Salve a tutti! Qui di seguito trovate la mia prima fanficton originale.
Dopo molti giorni d'assensa passati tra l'esame di maturità
e le vacanze ho deciso di sottoporvi questa piccola storia, senza
nessuna pretesa.
Voglio chiedervi soltanto di essere clementi, perchè
è la prima volta che scrivo una cosa del genere.
Spero che vi piaccia e che usiate le recensioni per farmelo sapere o
per criticarmi e aiutarmi a migliorare.
Un bacio grande dalla vostra affezionata
Stellalontana
Capitolo
Uno
L’alba
dorata illuminò il bosco tingendo di giallo le foglie dei
faggi. Will sospirò. L’aria andava riscaldandosi e
una brezza ancora fresca contribuì ad asciugare le ultime
chiazze bagnate sui suoi vestiti. Non aveva dormito quella notte. Non
ne aveva bisogno. Eppure il suo corpo, teso come un elastico, reclamava
il riposo che lui gli negava, ormai da giorni, ancor più
della sua mente. Si alzò, spazzolandosi i calzoni pieni di
foglie. Si avvicinò allo specchio d’acqua, dove la
sera prima aveva rimediato la cena. Guardò la sua immagine.
La ferita sul collo andava guarendo. Ben presto avrebbe avuto una lunga
cicatrice bianca in quel punto. Gli era andata bene, la freccia lo
aveva preso di striscio, ma per quanto ancora? Era pur sempre un
fuggitivo. La guerra gli aveva indurito il carattere e zittito la
coscienza. Quando era partito con l’esercito, aveva quindici
anni e sarebbe dovuto rimanere sotto le armi per almeno altri venti, se
non avesse disertato dopo quattro, per diventare un fuorilegge.
Sorrise. Tutti i suoi sogni si erano infranti quando aveva sentito per
la prima volta la spada urtare contro il petto di un uomo, la
resistenza del costato che si frantumava e gli schizzi del sangue che
gli avevano appannato la vista, con la loro disgustosa
viscosità. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter riportare
in vita tutti gli uomini che aveva ucciso durante quei quattro anni
d’inferno. Ma la guerra non era ancora finita. Con un sospiro
lavò la ferita, che gli bruciava ancora a tal punto da
strappargli gemiti sordi e da fargli pulsare il sangue nelle tempie.
Riempì le borracce e strigliò l’asino.
Il suo vecchio amico era stanco per il lungo cammino cui lo aveva
costretto il giorno prima, ma dovevano continuare a spostarsi, cercando
di portarsi sempre più vicini alla costa.
Controllò la bisaccia legata alla meno peggio sul suo dorso.
Conteneva ancora un po’ del cibo che gli aveva regalato un
mugnaio, dei pezzi di carta ingialliti, piume e inchiostro per
scrivere. Si accertò che non fosse evaporato e che la carta
fosse ancora asciutta abbastanza per scriverci sopra.
Spuntò i giorni sul suo taccuino. Ne erano passati ben cento
da quando era in fuga. Ormai si saranno scordati di me, si disse
alzando le spalle. La speranza che lo lasciassero in pace era la sola
cosa che gli era rimasta. Si tirò su a fatica, le gambe
stanche che cedevano sotto il suo peso. Era snello, proporzionato, la
guerra aveva forzato la crescita dei suoi muscoli, e adesso li sentiva
tesi e affaticati. Si ricordò della notte in cui era
fuggito. I suoi compagni lo avevano aiutato a fuggire, ma non potevano
certo rimanere a bocca chiusa, altrimenti li avrebbero uccisi tutti.
