo lasciai morire senza un abbraccio o un sorriso.
L’ho lasciato morire, e ora non saprò mai se per
lui contavo ancora qualcosa.”
Strinsi
le sue mani come un naufrago si aggrappa alla corda che lo salva.
“È
di questo che ho paura. È per questo, Louis, che il nostro
rapporto è sbagliato. Perché tu
sei…tutto ciò che c’è di
bello e puro nel mondo. Ed io mi sento così legato a te che
quasi non mi sembra possibile, e non voglio perderti. Perché
quando tieni troppo a qualcosa finisci per perderla, Louis,
perché non sono ancora forte abbastanza da sopportare un
altro addio. Perché diventiamo quello che odiamo. Ed io sono
diventato un codardo, e…”
Non
riuscì mai a finire quella frase, e non seppi mai cosa volle
aggiungere. Perché lo baciai. Contro ogni logica, ogni senso
di razionalità, appoggiai le mie labbra sottili sulle sue,
carnose e scure. E sentii che non c’era nulla di
più giusto, di più perfetto. Come due tessere di
un puzzle che finalmente si uniscono, come un viaggiatore nel deserto
che finalmente scopre un’oasi, come una madre che allatta il
proprio figlio per la prima volta.
Mi
sentii a casa. Gli afferrai il viso tra le mani, le passai tra i suoi
capelli, lo strinsi di più a me. La sua bocca si muoveva a
sincrono con la mia, e non c’era nulla di sbagliato in tutto
ciò.
Provai
qualcosa. Finalmente provai quel senso di appartenenza che tanto mi
mancava.
Le
sue labbra erano morbide, piene, meravigliose. Harry, con dita
tremanti, mi accarezzò il collo e le clavicole, dandomi i
brividi. Persi il controllo, totalmente. Lo persi.
Gli
sfilai la maglietta, rivelando quel corpo che tanto avevo desiderato.
Era perfetto. Gli baciai il petto, lo stomaco, le braccia, i lobi delle
orecchie, e ancora il petto. Volevo farlo sentire al sicuro, volevo
dargli quell’amore che gli era stato negato da suo padre.
“Louis…”
sussurrò sulla mia pelle.
Mi
fermai, incontrando il suo sguardo. Aveva le lacrime agli occhi.
“Grazie
per avermi dato un’altra possibilità.”
Sorrisi,
e sorrise anche lui.
In
quegli attimi che tutt’oggi rivivo nei miei sogni, dimenticai
per un momento il cancro. Perché quello era il mio piccolo
paradiso personale, e lì il dolore non poteva raggiungermi.
Almeno
così credevo.
Maggio
2014.
Mancano
sedici settimane, Diario.
Giugno
2014.
I
mesi che seguirono furono i più felici della mia vita.
Arrivai
a conoscere Harry più di quanto conoscessi me stesso, e
viceversa. Tutto sembrava avere un senso, ora. Tutto combaciava, tutto
era al proprio posto.
Lasciai
Eleanor, dissi tutto a Stan e a mia madre. Quest’ultima non
la prese bene, ma non m’importava. Non avrei permesso alla
mia famiglia di rovinarmi come era successo ad Harry. Non potevo
permettermelo.
La
primavera arrivò, e il colore dei fiori di ciliegio che
crescevano nella campagna inglese mi ricordava quello delle sue labbra.
Oh, quelle labbra, Diario. Non riuscivo a smettere di baciarle,
torturarle, osservarle. Non che a Harry dispiacesse.
Una
sera di maggio litigammo. Non ricordo neppure il motivo, ma fu pesante,
molto pesante.
“Non
scappare, Harry. Non scappare come hai sempre fatto.” gli
dissi. Sì, gli dissi proprio così. Volevo fargli
male. Volevo che si pentisse.
“Sono
stanco di dovere dare spiegazioni, cazzo!” mi rispose.
Ero
furioso, troppo furioso. Non riuscivo più a controllare le
mie parole, Diario.
