La lunga strada verso casa - 1
Carissimi
lettori di “Portagioie
di tristezza”,
immagino
di dovervi una confessione. Nello scrivere quel fatidico 'capitolo
21', era mia precisa intenzione ferire ogni vostra speranza e
mutilare ogni vostro sogno di lieto fine – non perché
improvvisamente sia venuto meno in me lo spirito romantico, ma
semplicemente perché cercavo disperatamente una ragione per scrivere
ancora di Shannon e Daria – perché sicuramente quella storia non
sarebbe potuta andare avanti all'infinito, benché la sottoscritta
continui ad avere una folle voglia di scrivere di loro.
Confesso
di aver scritto di proposito quel finale, confesso di aver
intenzionalmente spezzato il cuore di Shannon, confesso di
aver volontariamente esposto Daria alla gogna, facendovela a
volte odiare, a volte compatire, e a volte (poche) comprendere. Forse
non vi consolerà sapere che tutto ciò che è stato fatto è stato
fatto in funzione di una nuova storia, ma in un certo senso consola
me, che posso tornare a scrivere per persone che mi hanno fatta
sentire veramente apprezzata.
Perciò,
prima di iniziare, vorrei prendermi un minuto per ringraziare
ciascuna delle persone che ha inserito “Portagioie di tristezza”
in una delle tre liste – storie preferite, storie da ricordare,
storie seguite.
Grazie
7taras, Aandyy, after rain, Aine Walsh,
alessandra black, alice 26, Amyvitamia,
Arichan4334, arula92, BabyIWillLoveYouForever,
Bdb, BlumeinderNacht, Butterfly Dream, Capino,
carly cec, Ciambellina, cice ska, Cimma,
Closer to the edge, cris leto, CutePoison83,
Cuup, DadaOttantotto, dama galadriel, Echelon26,
EchelonHR, echelonisfaith, Faith h2o, fede
lea90, FediPan, Floki97, Francesx, Fra_BVB
Echelon Punk, Fuckthishit, GB Echelon, GiuEchelon3,
gradina99, Green Arrow, guardacomemidiverto,
hillarysuellen, INGLION, JessyJoy, Kamira,
kari87, katherineheat, katvil, LexieEchelonMF,
LightCross, LittleDevil98, Love_in_London_night,
LysergicAcid, MarsAlbe, MartyRudolf, melany987,
meryj, MichelleEarth, Mikal095, miky 483,
Mimmi Windsor, miriam504, miss nothing,
MissGiorgi, Miyul1976, MolokoVellocet,
MoulinRouge89, Muty, Mwoshi, nikkei,
Ninriel, nuria elena, opticalspring,
piratessa93, Pirilla, Romancer9, saraechelon81,
Scarlett La Spring, Shanimalrules, Silvia e Aurora,
sleepingwithghosts, so far away, stefaniapisani,
strangeronmars, SunshinePol, Tandla,
TheBlackStar, Titta91, vahu, vale96, vale
mars, Venice93, vittoriabp, Xia1101,
zetavengeance, _giumuddafuggaz, _Loki,
echelon_.
E poi,
naturalmente, un ringraziamento va anche a Kath Redford, che è
diventata una dei miei trailermaker preferiti e sarà da me torturata
nei secoli dei secoli, amen. I suoi (stupendi) lavori sono ammirabili
sul gruppo Facebook Trailer
su richiesta :D, dove potete trovare anche il trailer di
“Portagioie di tristezza”.
E un
ultimo, enorme ringraziamento va anche a Kashmir, che
quattro anni fa, passandomi il link di questo sito, sicuramente non
immaginava di aver appena creato un mostro.
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo primo
Ma chi ha iniziato a
morire non smette mai di farlo.1
Los Angeles, 2 gennaio
2014
«Che cosa sta succedendo, Jay?»
Jared mentirebbe, se
dicesse che quella domanda lo coglie impreparato: lui e Shannon sono
tornati a casa da poco più di dieci giorni e, forse incapaci di
restare soli dopo la frenesia del tour e il casino di cui si sono
circondati negli ultimi mesi, hanno piantato le tende a casa della
madre, raccontandole di non aver voglia di lasciarla sola durante le
feste. Ma se sono due uomini intelligenti e con la testa ben piantata
sulle spalle, è ovvio che da qualcuno devono aver preso: Constance
si è presa tempo, li ha osservati di nascosto, riuscendo a non
scoprire mai le sue carte, e alla fine ha capito che quei due
nascondono qualcosa. Tuttavia, per qualche strana ragione che riesce
ad identificare solo come innata testardaggine, l'uomo tenta la
strada dell'indifferenza. «Sto lavando i piatti, mamma» risponde
facendo spallucce. Non si volta a guardarla, consapevole che gli
occhi lo tradirebbero.
«Sei un ottimo attore, ma
io resto tua madre.» Si appoggia con la schiena al mobile,
incrociando le braccia davanti al petto. «Che cosa sta succedendo,
Jay?» ripete, abbassando ancora la voce. «C'è qualcosa che non mi
dite, e tra noi non ci sono mai stati segreti.»
Jared
sciacqua il bicchiere che tiene tra le mani, indugia su un paio di
forchette e poi decide di lasciar perdere. Appoggia le mani sul bordo
del lavandino, sostenendo per un istante il peso del proprio corpo
con le braccia. Attraverso la finestra sbircia in giardino, dove
Shannon sta giocando con il proprio cane2:
per ovvie ragioni non può portarlo con sé quando sono in tour,
perciò ad ogni ritorno passa ore
a recuperare il tempo perduto. «Che cosa vuoi sapere?»