Era loro molto grato, ma il suo carattere duro e taciturno non lo
faceva avvicinare tanto agli altri, e lo avevano sempre trattato come
un conoscente, uno di cui ci si possa a malapena fidare. Non poteva dar
torto a nessuno di loro. Non parlava molto, rideva meno e non sorrideva
quasi mai. Scribacchiava sul suo taccuino e nessuno gli aveva mai
chiesto che cosa pensasse. Un ghigno affiorò alle sue
labbra, ricordando quando un ragazzetto appena in grado di reggere la
spada, aveva tentato di rubargli la bisaccia al campo. Aveva preso
così tante botte da non poter più camminare senza
barcollare. Will si era pentito di quanto dolore avesse provocato a
quel ragazzino, ma la sua bisaccia era la cosa più preziosa
che aveva e a nessuno aveva mai dato il permesso anche solo di
toccarla. Figuriamoci di rubarla. Uno scricchiolio dal folto lo fece
voltare. Il collo gli pulsava e la ferita bruciava. Un altro movimento
brusco e si sarebbe riaperta di sicuro. Dai cespugli spuntò
uno scoiattolo. Will tirò un sospiro di sollievo. La foresta
vicino alla città di Ponte Bruciato era meta non solo di
fuorilegge, ma anche di soldati e ladri. Decise che sarebbe sceso in
città per fare provviste. Cercò il borsellino
sotto il mantello. Aveva ancora poche monete d’argento, ma
sarebbero bastate per un letto e per qualche giorno di scorte. Prese le
redini improvvisate dell’asino e lo fece muovere, facendo
attenzione a non calpestare le tane delle formiche rosse e delle vespe,
dure come calce. Uscito dalla foresta tirò su il cappuccio
del mantello, nascondendo i folti capelli neri e gli occhi di un
azzurro glaciale. Si chiuse il laccio al collo, provando una fitta di
dolore quando la tela grezza sfiorò la ferita. Il sole era
appena sorto e tingeva le nuvole, ancora grasse di pioggia, di rosa e
arancione. Un tempo avrebbe trovato l’alba estremamente
romantica. Adesso la trovava quasi fastidiosa.
S’incamminò verso il fondo del villaggio. La
caviglia rotta gli dava ancora qualche fitta di tanto in tanto, ma il
cerusico l’aveva rimessa a posto senza fare troppe domande, e
gli aveva raccomandato il riposo più assoluto. Will se
n’era andato ridendo.
Nascosto dal mantello
scrutò la gente che si affacciava dalle casupole. Uno
straniero ammantato di nero era sempre qualcosa di imprevisto. Dei
bambini gli saltellarono intorno. La gente di Ponte Bruciato era
ospitale ma curiosa e lui odiava le lunghe occhiate che gli uomini gli
lanciavano. Passò accanto alla fucina del fabbro appena
aperta. L’uomo dalla pelle ustionata gli lanciò
una lunga occhiata da sotto la zazzera bionda. Gli occhi color castagna
lo seguirono anche quando fu lontano. Odiava esser guardato, odiava
vedere la curiosità sui volti delle persone, e odiava ancora
di più il fatto di essere diverso da loro. I suoi colori
strani, i capelli neri e la pelle ambra, suscitavano timore nella gente
di quella regione così distante dalla sua patria.
Addirittura al di là del mare. Ma la cosa che temeva di
più era l’espressione di sorpresa per i suoi occhi
gelidi. La guerra aveva indurito il suo carattere, ghiacciato il fiume
della sua coscienza e risvegliato lo spirito di sopravvivenza sopito.
Inciampò in
una buca della strada e la spada gli picchiò sul fianco.
Imprecò a bassa voce, cercando di nascondere il sibilo della
sua lingua madre. Tastò la pietra incastonata
nell’elsa, un piccolo ma prezioso, diamante, trovato un
giorno da suo padre. Probabilmente caduto dalla borsa di un ricco
mercante. L’aveva fatto incastonare nell’elsa, ma
un buon fabbro avrebbe potuto toglierla. Quando gliel’aveva
data gli aveva fatto giurare che non si sarebbe fatto scrupoli, e che,
per quanto quella spada senza il diamante non avrebbe avuto nessun
valore, avrebbe venduto la pietra se si fosse trovato nei guai. Per il
momento non aveva avuto bisogno di venderla. E non l’avrebbe
fatto, a costo di morire di fame. Era l’unica cosa che ancora
lo legava alla sua terra, al di là del mare.