“Mi
ringraziasti per quella seconda possibilità, Harry.
Perché non eri pronto a perdermi come avevi perso tuo padre.
Ma devi sapere…devi sapere che io non ho più
tempo per le persone che scappano. Non ho più tempo
perché c’è qualcosa che non va in me,
Harry.”
Lui
si fermò sulla soglia della porta. Si voltò.
“Cosa…cosa
intendi dire?” tratteneva il respiro.
“Sono
malato, Harry. Ho un linfoma. E tra poco dovrò intraprendere
una terapia, ma io non lo so…non ho più certezze.
Potrei sopravvivere come potrei morire. E tu non puoi scappare adesso,
Harry. Non puoi. Perché hai già lasciato morire
qualcuno senza di te, e non puoi…”
Iniziai
a piangere. Iniziai a piangere perché in tutti quegli anni
non avevo mai saputo cosa significasse temere di perdere qualcuno, e
ora la realtà si rivelava ai miei occhi. Caddi in ginocchio,
e Harry fece lo stesso. Ci raggiungemmo e ci abbracciammo, stesi sul
pavimento i casa mia. Le mie lacrime mischiate alle sue, salate.
“Tu
non morirai.” sussurrò Harry, forse cercando di
autoconvincersi. “Non adesso che ti ho trovato. Non adesso
che ho capito che ti amo.”
Il
mio cuore fece i salti mortali, si bloccò,
ripartì, accelerò.
Harry
mi amava. E anche io lo amavo. Era così semplice.
“Ti
amo. Ti amo. Ti amo.” continuava a sussurrare mentre mi
accarezzava il viso.
“Ti
voglio mio, Louis. Adesso. Qui e ora.” disse. Rabbrividii.
Mi
costrinse a guardarlo negli occhi. Quegli occhi verdi che ero sicuro
sarebbero stati capaci di far resuscitare un corpo morto, di far
interrompere una guerra, di guarire una ferita.
“Ti
fidi di me?”
Sapevo
cosa stava per succedere, eppure…eppure non avevo paura. Mi
ero sempre vergognato del mio corpo, ma Harry riusciva a farmi sentire
speciale, riusciva a farmi sentire la persona migliore del mondo. E mi
fidavo, mi fidavo più di lui che di me stesso.
“Sì.”
Harry
rimase immobile per un secondo, forse non mi credeva. Così
decisi di prendere l’iniziativa. Gli sbottonai la camicia, e
tremavo, e gliela tolsi dolcemente. Gli sbottonai i pantaloni,
sfiorando l’elastico dei boxer.
Poi
lui si risvegliò, improvvisamente. Con foga mi
sfilò i vestiti, lanciandoli lontano da noi. Respiravamo
affannosamente l’uno nelle labbra dell’altro,
sopraffatti dall’importanza di quel momento che stavamo per
condividere.
Quando
la sua mano sfiorò con foga la mia erezione, ebbi un
sussulto.
“Sei
sicuro di fidarti di me?” chiese un’ultima volta.
Annuii,
mordendomi il labbro. Lui sorrise.
Con
una lentezza esasperante rimanemmo nudi, l’uno di fronte
all’altro. Ci osservavamo con gli occhi pieni di stupore.
“Sei
bellissimo, lo sai?” mormorai, asciugandogli una lacrima che
faceva capolino dalle sue ciglia.
Harry
non disse niente, ma continuò a guardarmi negli occhi. Si
posizionò meglio tra le mie gambe, avvicinando il mio petto
al suo. Mi accarezzò la schiena con le dita calde e scese,
scese, scese…fino a che non arrivò
laggiù. Appoggiai la testa nell’incavo della sua
gola. Infilò un dito, e poi due. Urlai contro la sua pelle,
aggrappandomi alle sue spalle.
“Non
fermarti…” mi morsi l’interno della
guancia per soffocare il dolore.
“Non
avevo intenzione di fermarmi, Lou.” disse con quella voce
roca che mi fece impazzire, mordendomi il lobo.