«Tutto
quello che puoi dirmi. Perché tuo fratello è così giù di morale,
per esempio. E di conseguenza, perché lo tieni d'occhio come se
avessi paura di vederlo sprofondare nel pavimento ad ogni minuto che
passa.» Jared trova finalmente il coraggio di voltarsi per guardarla
negli occhi, e nel suo sguardo legge la sincera preoccupazione di una
madre che non vuole più veder soffrire i propri figli, per quanto
cresciuti e pronti a fare le loro esperienze. «So che c'è qualcosa
che non va, ma non posso aiutarvi se non mi dici nulla.»
«Io non ho bisogno di
aiuto, mamma. Io sto bene.» Guarda di nuovo in giardino: Shannon sta
controllando il cellulare, gesto che ormai ripete ad intervalli
regolari di trenta minuti. «Ma lui...» inizia, interrompendosi
subito dopo. La voce gli si è incrinata come mai è successo prima,
e prima di continuare deve trarre un respiro molto profondo. «Lui
non sta bene. Sono preoccupato per lui.»
«Cos'è successo?»
«Ha conosciuto una
ragazza.»
«Tutto qui? E da quando
conoscere una ragazza vi spaventa?» replica lei con un sorriso. «Chi
è? La conosco?»
Jared scuote la testa.
«L'ha conosciuta in Italia, all'inizio di novembre. Si sono sentiti
per un po', circa un mese, e poi lei è sparita.»
«Sparita...
in che senso?»
«Lo ha lasciato e gli ha
chiesto di non cercarla più.»
«Lo
ha... lasciato?
Stavano insieme?»
«Mamma, è una storia un
po' complicata da raccontare...»
«Beh, io ho tempo.»
Un po' riluttante a
ricordare tutta la storia che Shannon ha deciso di seppellire e che
gli ha chiesto di dimenticare, Jared guarda ancora una volta fuori,
per assicurarsi che il fratello sia impegnato e non lo possa così
soprendere nell'atto di fare la spia. Torna ad immergere le mani
nell'acqua saponata, iniziando a raccontare le cose così come le
conosce lui, certo che alla fine del racconto Constance saprà fargli
dono di un ottimo consiglio.
*
Torino, 2 gennaio 2014
Danilo bussa alla porta
della camera della figlia, aspettando il suo permesso prima di
entrare. «Si può? Volevo chiederti... vuoi che ti accompagni?
Sembra che voglia mettersi a nevicare, e la strada fino a casa di
Stefano è lunga.»
«Non ti preoccupare, mi
viene a prendere qui» risponde Francesca, finendo di chiudere la zip
dello stivale. «Sono contenta che tu non abbia dato di matto quando
l'ho portato qui, sai? Pensavo che la cosa ti avrebbe dato fastidio.»
«Mi ha solo sorpreso un
po', ma... no, infastidirmi mai. È la vostra vita, in fondo. Basta
che tu faccia attenzione e che ti ricordi che per ogni cosa siamo
qui, e a me andrà bene.» Indugia per un istante sulla porta, poi si
fa avanti. «Posso... posso sedermi un attimo? Ti vorrei parlare di
una cosa.»
Francesca
si sposta un po' per fargli spazio sul letto, infilandosi l'altro
stivale. «Se vuoi farmi un discorso di tipo intimo,
non ti preoccupare. Ho già parlato con Daria, mi ha fatto una
paternale migliore di quella che mi potresti fare tu.» Per ovvie
ragioni non ha raccontato al padre proprio tutto
di Stefano, ma sa che tirando in ballo la sorella eviterà ad
entrambi un profondo imbarazzo.
«No, no, io... sì,
insomma, tua sorella mi aveva detto che ti ha spiegato tutto lei,
quindi... sono... sono abbastanza tranquillo. In realtà io... io
volevo parlare proprio di Daria.»
«Ah» è il commento di
Francesca, che per non essere costretta a mantenere il contatto
visivo si alza e va alla scrivania, iniziando a frugare nel
portagioie alla ricerca degli orecchini giusti da indossare. «Perché
vuoi parlare di Daria? È successo qualcosa?»
«Beh, in verità speravo
che questo me lo potessi dire tu. Ultimamente è... non lo so, la
vedo strana. Non so, forse è soltanto una mia impressione, ma...
ogni tanto mi sembra triste, come se qualcosa stesse... la stesse
divorando dentro. E allora sai, mi chiedevo se... beh, se magari con
te avesse parlato di qualcosa. In fondo siete sorelle, ha sempre
avuto più confidenza con te che con me.»
Francesca si volta,
indossando uno degli orecchini scelti. «No, a me non ha detto
niente. Insomma, non è successo nulla di preoccupante, che io
sappia. Non la vedo neanche così giù di morale, se devo dire il
vero. Lei è... lei è Daria, ecco.» Indossa anche l'altro
orecchino. «Forse pensi che sia giù di morale perché sono le feste
di Natale, e lei nelle feste è sempre stata qui. Sai, tipo... non
so, pensi che sia triste perché non è qui.»
Danilo scuote la testa,
tenendo lo sguardo basso e aggrappandosi al bordo del materasso con
entrambe le mani. «No, è... è da molto più tempo che la vedo
così. Da quando è tornata da Parigi. È diversa, è... non so
nemmeno come spiegarmi, accidenti. Non mi sembra la solita, tutto
qui. Magari è successo qualcosa in quel periodo. Nemmeno allora ti
ha detto niente?»