La guerra lo aveva
fatto diventare sospettoso e irrequieto e da tempo non dormiva come si
doveva, perciò aveva bisogno di almeno un giorno di
tranquillità. Alla fine della città
trovò una locanda a basso costo, anche se questo la diceva
lunga sulle condizioni delle camere. Legò l’asino
dentro la stalla, lasciando una moneta d’argento al ragazzino
che si occupava dei cavalli, ed entrò nella locanda. Lo
colpì il puzzo di marcio delle assi, l’odore
prepotente della birra stantia e un olezzo di fogna a cielo aperto.
Peggio di così, pensò. Gli venne l’idea
di andarsene subito, ma aveva bisogno di dormire un paio
d’ore e non aveva altra scelta. Si avvicinò al
bancone. Il locandiere lo squadrò.
-Che cosa vuoi
straniero?- chiese. Will non alzò la testa, ma
parlò con voce forte, così che tutti potessero
distinguere il suo accento marcato.
-Una camera. E un
bicchiere di acquavite- posò sul bancone quattro monete
d’argento, sentendo il borsellino alleggerirsi. Il locandiere
guardò le monete, poi lo servì. Aprì
un registro e gli diede penna e calamaio.
-Il tuo nome
straniero- intimò. Will finì con calma il
bicchiere, poi intinse la penna nel calamaio e scrisse un nome non suo
sul registro. Il locandiere lesse con stupore il nome svolazzante.
-Dove hai imparato a scrivere così?- chiese. Will
alzò le spalle da sotto il mantello, asciugandosi le labbra
con il dorso della mano guantata.
-Da solo- rispose.
Poggiò il bicchiere sul bancone. -Dove sono le camere?-
-Sali le scale e gira
a destra. La numero otto è libera- sogghignò -Sei
stato fortunato. È l’ultima che mi è
rimasta-
-Io non direi tanto
fortunato- Will sentì una sedia muoversi. Il proprietario
della voce gli toccò la spalla. Si voltò e lo
guardò da sotto il mantello. Non era molto più
alto di lui, forse un paio di dita, ma era robusto e sicuramente senza
ferite quasi riaperte. Portava un coltellino alla cintura. Will
passò la mano guantata sopra l’elsa della spalla.
Non doveva combattere. Non doveva mostrare a tutti la sua eccezionale
abilità con la spada. Non doveva. Cercò di
calmarsi. Il collo gli doleva e voleva stendersi in un posto asciutto.
L’uomo non poteva avere più di
vent’anni. Gli occhi nocciola erano cattivi e i capelli
rossicci erano appiccicati sulla fronte come la criniera bagnata di uno
stallone.
-Che cosa vuoi?-
chiese a bassa voce. L’altro lo guardò inclinando
la testa.
-Da dove vieni? Non
sei di queste parti, vero?- chiese -Da dove arrivi?-
-Da un posto che non
conosci- non riuscì a dissimulare il sibilo della lingua fra
i denti. La sua lingua natale aveva suoni sibilanti e dolci, non come
quella lingua tagliente e gelida.
-Questo posto deve
essere molto lontano dal modo in cui parli- osservò il
rosso. Will trattenne a stento un gemito. La presa sulla sua spalla si
era fatta una morsa e il collo gli bruciava sempre di più.
-E con questo?- si
limitò a borbottare. L’altro lo lasciò.
Gli scappò un sospiro di sollievo. Non avrebbe potuto
affrontare uno scontro. Doveva evitare di innervosire
l’avversario e doveva stendersi. Non ce la faceva
più. Il suo corpo reclamava il riposo e i suoi occhi
bruciavano. Cominciava a sentire la stanchezza scorrergli nelle vene
fino ad appannargli il cervello. Deglutì. Doveva calmarsi e
respirare come gli avevano insegnato i soldati, prima di affrontare una
battaglia.