Mi
torturò più volte, fino a che la sofferenza non
si trasformò in piacere. E poi, quando meno me
l’aspettavo, mi penetrò tutto d’un
colpo. Mi strinsi a lui in un abbraccio che mi parve infinito. Harry
iniziò a muoversi più veloce, sempre
più veloce…soffocando i suoi gemiti nella mia
carne. Sussultai più volte, mordendogli il collo e
graffiandogli la schiena.
E
poi raggiungemmo il culmine, assieme.
“Ti
amo!” urlai nel pieno dell’estasi.
Non
mi ero mai sentito così vicino a qualcuno, mai. Piansi di
nuovo, ma questa volta di gioia. Perché era così
che doveva essere. Perché la felicità aveva preso
il nome di Harry, e l’amore mi riempiva il cuore e sembrava
volerlo farlo scoppiare. Piansi perché avevo qualcuno per
cui lottare, e non mi sarei arreso, non ora che avevo provato cosa
significava davvero appartenere a qualcuno. Sarei stato disposto a
morire per Harry, ma era ancora troppo presto.
Ci
addormentammo abbracciati, stretti. Non avevamo bisogno di parole. I
nostri respiri che su univano colmavano il silenzio.
Luglio
2014.
Ecco,
Diario. Ecco come ho trovato l’amore.
Non
voglio raccontarti altro. Primo, perché non voglio sprecare
neanche un secondo di quello che mi rimane. Secondo, perché
sono geloso dei miei ricordi. Non voglio condividerli con
nessun’altro, se non con me stesso.
Poco
più di due mesi a…a cosa? Alla fine? Non lo so.
Lo scoprirò presto.
Agosto
2014.
Ultime
sei settimane.
Ho
paura. Ma devo essere forte. Oggi fa caldissimo fuori.
La
mia stanza d’ospedale è troppo bianca.
Che
imbarazzo, Diario, non sono nemmeno io a scrivere.
Un’infermiera ha deciso di darmi una mano e farlo al posto
mio, dato che non riesco nemmeno a sollevare una mano. Non senza
tremare violentemente.
Un
raggio di sole. È bello, il sole. Caldo, brillante,
rassicurante.
Ho
freddo.
Sei
settimane. Tic tac, tic tac. Il tempo corre, Diario.
Settembre
2014.
Oggi
è iniziata la quarantesima settimana.
Harry
sta dormendo con la testa appoggiata al mio stomaco. Dorme, e sembra un
angelo.
Vorrei
riuscire ad accarezzargli i capelli, ma i tubi che imprigionano le mie
braccia mi impediscono di farlo. Il bip fastidioso della macchina che
mi tiene in vita al mio fianco è l’unico rumore
presente nella stanza.
Mi
aveva promesso che non sarebbe scappato più.
E
non l’ha fatto.
Sono
felice. Nonostante tutto, sono felice.
Fuori
è buio.
24
Dicembre 2014.
Caro
Diario,
Mi
chiamo Harry. Forse avrai sentito parlare di me, in questi mesi.
È strano…Lou non mi aveva mai detto di te..
L’ho scoperto per caso, quando…quando hanno dovuto
dividere i suoi beni tra i parenti. E chissà come,
chissà perché, Louis voleva che tu diventassi
mio, Diario.
Non
mi piace scrivere. Non mi piace esprimere le mie emozioni.
Oggi
è il suo compleanno. Fuori nevica. È tutto
bianco, tutto puro. Come lui.
Non…non
voglio dilungarmi troppo, Diario. Non mi appartieni, e mettere nero su
bianco queste parole mi sta facendo più male di quanto
pensassi.
Louis
non diceva mai bugie, sai? Ha mentito solo una volta, da quando
l’ho conosciuto.
Ha
mentito quando mi disse “Harry…non esiste nessuno
al mondo che ti ami più di quanto ti amo io.
Nessuno.”
Ma
si sbagliava.
Perché
quel nessuno sono io.
Auguri,
amore mio.
Tuo,
Harry.
|