«No, non che mi ricordi. E
se fosse successo qualcosa di importante me lo ricorderei. Magari è
soltanto un po' stressata, no? Sai, tra il trasloco, il lavoro...
capita a tutti di essere un po' stanchi, no?»
«Ma sì, certo... ma sì,
probabilmente mi sono sbagliato. Forse è soltanto un po' sotto
pressione.» Si alza e posa un bacio sulla fronte della figlia
minore, sorridendole. «Scusa se ti ho disturbato, è solo che... io
mi preoccupo per voi, lo sai.»
«E noi siamo felici che tu
lo faccia» sorride lei. Segue la sua ritirata e gli chiude la porta
alle spalle, e immediatamente il sorriso la abbandona. È passato un
mese da quando Daria si è costretta a rinunciare a Shannon, e anche
se non ne hanno mai parlato apertamente, sa che la decisione la fa
ancora soffrire come un cane. Lei ha saputo il necessario da Alice, e
per un mese si è trattenuta a stento dall'urlare in faccia alla
sorella che essere la maggiore non la rende la più saggia, perché
soltanto una stolta avrebbe dato un calcio alla felicità come ha
fatto lei. Si è costretta a tacere, sperando che il segreto potesse
essere annegato dall'indifferenza, ma l'incursione del padre le
dimostra che i segreti non muoiono mai.
Il campanello di casa
suona, distraendola dai suoi pensieri, e suo malgrado si costringe ad
uscire con il sorriso stampato in volto, mentre il cuore somiglia
sempre più ad un oceano in tempesta.
*
Los Angeles, 2 gennaio
2014
«E
non l'ha cercata? Non ha fatto il diavolo a quattro pur di riaverla
con sé?» domanda Constance, sgranando gli occhi per la sorpresa, ma
tenendo sempre la voce bassa. Dov'è
finito il mio bambino, quello che combatteva per ciò che desiderava
fino allo stremo delle forze?
«Sono
preoccupato per lui» sussurra Jared. «Non si è mai comportato
così. Lui... lui è Shannon, ecco. Lui è uno schiacciasassi, è uno
che non si ferma mai davanti a niente. Lui non è così, lui non è
un...» Si blocca prima di dire la parola che stava pensando. Non può
sopportare di ridurre il fratello ad una simile descrizione.
«Stavi
per dire debole?»
«Lo
so che i concetti di forza e debolezza sono relativi, ma è
innegabile che lui sia sempre stato uno forte.
Niente è mai riuscito ad abbatterlo.»
«Proprio
niente
non direi» lo corregge Constance, abbassando lo sguardo. Jared la
imita, ricordando quel periodo buio e nero di molti anni prima,
quell'abisso in cui anche loro sono precipitati, quel lunghissimo
anno in cui nessuno dei tre sentiva di poter tornare a vedere la
luce. «Forse ha solo trovato una persona più forte di lui. C'è
sempre qualcuno più forte di noi, là fuori.»
«Non
Daria» ribatte lui, voltandosi a guardarla. «Insomma, lei non...
lei non sembrava affatto una persona forte. Lei sembrava... sembrava
sempre così fragile. Personalmente, la prima volta che l'ho
incontrata ho creduto che si sarebbe dissolta se solo l'avessi
guardata.»
«Ci sono persone che sono
molto brave a dissimulare il loro vero io. Tu sei un attore, questo
dovresti saperlo.»
«Lo
so, però... non lo so, forse non riesco ad accettare che qualcosa
possa sconfiggerlo. È il mio fratello maggiore, no? L'ho sempre
visto come un'icona, un modello, un eroe! È come se Lex Luthor
riuscisse finalmente ad uccidere Superman. È impossibile da credere,
e la sola idea fa male da
morire.»
«Che cosa ne dice lui?
Insomma, come sta affrontando la situazione?»
«Non dice nulla. E non fa
nulla. Tranne controllare il cellulare ogni mezz'ora per vedere se
lei lo ha cercato. So che lo fa, ma lui non lo ammetterebbe nemmeno
sotto tortura.»
«Chi è che non farebbe
cosa sotto tortura?» Presi dalla conversazione, entrambi si sono
dimenticati di controllare il giardino, e Shannon li sorprende
insieme proprio sul finire dell'ultima frase.
Per fortuna Constance ha
sempre coltivato l'arte dell'improvvisazione, e con un sorriso riesce
a salvare la situazione. «Tuo fratello è sempre il solito. Dice che
non inizierà ad usare la lavastoviglie nemmeno sotto tortura, ma
quando avrà l'artrite correrà da me a cercare conforto e io mi
divertirò da morire a dire 'Te l'avevo detto'. Com'è il tempo
fuori?»
«Non così male. Si è
alzato un po' di vento, ma siamo ancora nella media. Mi mancava
l'inverno californiano» aggiunge Shannon con un sorriso,
accarezzando la testa del cane, che si è drizzato sulle zampe posteriori
e continua ad annusargli le mani alla ricerca della pallina con cui
stavano giocando poco fa.
«Sapete, mi è proprio
venuta voglia di un gelato» esclama lei all'improvviso, guardando
entrambi i figli.
«Mamma, Natale è passato
da una settimana» le fa notare Jared. «Va bene che siamo nella
terra dell'eterna estate, ma non ti sembra di esagerare?»
«Oh, se non sarà un
gelato sarà un frappé. Comunque ho voglia di andare a fare un giro.