-Gli stranieri non
sono i benvenuti a Ponte Bruciato- lo sentì dire -E di
solito qui le persone si guardano negli occhi quando gli si parla- Will
si scansò, ma l’altro riuscì ad
afferrare il cappuccio. I capelli ancora lunghi gli piovvero sul volto,
accecandolo per un attimo. Se li scostò con la mano guantata
e sollevò lo sguardo sull’altro. Il volto del
rosso trasfigurò. La sorpresa e lo spavento si mescolavano
nei suoi occhi nocciola. Will gli rivolse uno sguardo di compatimento.
Si appoggiò al bancone.
-Adesso che mi hai
visto... posso andare?- chiese ansimando -Ho bisogno di riposo. Ho
fatto un lungo viaggio-
Il locandiere prese
infine le sue difese. -Sei solo un ragazzo. Che cosa ci fai qui?-
-Affari miei, oste.
Scusate se non sono si compagnia-
-Da dove vieni?-
chiese prima che sparisse su per le scale. Will tornò
indietro.
-Da un posto che tu
non conosci- rispose malinconico. Sentiva così tanta
nostalgia della sua terra che sentiva il cuore duro come il ferro di
cui era forgiata la sua spada.
-Vieni dal mare vero?-
chiese il locandiere -Dove ti sei fatto quella brutta ferita?-
Will non rispose.
L’oste gli diede un bricco sbeccato e un bacile di coccio.
-Lavala e mettici della tela- gli porse un pezzo di tela che gli parve
abbastanza pulita -Mia figlia Contessa verrà a fasciarla tra
poco-
-Non ho bisogno di
compassione, oste- ribatté glaciale Will.
-La mia non
è compassione, ragazzo. Mio figlio è morto in
guerra, e tu sembri uno dei pochi sopravvissuti. Mio figlio aveva la
tua età. Forse tu sei ancora più giovane di come
appari- alzò le spalle strette -Curati quella ferita, e non
fare movimenti bruschi altrimenti si riaprirà e
s’infetterà- aprì una porta dietro il
bancone e chiamò la figlia. Will salì le scale,
la stanchezza accumulata lo faceva barcollare. Entrò in
camera e poggiò il bacile e la brocca a terra. Si tolse il
mantello, i guanti, la spada, il piccolo tascapane e buona parte dei
vestiti. Si sdraiò sotto il lenzuolo. La camera era piccola,
ma sembrava in buone condizioni. Il materasso scricchiolava, ma non
c’erano pulci o scarafaggi. Appoggiò la testa sul
cuscino. La ferita pulsava terribilmente e lui si lasciò
scappare un gemito di dolore. Non seppe se era scivolato
nell’incoscienza per via del dolore o per la stanchezza,
fatto sta che quando qualcuno bussò alla porta ebbe appena
la forza di dire “avanti!”. Una ragazzina dai
capelli biondo cenere legati in una lunga treccia che oscillava sulla
sua schiena eretta, avanzò fino al suo letto. Lo
osservò a lungo con i grandi occhi ambra chiara. Will non la
guardò negli occhi. Aveva paura di leggere compassione e
pietà dentro il suo sguardo curioso. Doveva avere
più o meno quattordici o quindici anni. Grande abbastanza
per sposarsi e avere dei figli. Lei affondò le mani nel
bacile, che aveva riempito d’acqua, e ci tuffò
dentro delle pezze di quella che sembrava seta poco lavorata. Aveva una
voce stridula, forse per una malattia alla gola non guarita bene.
Parlò poco, ma Will non rispose mai. Gli pulì la
ferita e la fasciò alla bell’e meglio, passandogli
la fascia intinta nell’acqua oleata, sotto i capelli neri.
Quando uscì, Will era di nuovo scivolato
nell’incoscienza.
Quando si
svegliò dal torpore era ormai sera. Non capì se
lo avesse svegliato il dolore al collo o il brontolio dello stomaco. Si
alzò temendo un capogiro, che però lo
risparmiò. Si vestì, la fascia che gli pizzicava
la nuca, si rimise i guanti e la spada alla cintura, ma
lasciò il mantello accasciato al letto. Prese lo specchio
che era su una piccola madia e lo appoggiò al letto.
