L'unica nota che scriverò
è: questo è ciò che succede quando sei
una brutta persona.
Siate brutte persone anche voi e
leggete <3 Poi fatemi causa.
The
creaking door.
La porta cigolò. Fu un
suono lento, strisciante, antico come
quello di una vecchia casa in legno dove il tempo ha preso il
sopravvento e
ogni cosa stride al minimo passaggio di aria. Scricchiolò
come un pianto, come
il gemito impaurito di un animale ferito.
Era colpa dei cardini, erano vecchi e
arrugginiti. Lo aveva
detto ad una delle infermiere tempo prima. Lei aveva sorriso e aveva
risposto
che qualcuno li avrebbe sistemati, ma nessuno era mai venuto a farlo e
la porta
continuava a scricchiolare sotto la tortura di tutti quelli che
entravano ed
uscivano dalla sua stanza. Nessuno lo notava, come se quel suono fosse
interamente nella sua testa.
Nel piccolo intervallo di tempo in
cui la porta
scricchiolava poteva succedere di tutto. Tra il momento in cui la
maniglia
iniziava a girare e quello in cui lo scorcio di corridoio appariva tra
gli
stipiti si svolgeva un mondo intero, fatto di pensieri e domande. Di
aspettativa. E di paura. Quando la porta si apriva, il cuore
accelerava, il
respiro si accorciava e gli occhi si chiudevano come se ogni volta
fosse la
prima.
La porta cigolò e soffici
passi sul pavimento bianco ne
seguirono. I passi non avevano lo stesso suono: erano dolci, cauti e
gentili
come la donna che li produceva. Erano uno dei pochi suoni che non gli
facevano
paura. Quando il suo volto fece capolino dal corridoio, Ned sorrise.
“Ciao, Ned.”
“Chuck…”
Non era lei, non era la sua
Charlotte. Non l’aveva più vista
dal giorno del funerale, che nella sua mente sembrava appartenere ad un
tempo
lontanissimo, quasi non suo; ma non aveva importanza. Quella voce che
parlava
costantemente nella sua testa glie lo ripeteva di continuo: Chuck non
era lì.
La sua Charlotte aveva il viso tondo e le guance arrossate, gli occhi
che
splendevano nella luce del sole estivo e la risata simile al suono di
mille
campanelli. Questa Charlotte era diversa, era sbagliata:
il suo volto era troppo affilato, il rossore sulle sua
guance troppo finto, gli occhi freddi sotto le tristi lampade bianche e
non una
sola volta Ned l’aveva sentita ridere.
Lei non era Chuck, era solo una copia
alla quale la sua
mente e il suo corpo si aggrappavano con disperazione come ad un
salvagente,
quello che gli impediva di annegare nel mare di oscurità che
riempiva la sua
cella bianca come la neve. Lei lo sapeva. Loro
lo sapevano. Loro avevano
deciso
tutto, perché sapevano che sarebbe impazzito in fretta senza
un punto di
riferimento. Così gli fornivano quella piccola bugia,
così terribilmente falsa,
così terribilmente importante. E le torture, le ferite, gli
esperimenti
sembravano meno terribili quando lei era al suo fianco. Era tutto
calcolato,
con una precisione millimetrica che lo spaventava. Ma non aveva
importanza:
aveva bisogno di lei. Non era nemmeno sicuro che Charlotte fosse
davvero il suo
nome, per quel che ne sapeva poteva esserselo inventato, poteva essere
tutto
parte del piano, ma non aveva importanza. Doveva credere che fosse
vera, così
come era vero lo scricchiolio della porta che nessuno sembrava sentire.
Chuck gli sorrise, mentre si chinava
su di lui, accovacciato
sul pavimento freddo con le gambe strette al petto. Le sue dita
passarono piano
fra i suoi capelli sporchi, districando con gentilezza le ciocche
annodate, quasi
si stesse occupando di un bambino. E in fondo lo era: era un bambino
tra le sue
mani, obbediente ed educato, docile come un agnellino. Loro sapevano
anche
questo, perciò la mandavano: perché non le
avrebbe mai fatto del male. Non a
Chuck, non alla sua amica del cuore. Mai.
Le mani di lei si fermarono e Ned
capì perché era venuta. La
siringa era ancora nella tasca del suo camice, ma l’avrebbe
tirata fuori di lì
a poco e lui l’avrebbe lasciata fare. Perché era
così; perché aveva smesso di
opporsi in un giorno ignoto di molto tempo prima. Non sapeva quanto
tempo, era
solo molto. Ricordava solo vagamente i frammenti di una vita diversa da
quella,
una vita fuori da quelle quattro mura bianche fatta di colori, profumi
e sapori
e a volte, durante la notte, le immagini di quella vita scorrevano
nella sua
mente: un salotto, una cucina, l’odore dolce e avvolgente
delle torte appena
sfornate e le risate di due bambini che giocavano. Ma più il
tempo passava, più
quelle immagini sembravano proprio questo: solo dei sogni; delle
invenzioni. La
verità era che lui il sapore delle torte non lo ricordava
più, se mai era
esistito, e nemmeno ricordava il profumo delle spezie o
dell’erba tagliata. La
verità era che lui era una persona bianca in una stanza
bianca. Era sempre stato
così e sarebbe stato così.