Venite con me? Scommetto che anche Bruce ha voglia di uscire»
aggiunge, accarezzando a sua volta il cane. È stato Shannon ad
andare al canile per sceglierlo, ma è stata lei a decidere il nome,
pretendendo che si chiamasse come quello che secondo lei è uno dei
più grandi musicisti statunitensi. «Quando non ci siete andiamo a
fare un giro in spiaggia quasi tutti i giorni, scommetto che gli
manca da morire. È quasi una settimana che non ci andiamo. Che ne
dite?»
«Se è per fare contento
Bruce...» sorride Shannon, facendo spallucce.
«Jared?»
Jared
intercetta lo sguardo della madre, e quello, unitamente al fatto che
abbia usato il suo nome di battesimo, gli fa capire le vere
intenzioni di Constance: lo ha invitato, ma vuole che rinunci,
dandole così l'opportunità di passare un po' di tempo sola con
Shannon, per tentare di tirargli fuori quelle parole che il fratello
non sarebbe mai tentato di pronunciare in sua presenza. «No, andate
pure senza di me. Io devo chiamare Emma, abbiamo un po' di lavoro da
sbrigare.»
«Poveraccia, non la lasci
in pace nemmeno durante le feste» lo prende in giro Shannon,
spostandosi nell'ingresso per cercare il guinzaglio di Bruce. «L'hai
chiamata anche a Natale?»
«Certo, per farle gli
auguri!» replica Jared, asciugandosi le mani e rivolgendo uno
sguardo d'intesa alla madre, che segue Shannon per infilarsi la
giacca e le scarpe. «Copritevi bene, che gira un sacco d'influenza.
Non voglio convivere con i vostri microbi.»
*
Torino, 2 gennaio 2014
«Daria,
ti devo parlare. Quando hai finito puoi venire un attimo di là?»
Marco scompare nel retro, e io resto come pietrificata. Ti
devo parlare
è una frase pericolosa e carica di significati negativi: quando mai
al Ti
devo parlare
segue qualcosa di buono? Ho visto abbastanza film e letto abbastanza
libri da parlare con cognizione di causa, e sono così certa della
mia teoria che le gambe hanno iniziato a tremare non appena ho
sentito Marco pronunciare quelle tre fatidiche parole. Cerco di
svolgere i miei doveri con la solita calma e concentrazione, ma non è
affatto facile: allo scoccare delle sette spengo le luci, chiudo i
conti, scollego la cassa e volto il cartello da 'Aperto' a 'Chiuso'.
Dopodiché cammino fino al retro, restando ferma sulla porta in
silenzio per qualche minuto con lo sguardo fisso su Marco, quasi come
se non mi andasse di stargli troppo vicina.
Marco è, come Jared, uno
di quegli uomini per cui il tempo sembra scorrere in modo diverso,
più lentamente rispetto al resto del mondo: lo conosco da cinque
anni, e se non fosse stato lui a rivelarmi la sua vera età, nemmeno
in un milione di anni avrei creduto che fosse così vicino alla
soglia dei quaranta. Negli ultimi mesi, però, le preoccupazioni
legate al lavoro – la crisi economica, in generale, e la pigrizia
di Carlotta, in particolare – sembrano averlo allontanato dalla
linea della trentina, quella su cui era assestato ormai da tempo, per
avvicinarlo finalmente alla maturità. «Marco, io ho finito» dico,
consapevole che il mio è praticamente un sussurro strozzato, più
che una frase vera e propria.
Nel sentire la mia voce si
toglie gli occhiali e appoggia i libri che stava esaminando sulla
scrivania, per poi venire verso di me a passo lento. Il primo
pensiero, per quanto lo ritenga impossibile, è che stia per farmi
delle avances. «Daria, io ti devo parlare di una cosa importante. So
che sei una ragazza intelligente, dunque sarà molto più facile
farti capire quello che sto per dire.» Dal tono con cui mi parla,
serio e grave, capisco che posso scartare l'ipotesi che ci stia
provando – ma questo non fa diminuire la mia paura. «Immagino ti
sia accorta che in questo ultimo periodo le cose non sono andate bene
come un tempo.»
«Sì, un lieve calo nelle
vendite c'è stato» rispondo. Non sono un'ingenua, so bene che, un
po' per la crisi e un po' per i nuovi modi di leggere, sempre meno
gente si concede il lusso di un buon libro. «Mi sono accorta che non
vendiamo bene quanto cinque anni fa, ma non mi sembra nemmeno che
siamo sull'orlo del tracollo.» O forse sì?
«Ecco, quello che volevo
dirti è che io ho dovuto prendere una decisione importante. Insomma,
con i guadagni minori e il giro d'affari che cala, io... io non mi
posso più permettere di pagare due stipendi.»
Improvvisamente
mi sento come se mi avessero appena colpito in pieno stomaco con una
palla da demolizione, e non sono sicura di conoscere la legge fisica
che mi permette di stare con i piedi ancorati al terreno nonostante
tutto – né, soprattutto, quella che mi permette di stare ancora in
piedi in
generale.