S’inginocchiò, estrasse un coltellino di corno
dalla fodera del mantello e cominciò a tagliare i capelli,
ormai troppo lunghi, che gli incorniciavano il volto e scendevano sulla
nuca. Quando si ritenne soddisfatto rimise tutto in ordine e
uscì dalla stanza. Ormai tutti sapevano che uno straniero
dagli strani colori e il corpo temprato dalla guerra era arrivato in
città. Sebbene avesse paura dei soldati del re, non poteva
vivere per sempre nascosto, perciò si fece coraggio e scese
le scale. Il sonno gli aveva fatto bene e i suoi occhi non bruciavano
più. Solo la ferita gli faceva vedere le stelle. La locanda
era più affollata di quando era arrivato. Gli avventori si
erano riuniti al bancone e attorno ai tavoli. Si sentiva
l’odore di uno stufato, forse non particolarmente buono, ma
che fece brontolare ulteriormente lo stomaco di Will. Si sedette ad un
tavolo. Contessa, la figlia dell’oste si avvicinò.
-Vi posso portare
qualcosa?- chiese. Will annuì. -C’è
dello stufato. Posso portarvi anche del pane nero e la birra di mio
padre-
-Va bene- le mise in
mano una moneta d’argento e lei lo guardò con
gratitudine. Forse suo padre non le aveva mai dato dei soldi da
spendere in ciò che voleva. La vide far scivolare la moneta
nell’incavo dei seni. Quel gesto gli ricordò sua
madre, che usava nascondere uno spillo tra le pieghe del
corpetto. Sua madre era bellissima, da lei aveva ereditato
gli occhi azzurri, e molti usavano corteggiarla. Contessa gli
portò una dose generosa di stufato e un tozzo di pane
abbastanza morbido. Appoggiò al tavolo il boccale. -Se ne
volete ancora chiamatemi- gli sussurrò
all’orecchio. Will non ribatté, ma
cercò di sorridere. Lo sguardo della ragazzina era sincero e
lui la guardò andare via. Suo padre le chiese qualcosa e lei
chinò il capo, scuotendolo lievemente. Lui guardò
verso Will, che fece finta di niente, intingendo il cucchiaio nello
stufato, poi si rivolse di nuovo a Contessa. La voce era stizzita e
Will ci ritrovò a concentrarsi per carpire cose le diceva.
-Sei proprio una sciocca-
-Mi dispiace
papà- sentì la flebile risposta di Contessa.
-Vedi di dargli
questo. Se sarai brava ti darà un’altra moneta- la
voce di Tiberio era suadente. Will lasciò cadere
l’attenzione e guardò Contessa che rispondeva e
che, il volto rosso e gli occhi bassi, tornava in cucina.
Era il primo pasto
vero da ben sessanta giorni, si ricordò Will, annotando una
lettera nella sua lingua sotto il segno del giorno. Si
asciugò le labbra con il dorso della mano guantata. Non vide
sopraggiungere il rosso, ma lo sentì sedersi.
Alzò lo sguardo dal piatto. -Oggi non mi sono presentato-
disse -Mi chiamo Karen, ma tutti mi chiamano Spirito, e tu?-
Will
grugnì. Perché in quella città
dovevano essere tutti così curiosi? -Lyon- rispose. Era il
nome di un soldato che aveva ucciso durante la guerra. Gli era rimasto
impresso per la dolcezza della pronuncia.
-Lyon e poi?- chiese
ancora Spirito.
-Lyon e basta- rispose
spazientito Will. Fece un gesto a Contessa, che sparì in
cucina e tornò con un altro piatto di stufato.
Portò via quello vuoto. Will affondò il cucchiaio
nello stufato, sperando che quel gesto facesse capire a Spirito che la
conversazione era finita. Ma lui era di un altro avviso.