L’ago entrò e
uscì dalla sua pelle quasi impercettibile. Non
vi badava più. Era così che andava. Chuck ripose
la siringa vuota nella tasca.
Il suo sorriso era di circostanza.
“Il dottore
verrà a prenderti fra poco. Vogliono solo fare
dei controlli, niente di più. Andrà tutto
bene.” Il suo tono di voce era quello
di chi recita una parte; quelle parole Ned le aveva sentite infinite
volte,
come un vecchio nastro inceppato che trasmetteva a ripetizione lo
stesso
stralcio di canzone. Andrà tutto
bene,
era questa la loro canzone e l’aveva imparata a memoria.
Andrà
tutto bene,
perché andrà come al solito, e come dovrebbe
andare? Piccolo, dolce topo da
laboratorio, sei nostro. È questa la tua vita, mia
bellissima cavia, mio
splendido abominio.
Ned rabbrividì.
All’improvviso sentì i muscoli farsi
più
pesanti, sentì i riflessi indebolirsi e la vista
annebbiarsi. Di nuovo, come
era stato tante altre volte e come sarebbe continuato ad essere ogni
giorno a
venire. E nel petto il suo cuore accelerò a quel pensiero,
mentre il respiro si
accorciò. La testa iniziò a girare, ma non era
l’effetto del medicinale.
Oh, il panico. Era sorprendente come
fosse ancora in grado
di avvinghiarsi a lui e di strisciare sotto la sua pelle come un gelido
serpente
invisibile. Le sue visite erano ancora più terribili di
quelle dei dottori:
erano improvvise, erano immotivate, erano nere e soffocanti; eppure
erano
l’unica cosa che gli ricordasse di essere umano, qualcosa di
più di un cadavere
da analizzare. I cadaveri non conoscono la paura. E nonostante Ned non
sapesse
di cosa aveva paura, ne sentiva i morsi e le urla.
“Chuck…”
sibilò, le dita che stringevano convulsamente
l’aria cercando di aggrapparsi a qualcosa. Ma lei era lontana
e non si faceva
toccare.
“Chuck!” questa
volta fu un grido e la sua voce si spezzò
sull’ultima lettera. Lei lo guardò. I suoi occhi
lo fissavano con pietà, ma era
la pietà di chi guarda un animale soffrire senza fare nulla.
“Andrà tutto
bene, Ned.”
“Chuck,
no…!”
“Tutto bene.”
E poi fu il bianco. Il bianco delle
pareti, della luce,
della divisa di un medico che camminava verso di lui.
In fondo, era così che
andava.
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Sognò le rane.
Era una storia curiosa, quella delle
rane: era la
dimostrazione che per rovesciare una vita e per fare prendere una piega
inaspettata non serve necessariamente qualcosa di grande, ma che al
contrario
sono spesso le piccole cose a determinare l’esito finale.
Come delle rane, per
esempio. Perché mai delle rane dovrebbero essere mai
considerate qualcosa di
importante?
Eppure lo erano state. Abbastanza
importanti da catturare
l’attenzione della persona sbagliata durante l’ora
di biologia. Ned sapeva
anche allora che non era una buona idea, ma il richiamo delle malefatte
aveva
avuto la meglio su di lui e le urla terrorizzate dei suoi compagni alla
vista
dei grossi anfibi che iniziavano dal nulla a dimenarsi erano state
epiche. Si
chiedeva se forse, se quel giorno avesse deciso di ingoiare
l’umiliazione
invece di cercare vendetta, non sarebbe riuscito a cavarsela.
Ma le rane erano tornate in vita e
qualcuno aveva visto. E
per un tocco di troppo era finita lì, in un laboratorio in
un luogo che forse
gli era stato detto, ma che ora non ricordava più. Era
iniziata con parole
rassicuranti, era continuata con l’inganno e sarebbe
finita… chissà se sarebbe
mai finita.
Lo svegliò il dolore. Si
mosse, sentendo sotto di sé il
materasso della sua branda e il suo braccio mandò una sorda
fitta che lo fece
gemere. Aprì gli occhi e se non fosse stato per
l’ago infilato nell’incavo del
suo gomito avrebbe pensato che anche ciò che era successo
prima fosse stato un
sogno. In ogni caso, era solo una flebo. Charlotte non aveva mentito.
Non
questa volta, almeno.