Non ho bisogno di sentire altro: Marco mi sta licenziando. Mi sta
licenziando, e non posso accettarlo. Non dopo aver lavorato per lui
per cinque anni interi, non dopo aver svolto ogni compito che mi
assegnava, non dopo essermi dimostrata, per sua stessa ammissione,
'la miglior commessa che abbia mai avuto'. Ma soprattutto, mi rode il
fatto che stia licenziando me
invece di Carlotta, la donna più pigra, sciatta e ignorante che
abbia mai conosciuto. «Tu non puoi licenziarmi, Marco» riesco a
dire infine, tenendo il tono basso. «Tu non puoi licenziarmi!»
esplodo subito dopo, incapace di tenermi dentro la rabbia e la
frustrazione. «In
questi ultimi cinque anni non ho fatto che vivere e respirare per
questo posto, ho fatto tutto quello che mi chiedevi, ho fatto un
mucchio di straordinari senza mai chiederti nulla, ho coperto i turni
più assurdi, ti ho sostituito alle fiere, ti tengo in ordine
l'archivio, ci manca solo che ti lavi le mutande! E mi licenzi per
tenerti Carlotta? Quella non sa nemmeno scrivere il suo nome, per la
miseria!» Adesso sto deliberatamente urlando, ma non mi importa: ho
passato tutta la vita a lasciarmi scivolare addosso dolori e
ingiustizie, e ne sono stufa. E poi ho sempre considerato Marco come
un amico, oltre che un capo, e non posso credere di aver riposto
tanto male la mia fiducia... proprio io, che impiego così tanto a
concederla. «No, sai cosa ti dico? Tu non mi licenzi. Me ne...»
Non faccio in tempo a
finire la frase che mi afferra le spalle, trattenendomi davanti a
lui. «Ma che hai capito? Dio, volevo farti stare un po' sulle spine,
ma tu ci sei cascata con tutte le scarpe... è Carlotta quella che ho
licenziato. Carlotta, capito?»
«C-carlotta?» balbetto,
senza capire.
«Ho licenziato Carlotta»
ripete, a voce più bassa. «Scusa, volevo prenderti in giro, ma non
credevo che la prendessi così...»
«Scemo!»
esclamo, spingendolo via. «Ti sembrano scherzi da fare?» aggiungo,
dandogli un altro spintone. E lui che fa? Lui ride.
Ride, e il suo volto torna ad essere quello del Marco che cinque anni
fa mi ha assunto, quello del Marco spensierato e allegro che mi ha
sempre trattata da pari. «Mi sono spaventata, sai?»
«Scusa, ma la tentazione
di prenderti un po' in giro era troppo forte. E poi avevo bisogno di
ridere un po'» aggiunge. «E se posso dire la mia, anche tu sembri
avere bisogno di divertirti, quindi ti darò un motivo per ridere. O
per sorridere, almeno. Ti ho dato un aumento.»
«Cosa?»
«Niente di speciale, sono
solo cento euro. Però ho pensato che potessero farti comodo.»
«Certo
che mi fanno comodo. Mi fanno molto
comodo.
Comunque non credere di cavartela così a buon mercato. Resti un
cretino.»
«Lo prenderò per un
complimento. Senti, hai da fare stasera? Pensavo che potremmo andare
a mangiarci qualcosa. Così, per festeggiare. Che ne pensi?»
Fingo di rifletterci su per
qualche secondo, mentre in realtà ho già deciso. «Ci sto. Ma solo
se mi offri la cena. Con la sincope che mi hai causato, direi che è
il minimo.»
«Cosa? Ma se ti ho dato
l'aumento contando sul fatto che avresti offerto tu...» mi prende in
giro. «Dai, prendi le tue cose. Cinese?»
«Cinese, va bene.»
*
Los Angeles, 2 gennaio
2014
Bruce
mi restituisce il bastoncino e mi strofina il naso umido contro i
jeans, facendomi capire che vuole continuare a giocare – so che è
soltanto un animale, e che secondo molte persone gli animali non
hanno sentimenti umani,
ma da quello che ho visto in questi giorni proprio non si direbbe che
quel cane non abbia un che di umano. Dal modo in cui mi sta sempre
appiccicato, senza mollarmi mai, nemmeno quando dormo, si direbbe che
abbia davvero sofferto per la mia lontananza, nonostante sia certo
che mia madre non gli abbia mai fatto mancare nulla. Ma d'altra
parte, anche a me è mancato lui, nonostante la vita piena e i mille
impegni. Torno a lanciare via il legnetto e lo guardo partire
all'inseguimento con uno scatto che nemmeno Usain Bolt saprebbe fare.
«Sai, credo che tu gli sia
mancato» sorride mia madre, guardandolo allontanarsi. «Quando non
ci sei, a volte la sera si intristisce. Se ne sta tutto solo in un
angolo come un cucciolo abbandonato. All'inizio non sapevo che fare
quando gli succedeva.»
«E poi l'hai scoperto?»
«Mi sono dovuta ingegnare,
ma sono riuscita a trovare il modo di farlo sentire meglio.»
«Ah, sì? E come?»
«Gli
facevo ascoltare Convergence.
Non so, era come se sapesse
che l'avevi scritta tu. La ascoltava e... non lo so, stava meglio.
Certo, i primi tempi dovevo fargliela ascoltare a ripetizione, anche
dieci o quindici volte. Per fortuna i vicini sono lontani.»
Continuiamo a camminare, mentre Bruce annusa la sabbia e si guarda
intorno, come esplorando l'ambiente. «A volte sembra quasi umano,
sai? Insomma, forse è solo la fantasia di una vecchia e sciocca
signora sola, ma... a volte mi sembra di avere un altro figlio.
Bisogna dargli da mangiare, fargli il bagno, mandarlo a dormire,
coccolarlo, consolarlo quando è triste...»
«Non sei una vecchia e
sciocca signora sola» replico, stringendole le spalle in un
abbraccio. «E poi sei stata un'ottima madre. Perché non dovresti
essere anche una brava dogsitter?» aggiungo, schioccandole un bacio
sulla tempia.