-Come ti sei fatto
quella ferita?- chiese curioso. Will alzò la testa e lo
guardò negli occhi. Sapeva che il loro colore incuteva, in
quasi tutti gli uomini, una sorta di malcelata inquietudine nei suoi
confronti, ma la curiosità di Spirito non si
acquietò.
-A caccia- rispose
laconico. Non poteva certo dire che la preda era proprio lui.
-Che cosa ci fai a
Ponte Bruciato?- chiese ancora Spirito, appoggiandosi alla sedia e
incrociando le braccia. Will spezzò il tozzo di pane con le
mani guantate. -E perché quei guanti?-
-Affari miei- rispose.
Il sibilo della sua lingua probabilmente fece venire i brividi a
Spirito, che lo guardò quasi impaurito.
-È strano
il modo in cui parli, Lyon- osservò. Will si
scostò i capelli dalla fronte con un gesto seccato.
-La mia lingua
è molto più antica della tua- commentò
distaccato. Aveva fatto fatica ad imparare la lingua di quella regione
e a volte faticava ancora a tradurre i propri pensieri.
Spirito
sembrò soddisfatto della risposta. Non si alzò
subito, ma aspettò che lui avesse finito il boccale della
birra. Will lo guardò di nuovo, solo allora Spirito si
alzò.
-Beh, stammi bene,
Lyon- balbettò. Will non rispose. Sapeva che anche se era
grosso e alto più di lui, Spirito aveva paura di lui. Uno
straniero scuro di capelli, con una spada e un strano accento incuteva
timore reverenziale in quella gente semplice. Perfino l’oste
aveva paura di lui, anche se gli ricordava suo figlio.
Chiamò di nuovo Contessa.
-Come si chiama tuo
padre?- le chiese mentre sparecchiava.
-Tiberio- rispose lei.
Will notò che lasciò cadere sulla tavola un
foglio spiegazzato e con su una calligrafia storta. Non poteva essere
quella della ragazzina, perché ricordava che mentre gli
fasciava la ferita gli aveva detto che sapeva a malapena scrivere il
suo nome. Perciò quella doveva essere la grafia del padre.
Will spiegò il foglietto, facendo in modo che Contessa lo
vedesse e lo riferisse a Tiberio. Un ghigno gli affiorò alle
labbra. Se hai bisogno di qualcosa, mia figlia provvederà.
La parola “qualcosa” era sottolineata due volte. La
scrittura sghemba era a malapena decifrabile, ma Will ebbe la
sensazione che l’oste non si facesse scrupoli quando si
trattava di sua figlia. Aveva scoperto la moneta che Will le aveva
dato. Si infilò il foglio in tasca e si alzò. Il
collo gli pulsava, ma gli faceva meno male ed era una buona cosa.
Salì le scale e tornò in camera. Si tolse la
cintura, e appoggiò la spada alla testata del letto. Pochi
minuti dopo sentì bussare alla porta. Sapeva chi era dietro
la porta. Aprì e si ritrovò davanti Contessa. Si
spostò e la fece entrare. Non indossava più il
grembiule sudicio. Il vestito grigio non le donava e non rendeva
giustizia al suo corpicino già ben formato. -Che cosa
c’è?- chiese Will, anche se già sapeva
la risposta.
-Mi ha mandato mio
padre- rispose lei con la solita voce stridula -Come va la ferita?-
-Passerà-
commentò laconico lui. -Vattene Contessa-
La ragazzina lo
guardò dal basso in alto, cercando di capire che cosa
volesse da lei. Visto che non se ne andava Will glielo
ripeté. -Vattene. Non ho bisogno di nulla-
-Mio padre credeva
che...-
-Non
m’interessa un accidente di che cosa pensava tuo padre. Non
mi diverto con delle ragazzine- al sibilo della sua lingua fra i denti
vide Contessa rabbrividire istintivamente. -Tieni- le mise in mano una
moneta di bronzo. -Dì a tuo padre quello che ti pare, basta
che mi lasci in pace-
-Grazie-
mormorò lei -Posso farvi una domanda?- chiese impacciata.
