Save me

di Ronismine
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Per potervi raccontare tutto senza problemi  dobbiamo tornare indietro di qualche anno, ai miei 14 anni. A quei tempi il mio ingresso nel mondo adolescenziale aveva reso la mia mente, già contorta di suo, un vero e proprio nido di rondine, in tono con i miei capelli, per farla breve.
Siamo stati tutti adolescenti, molti lo sono ancora e spero che non me ne vorrete se ammetto un giudizio che mi sono tenuta dentro per troppo tempo: che periodo di merda. Il periodo in cui puoi andare a mare quando vuoi, ma i genitori e le mestruazioni te lo impediscono. Il periodo in cui ti innamori così bellamente ma la tua goffaggine e l’acne ti rendono facilmente evitabile. Il periodo in cui se litighi con un’amica sei tagliata fuori dal mondo.  E quello più o meno era il mio andazzo per i primi tempi “adolescenziali”. Escludendo il fatto che non avevo l’acne. Ma la goffaggine ci stava tutta.
Ero invaghita di un tipetto a quei tempi, ed ero riuscita ad apparire abbastanza interessante da poterci parlare la notte fonda  attraverso un cellulare, che alla fine non era poi un confine così grande. Peccato che oltre quelle intime conversazioni non riuscivo ad andare. E come quando un gancio non riesce più a sopportare il peso che tiene sospeso, mollai la presa. E scoprii subito uno dei tanti inconvenienti che quando ero piccola non avevo dipinto nel mio roseo futuro: le pene d’amore. Forse fu solo un mio problema, ma quella specie di rifiuto (o limitazione, come la vogliamo chiamare) da parte di quel ragazzino mi avevano seriamente abbassato l’autostima, rendendomi più timida e impacciata di prima.
E mi ritrovavo quasi tutti i pomeriggi ad ascoltare musica deprimente, stile Lana del Rey nel mio piccolo letto. Vivevo in un monolocale col mio papà e Tigro, un gatto nero, che di tigrato aveva ben poco (qualcosa tipo qualche striatura qua e là) ma mi piaceva quel nome su di lui. Infondo quando chiamano le bambine Viola non lo fanno perché la loro pelle richiama il violaceo.
Quella era la mia famigliola, dei poveri  sopravvissuti all’amore finito male. Papà riguardante il suo matrimonio, per Tigro l’amore materno che l’aveva lasciato sulla strada un freddo mattino d’inverno e per me l’amore puro e innocente che, come da prassi, non era ricambiato.
Mio padre lavorava in una ditta di nonsoche vicino Londra, e io frequentavo il liceo non molto lontano da casa. Ogni mattina percorrevo qualche isolato a passo svelto, sempre attenta a non far alzare la gonna della divisa e cercando di evitare le pozzanghere. Mi fermavo solitamente in un bar accanto alla scuola, per prendere il pranzo, che consisteva in un panino e una bottiglia d’acqua, nel migliore dei casi. Nel peggiore dei casi era un’insalata mista, decisamente priva di qualsiasi genere di sapore.
È stato proprio lì che una giornata primaverile ha illuminato una folta chioma rossa e disordinata, e un sorriso che umiliava quel pallido sole…




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