«Sai, essere un genitore è
un lavoro che non finisce mai. Essere una madre, poi, è ancora più
difficile. Inizia quando scopri di essere incinta e finisce solo
quando muori. O forse non finisce nemmeno lì, non lo so.» Alza la
mano libera per stringere quella che le tengo sulla spalla, e in quel
semplice contatto leggo – io, che non sono mai stato un asso a
capire le persone – che c'è qualcosa di cui mi vuole parlare.
«Insomma, non importa che tu e Jared abbiate quarant'anni suonati e
stiate andando per la vostra strada, io... io continuo a preoccuparmi
per voi.»
«Ma tu non devi
preoccuparti per noi, mamma. Siamo perfettamente in grado di badare a
noi stessi» tento di tranquillizzarla, pur sapendo che il mio tono
manca di convinzione – e se anche la convinzione ci fosse, non
posso dimenticare che lei è mia madre, e riuscirebbe a smascherare
le mie bugie anche bendata.
«Mi
piace pensare che siate forti e imbattibili e che il mondo non vi
possa ferire. Mi piace pensarlo, davvero, però... però lo vedo che
c'è qualcosa che ti sta mangiando dentro, Shannon. Lo vedo da quando
siete tornati. Ce l'hai scritto in faccia che qualcosa non va. Non so
che cosa sia, ma è chiaro che qualcosa... qualcosa ti sta mangiando
dentro»
ripete, voltando il viso verso di me.
Le mie dita scivolano via
dalla sua stretta e il braccio le lascia le spalle. Prendo il
bastoncino che Bruce mi sta di nuovo porgendo e lo lancio ancora,
sapendo di farlo senza troppa energia. «Hai parlato con Jared, vero?
Che cosa ti ha detto?»
«Non
prendertela con lui. Ho dovuto pregarlo
per farlo parlare, e tu sai quanto detesti le suppliche.» Sento che
un breve sorriso mi muove le labbra, perché se ci sono due cose che
mia madre non sopporta sono le suppliche e le falsità – e se mio
fratello l'ha costretta alle prime, per tutto questo tempo io l'ho
sottoposta alle seconde. «Mi ha raccontato della ragazza che hai
conosciuto in Italia. Mi ha detto della vostra... della vostra
storia,
se vogliamo definirla così.»
«Non
è che possiamo proprio definirla relazione.
Non abbiamo mai parlato concretamente della possibilità di stare
insieme. Insomma, non... non abbiamo mai dato definizioni. Non era la
mia ragazza.»
«Forse non ufficialmente,
ma tu l'hai amata. Lo so, Shannon, so che l'hai fatto. Ti conosco, so
che non concedi facilmente il tuo cuore, ma se davvero le cose stanno
come dice tuo fratello, io... io credo che tu l'abbia amata
profondamente. E credo che tu la ami ancora, nonostante tutto»
aggiunge, abbassando la voce.
«Credevo di amarla, ma ho
soltanto preso un abbaglio. Può succedere di sbagliare.»
«Non
a te, però. Né a te né a Jared. Se c'è una cosa che sono felice
di avervi insegnato, è il valore di concedere il proprio cuore con
giudizio.» Tace, forse aspettando una risposta che non sono in grado
di fornirle. «Io ho sbagliato molte volte, ti assicuro che so di che
cosa sto parlando. Ho sempre creduto di non aver avuto abbastanza
amore, e così l'ho sempre cercato nei posti sbagliati, finendo
spesso ferita. Se potessi mostrarti il mio cuore, perderesti il conto
delle cicatrici. Questa è una cosa che a te e a tuo fratello non può
succedere. Voi sapete che cosa state cercando, e sapete anche dove
cercarlo. Questo è il vostro vero talento.»
Bruce
si avvicina per l'ennesima volta, e dopo essere stato per l'ennesima
volta al suo gioco mi fermo, i piedi ben piantati nella sabbia umida.
«Se potessi mostrarti il mio
cuore,
ti stupiresti nel vedere quanto è profonda la mia
cicatrice» sussurro, sapendo che se non serrassi forte le labbra
potrei ricominciare a piangere, esattamente come a Parigi.
«Se brucia ancora così
tanto, significa che a lei tenevi. E se a lei tenevi così tanto,
forse significa che non dovresti rinunciare. Non dovresti gettare la
spugna senza lottare.»
«Lottare...»
ripeto in tono sarcastico. «Io avrei lottato, mamma. Avrei lottato,
credimi. L'hai detto tu, mi conosci, sai che l'avrai fatto. Ma è
stata lei a... mi ha chiesto di non cercarla. Mi ha chiesto di
dimenticarla.
Mi ha chiesto di fingere di non
averla mai incontrata.
Mi ha chiesto di non
lottare.»
«E tu le hai dato retta?
Da bambino faticavi ad obbedire a me che sono tua madre e
improvvisamente cedi alle richieste di una ragazza che conosci da un
mese?» Il suo tono è decisamente incredulo, ma la cosa non mi
stupisce: so che non riesce a credere che io – io, un uomo noto per
non essere mai sceso a compromessi – abbia accettato di buon grado
una simile situazione. Non riesce a credere che sia rimasto zitto e
buono in un angolo ad accettare di passare il resto della vita a
leccarmi le ferite – sinceramente, a volte non riesco a crederci
nemmeno io.
«Era
l'unica soluzione possibile» rispondo, citando senza volerlo la
lettera di Daria. Qualunque altro uomo probabilmente l'avrebbe
distrutta e dimenticata, ma io non ci sono riuscito: l'ho conservata,
e la rileggo un giorno sì e l'altro no, tanto per non dimenticare il
dolore – so che è da masochisti indugiare in una simile pratica,
ma ho paura che se mi liberassi di quei due pezzi di carta finirei
per dimenticare, e io non
voglio dimenticare.