Will annuì, mentre si sfilava gli stivali, seduto sul letto.
-Perché portate quei guanti?-
Will alzò
gli occhi su di lei. Teneva la mano che stringeva la moneta stretta al
petto prospero. -Lo vuoi sapere davvero?- chiese. Lei annuì
senza quasi respirare. Lui ridacchiò senza allegria. Si
tolse un guanto e allungò la mano verso di lei. Le cicatrici
biancastre sul dorso e il palmo tremarono come fossero vive alla luce
fioca delle tre candele.
-Come ve le siete
fatte?- chiese Contessa, piena di stupore. Will si guardò le
dita, lunghe e affusolate.
-È una
lunga storia, Contessa. Forse se passerò di nuovo da qui te
la racconterò- rispose -Adesso vai. Sei stata abbastanza- la
congedò gelido. Contessa si voltò. Poi
sembrò ripensarci. Tornò da lui e si
chinò, schioccandogli un bacio sulla guancia. -Nessuno era
mai stato gentile con me, vi ringrazio dal profondo del mio cuore-
disse al suo orecchio. Will la guardò andare via, la lunga
treccia che oscillava sulla sua schiena. Si toccò la guancia
con le dita. Sorrise senza allegria. L’ultima volta che aveva
ricevuto un bacio era stato quando era partito da casa. Si ricordava
ancora il profumo di farina di sua madre, mentre lo abbracciava, le
lacrime che le rigavano il bel volto, dalla pelle bianca come i
bucaneve. Si sdraiò, sfilandosi anche l’altro
guanto. Si guardò le dita affusolate. Le mosse,
intrecciandole. Le sue mani grondavano sangue, e quelle cicatrici erano
solo uno dei tanti ricordi della guerra. Passò le mani sotto
la testa. Il collo pizzicava, ma cercò di non pensarci e
poco dopo si addormentò.
Il
vascello rollava e il vento spazzava il ponte di comando.
L’acqua salmastra gli riempiva le orecchie e gli faceva
bruciare come fuoco gli occhi stanchi. I vestiti erano appiccicati al
corpo, il freddo e la paura gli attanagliavano lo stomaco come una
morsa di ferro. Mentre scivolava, portato via da un’onda, la
sua mano afferrò una cima che si srotolò
finché non s’incastrò in una tavola
malmessa. Si aggrappò alla cima con tutta la forza della
disperazione. Il vascello si piegò vertiginosamente e lui
sentì le urla del capitano e dei marinai. Lui e gli altri
soldati se ne stavano aggrappati, angosciati dalla paura, mentre il
mare precipitava e saliva tutto intorno a loro. Le onde altissime
sballottavano la nave come fosse un guscio di noce. Urla di terrore gli
affollavano la gola, ma era incapace anche si parlare, la sorda paura
di morire si era impossessata di lui e non sentiva altro che il mare
che urlava intorno a lui. Quando il vento smise per un solo momento di
soffiare, sentì un dolore atroce alle mani. Cercò
di aprire gli occhi, ma l’acqua salmastra bruciava e non
riuscì a vedere nulla, attraverso la patina di lacrime,
vento e paura. Sentì la presenza di un altro uomo accanto a
lui. Si sentì afferrare per la vita. Gridò. Un
urlo che gli fece dolere le corde vocali. Sentì le sue mani
scorrere lungo la cima. Un dolore immane
s’impossessò di lui. Altre mani sopra le sue lo
staccarono dalla cima. Sarebbe morto. La Dama con la falce era venuto a
prenderlo e non avrebbe mai più rivisto casa sua. Tutto
intorno era paura, nebbia, vento, urla. Il dolore gli abbuiò
la ragione. Urlò. Ancora, ancora e ancora, finché
non ebbe più fiato e finché
l’incoscienza non sopraggiunse a lenire la sofferenza.