Avevano iniziato a sedarlo durante
gli esami diversi anni
prima, dopo l’ennesima crisi isterica, quella che aveva
segnato il limite di
sopportazione sia suo che dello staff. Quella volta non si era trattato
solo di
urla, di pianti e di spintoni; era stata una lotta ed era finita nel
peggiore
dei modi. Non che lui fosse stato davvero intenzionato a fare quel che
aveva
fatto: aveva reagito in preda alla paura e non era colpa sua se uno
degli
infermieri nuovi aveva ritenuto saggio tenere un bisturi nel taschino;
non era
colpa sua se lo strumento era caduto a terra nella foga del momento; e
non era
colpa sua se aveva afferrato di riflesso il primo oggetto a portata di
mano e
aveva attaccato per difendersi. Ma la conseguenza non cambiava e il
povero sventurato
era stato trasportato via con urgenza, mentre sul pavimento si
allargava una
pozza di sangue proveniente senza alcun dubbio da un’arteria
femorale recisa. E
lui era stato confinato in una cella piccola e stretta, con le braccia
legate
da una camicia di forza come un pazzo. Forse in quel momento lo era
stato. Ma era
del tutto sicuro che, se fosse stato più lucido, avrebbe
comunque usato quel
bisturi e forse avrebbe cercato di provocare una ferita più
grave. Avrebbe
mirato alla gola e non ci sarebbe stato alcun modo di salvare
l’infermiere
idiota che aveva tenuto una lama a meno di un metro da un paziente
mentalmente
instabile.
Quell’incidente aveva reso
evidente l’intollerabilità della
situazione. E per evitare che qualcuno ci rimettesse davvero la pelle,
i medici
avevano deciso che non era poi necessario tenerlo sveglio durante gli
esami.
Non tutti, almeno. Aveva funzionato, era diventato considerevolmente
più docile
da allora: l’idea di poter dormire e di non essere costretto
e a vedere quelle
cose, ad entrare cosciente in quelle stanze, lo aveva rassicurato. Ora
era
tutto molto più lontano e della consistenza di un sogno;
poteva fare finta che
si trattasse solo di un frutto della sua mente.
Anche se non lo era, anche se poi si
svegliava e le ferite
che pulsavano gli ricordavano che ogni secondo era reale e non parte di
un
incubo. E a nulla servivano le lacrime, o le grida, o le suppliche:
dalla
realtà non ci si può svegliare.
Le dita si chiusero attorno alla
flebo. Uno strappo e l’ago
fuoriuscì dalla sua carne in un unico movimento.
Urlò, mentre le lacrime
fuoriuscivano e un dolore acuto e penetrante si spandeva dal suo
braccio e
attaccava il suo cervello come una lama affilata.
E accolse il dolore come un amico,
perché i cadaveri non
provano dolore. L’adrenalina inondò le sue
vene,facendolo sentire più vivo che
mai e l’odore del suo stesso sangue gli sembrò il
più soave dei profumi. Era
così, era così che andava. Cullava
l’idea della morte, perché i cadaveri non
muoiono.
L’ago scintillò
fra le sue dita, catturando la luce della
lampada. Una goccia di sangue fuoriuscì dal suo indice. Il
colore era come
quello delle fragole che vedeva nei suoi sogni, ma il sapore strideva
contro la
dolcezza di quel ricordo.
Fissò per qualche secondo
quella sottile linea di metallo. I
cadaveri non morivano, ma in fondo, secondo la gente comune, nemmeno
potevano
tornare in vita. Eppure,
lui stesso
aveva dimostrato quanto fosse errata quella convinzione. E allora
perché non
contestare anche l’altra? Ma era ora o mai più.
Ora, finché aveva ancora la
convinzione!
Fuori dalla porta nessuno passava.
Non un rumore
echeggiava in
quell’ala della struttura.
Ned sollevò la mano, portando la punta metallica
dell’ago a sfiorare la pelle
del collo. Sentì il battito del cuore accelerare
all’idea di affondare quel
piccolo oggetto, di penetrare la carotide. Sarebbe bastato un niente,
poteva
farlo, era semplice come bere un bicchier d’acqua. Ed era
terribilmente
eccitante.
Quanto deve essere disperato un
essere umano se l’unico
momento in cui si sente vivo è quello in cui si trova faccia
a faccia con
l’idea di morire?
Il dolore al braccio ora era sordo e
distante. Un singhiozzo
scappò dalle sue labbra livide e un’altra lacrima
abbandonò i suoi occhi, ma
non era dolore fisico quello che lo scuoteva ora. No. Oh, no!
Ma non lo
farai, vero
mia piccola cavia? Non lo hai fatto prima d’ora,
perché farlo adesso?
No, no, non così!
Andrà
tutto bene.
Con lentezza, la mano che tremava
ormai priva della
determinazione di pochi secondi prima, Ned lasciò la presa
sull’ago, che
tintinnò appena quando toccò il pavimento. E il
singhiozzo divenne un grido,
prima ancora che lui stesso se ne rendesse conto.
Qualcuno entrò, delle mani
lo afferrarono, delle voci
parlarono tra di loro, ma lui non le sentì. Non che avesse
importanza. Nelle
sue orecchie echeggiò una risata e una voce coprì
le sue urla disperate:
Tu sei
nostro.
In fondo, era così che
andava.
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