Per quanto sia stato doloroso, per quanto il cuore continui a
bruciare come stretto da una morsa rovente, io non
voglio dimenticare.
«So che sembra crudele da parte sua, ma... l'ha fatto per il nostro
bene. Sarebbe comunque finita, e lei non ha voluto prolungare
l'agonia.»
«Smettila
di parlare come un manuale d'istruzioni, per favore!» esclama,
alzando gli occhi al cielo. «Non esistono due relazioni uguali, e
sicuramente non si può conoscere in anticipo il destino di una
storia. Va bene, forse sarebbe finita, ma chi può dirlo con
certezza? Non ci avete nemmeno provato! Avreste potuto avere un
futuro felice. Il punto... il punto è questo: avreste potuto avere
un
futuro,
in barba a tutti quelli non ce l'hanno fatta. E se fosse finita... va
bene, forse è vero, forse avreste sofferto come cani, ma vi
sarebbero comunque rimasti i ricordi. I ricordi sono... i bei
ricordi sono una delle cose più importanti che abbia l'uomo, sono...
sono una delle poche cose che ti impediscono di non affondare nei
momenti bui, sono una delle poche cose che ti impediscono di non
crollare quando tutto il mondo sembra esserti contro. Così tu...
tu... che cosa avrai, quando arriverà un momento in cui ti sentirai
con le spalle al muro? Ti aggrapperai a quei pochi ricordi che hai di
lei? Avresti potuto avere molto di più, e lo sai. Potresti
avere di più.» Impiego qualche secondo per riprendermi da quella
che è una vera e propria aggressione, ma quando apro la bocca per
ribattere lei mi interrompe: «Va bene, adesso mi calmo. Non sono
affari miei, in fondo. È vero, sono tua madre, ma tu sei un uomo
adulto. Sei adulto e puoi gestire la tua vita senza il mio
intervento. Sarò sempre pronta ad ascoltarti e ci sarò se mai
dovessi avere bisogno di aiuto. E perdonami per quello che sto per
dire, ma... in questo momento mi sembra davvero di aver cresciuto un
idiota.»
Ricaccio in gola le poche parole che avevo pensato di dire e resto
fermo a fissarla con la bocca spalancata. «Adesso è meglio che
ritorni a casa. Sta iniziando a fare freddo.» Si allontana lungo la
spiaggia con le braccia conserte, stringendo ancora il suo bicchiere
colmo di té.
La
guardo andare via senza dire una parola, e senza riuscire a muovere
un muscolo. Bruce, che sentendoci discutere ha rizzato le orecchie,
guarda entrambi con aria confusa, apparentemente senza capire chi dei
due sia più conveniente seguire. Mi siedo sulla sabbia, guardando
fisso verso l'oceano, e in quel momento sceglie di raggiungere me.
Lascia cadere il legnetto accanto ai miei piedi, ma comprendendo che
il tempo dei giochi è finito si stende senza un fiato, appoggiando
il muso sulle zampe con un fare che definirei a dir poco sconsolato.
Lo fisso per un istante, poi torno a guardare davanti a me; mi porto
il bicchiere alle labbra e bevo un sorso di caffè, senza riuscire a
gustarlo appieno. Mi ferisce aver discusso con mia madre, ma non mi
ferisce il suo ultimo commento: so che ha ragione, so che sono
davvero un idiota, perché solo un idiota smidollato si comporterebbe
come mi sono comportato io – o meglio, solo un idiota smidollato
non
farebbe nulla,
come ho fatto io. Solo un idiota rimarrebbe seduto a sperare
che il dolore svanisca, e soltanto un idiota continuerebbe ad
alimentare quello stesso dolore con piccoli gesti come rileggere una
lettera di addio o riguardare le fotografie che lo ritraggono insieme
a quello che capisce essere l'amore più grande della sua vita. Solo
un idiota farebbe questo – e siccome questo è tutto quello che
riesco a fare, significa che mia madre ha ragione, e io sono un
idiota di proporzioni elefantiache.
*
Torino, 2 gennaio 2014
«Dimmi che stai scherzando
di nuovo, ti prego» è l'unico commento che riesco a fare quando la
cameriera appoggia davanti a Marco il riso alla cantonese che ha
ordinato. «Siamo al cinese, niente posate.» Gli sfilo la forchetta
dalle mani, gli requisisco il coltello e consegno tutto alla ragazza.
Poi, per sicurezza, le restituisco anche le mie. «Non ci serviranno,
grazie» le spiego, consapevole del fatto che mi stia guardando come
se fosse certa di avere davanti agli occhi una pazza scriteriata.
«Ma io non le so usare le
bacchette!» protesta lui, agitandomi i legnetti davanti agli occhi.
«Beh, c'è sempre una
prima volta, no? E comunque sei stato tu a proporre il cinese, quindi
puoi prendertela soltanto con te stesso» aggiungo, pinzando un
raviolo al vapore e soffiandoci sopra per evitare di ustionarmi la
lingua. «Su, datti da fare.»
«Ma
è riso!»
protesta ancora, guardandomi con una vera e propria espressione da
cucciolo bastonato.
«Problema tuo.»
«Sei crudele, lo sai?
Forse dovrei revocarti l'aumento, così non rideresti più così
tanto.»