Will si
svegliò di soprassalto, sudato e con il fiatone. Si
alzò a sedere sul materasso scricchiolante. Ancora...
pensò, passandosi la mano sul volto. La luce
dell’alba filtrò fra le tende accostate. Aveva
dormito tutta la notte. Si guardò le mani. Al ricordo le
ferite rimarginate pulsavano ancora. Ricordava il dolore cocente delle
erbe dei cerusici. Le ferite c’avevano messo sei mesi per
cicatrizzarsi. E intanto lui doveva brandire la spada. E ogni volta le
mani gli facevano male, un dolore bruciante che risaliva per le braccia
e gli offuscava i sensi. Aveva imparato ad escluderlo, concentrandosi
solo sul peso enorme della spada contro le sue braccia ancora deboli.
Suo padre era mugnaio, ma aveva voluto che lui studiasse e che
lavorasse con lui soltanto alcuni giorni a settimana, per imparare il
mestiere se non avesse trovato di meglio. Ma quando era giunta la
notizia della guerra in quella terra lontana, di cui Will conosceva a
malapena l’esistenza suo padre aveva cominciato a tenerlo in
casa e lui aveva smesso di uscire per conto suo. Usciva di notte e il
chiarore della luna rendeva la sua pelle ancora più bianca,
nella luce lattiginosa. Poi lo avevano arruolato e tutto era finito.
Aveva dovuto apprendere come difendersi, come uccidere, come
saccheggiare. Per un anno era stato una recluta, ma mano a mano che
cresceva il suo corpo imparava a sopportare il dolore e la mancanza di
riposo. La guerra l’aveva temprato con un fabbro fa con il
ferro caldo, dandogli la forma che ritiene più adeguata. La
forma che Will aveva preso era quella di un soldato, la coscienza
seppellita sotto il senso del dovere, il cuore ridotto ad un seme di
papavero, gli occhi duri e la lingua tagliente.
Si alzò, si
rivestì e si allacciò il mantello al collo.
Trasalì sentendo la fasciatura premere sulla ferita. Scese
dabbasso. Trovò Contessa e suo padre che parlavano. La
ragazzina lo guardò.
-Partite?- chiese. Lui
annuì.
-Quanto ti devo?-
chiese a Tiberio. L’oste scosse la testa.
-Hai pagato ieri sera.
Tieni- gli porse un fagotto di tela non troppo pulita. -Dentro
c’è un po’ di cibo e qualcosa che
potrà tornarti utile finché rimani nei paraggi
delle città- indicò i suoi guanti sdruciti -E un
nuovo paio di guanti- si chinò sul bancone -Quelle ferite
non devi farle vedere in giro. Molti sanno che la guerra non
è ancora finita e quelle... beh, sono molto strane-
alzò le spalle e tacque, eloquente. Will non
ribatté, ma fece un cenno all’oste e si
allontanò, il mantello che lo seguiva come la sua ombra. Si
calò il cappuccio del mantello sul volto e riprese
l’asino dalla stalla. Lo portò di nuovo in
direzione della foresta e quando furono abbastanza lontani dalla
città, si sedette su un tronco marcio a lato della strada e
sfece il fagotto. Trovò del pane nero, del formaggio e della
carne essiccata. Dentro un pacchetto in carta lucida c’erano
i guanti di cui gli aveva parlato l’oste. Non erano nuovi, ma
erano in pelle, cuciti con maestria a filo doppio. Si tolse i suoi e se
li infilò. Con quelli aveva più
libertà di movimento, poteva muovere le dita senza che le
cuciture gli torturassero le vene e le cicatrici. La pelle rimarginata,
con il freddo dell’autunno in arrivo, si faceva ogni giorno
più sensibile e lui ogni giorno più nervoso. Si
rimise in cammino. La strada per la costa era ancora lunga, e lui non
aveva nessuna intenzione di girovagare ancora. Voleva tornare a casa.
Forse sarebbe morto prima di arrivarci, ma non gli importava. Sarebbe
arrivato alla costa, avrebbe preso una nave e sarebbe tornato a casa.
Vivo o morto.
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