«Dai,
vieni qui» lo incalzo, rimettendo nel piatto il mio raviolo e
prendendogli la mano. «Ecco, devi mettere le dita così» gli
spiego, guidandolo passo passo nell'impresa. «Tieni ferma la
bacchetta inferiore e muovi soltanto quella superiore. Apri la
forbice, pinzi, chiudi la forbice e tiri su.» Mentre lo guardo fare
un primo, goffo tentativo, alla mia mente si affaccia un chiarissimo
– e, inutile dirlo, dolorosissimo
– déjà-vu: in un istante mi rivedo seduta su uno sgabello al
bancone della cucina di casa mia, davanti ad un piatto di spaghetti
al pomodoro e al sorriso di Shannon, che mi prega in tutti i modi per
avere un coltello con cui sminuzzare la pasta. Cerco di non pensarci,
di concentrarmi su altro e di proseguire la cena, ma quell'immagine
sembra non avere intenzione di abbandonarmi. Abbasso la testa e fingo
di grattarmi la fronte, tentando di celare gli occhi, che so essere
tristi e quasi colmi di lacrime, ma non riesco ad ottenere nemmeno un
barlume della naturalezza che bramavo.
«Ehi, che succede? Ho
detto qualcosa che non va?»
«No, no, non ti
preoccupare, è solo che...» Incerta su come proseguire, decido di
affidarmi alle bugie, che mai come in questo periodo mi sono
risultate utili. «Durante le feste sono sempre un po' triste. Sai,
mi viene da pensare che le feste si passano in famiglia, e... ripenso
sempre a mia madre.» Durante tutti questi anni in cui ho lavorato
per lui, mi è successo di raccontargli dettagli della mia vita, tra
cui l'abbandono di mia madre, perciò non ho bisogno di spiegargli
nulla di più. Mi sento malissimo all'idea di mentirgli a questo
modo, ma d'altra parte non è vero che non penso a mia madre, di
tanto in tanto, e a quanto sarebbe stata diversa la mia vita se lei
non avesse deciso di arrendersi.
«Posso
capire. O meglio, posso... provare
a immaginare.
Però secondo me non dovresti lasciare che questo ricordo ti avveleni
così il sangue. Insomma, lei se n'è andata, e ormai sono passati
tanti anni... tu hai comunque una famiglia, anche se lei non ne fa
parte. Non hai motivo di intristirti. Hai qualcosa di speciale,
qualcosa che è solo tuo e che nessuno ti può portare via.»
Conclude con un sorriso, ed è qui che capisco che non sarà mai
soltanto un capo, per me: mi vuole bene, in fondo, e come ogni amico
è sempre pronto a dire una parola gentile, a dare un consiglio, e a
sostenermi quando sto per cadere.
«Ma sì, hai ragione»
decreto, alzando gli occhi con un sorriso. «Non roviniamoci la
serata, dai. Forza, muoviti con quelle bacchette. Non voglio
invecchiare qui dentro!»
*
Los Angeles, 2 gennaio
2014
Sono
rimasto seduto sulla spiaggia per ore, senza rendermi conto del tempo
che passava – e, per la prima volta da quando sono tornato a casa,
senza controllare il telefono ogni mezz'ora. Ho passato ore guardando
l'oceano, cercando di riflettere su quale sia la cosa giusta da fare,
senza trovare una risposta. Mi risveglio dal mio torpore soltanto
quando Bruce mi sfiora la coscia con il naso, chiedendomi attenzione.
«Ehi, bello... che c'è? Vuoi tornare a casa?» In risposta, lui
abbaia e indica il cielo con il muso. Guardo in su, e mi accorgo dei
nuvoloni che hanno coperto il celeste. «Sì, direi che sta per
piovere. Meglio se torniamo a casa, vero? Su, andiamo.» Mi alzo e mi
incammino, tallonato da lui – che però torna indietro dopo pochi
passi. Mi volto per controllare che diavolo stia facendo, e mi rendo
conto che è tornato sui suoi passi soltanto per riprendersi il
bastone. «Ma da chi diavolo sei posseduto, me lo spieghi?» gli
domando, abbassandomi per agganciargli il guinzaglio al collare. Gli
accarezzo la testa, forse aspettando che mi risponda, e poi riprendo
a camminare.
La pioggia ci sorprende per
strada, ma nessuno dei due fa in modo di accelerare il passo:
continuiamo a camminare lentamente, senza fretta, come se sapessimo
che nessuno si preoccuperà per la nostra assenza – anche se questo
non è del tutto esatto. O forse, inconsciamente spero che la pioggia
lavi via tutte le mie pene, tutto il mio dolore, tutto questo senso
di vuoto che sento dentro, e del quale credo non riuscirò mai a
liberarmi. In uno slancio di estremo sentimentalismo – o di estrema
idiozia, non riesco a capirlo – mi chiedo se si possa morire per un
cuore spezzato: perché se fosse possibile, probabilmente io sto già
morendo – e così lentamente da non riuscire nemmeno ad
accorgermene.
1Ma
chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad una frase contenuta nel romanzo
Emmaus,
di Alessandro
Baricco.
2Shannon
sta giocando con il proprio cane.
| Mi pare che un tempo Shannon avesse un cane, uno splendido husky di
cui mi sfugge il nome, purtroppo poi venuto a mancare (se qualcuno
avesse notizie al riguardo, non si faccia problemi a farsi avanti ed
illuminarmi). Non so se abbia avuto altri animali domestici, ma al
fine della storia ho voluto inserire un nuovo cane, un Border
Collie Australian Red
(praticamente il cugino rosso del cane Infostrada =D).
|