Outlast, The Real Story

di ThorinScudodiQuercia
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Manicomio di Mount Massive

Non so bene perché mi trovassi in quella strada un po’ dissestata, non so nemmeno perché avessi deciso di intraprendere questa “spedizione” nel bel mezzo della notte – forse sarebbe stato tutto più semplice con la luce del sole – ma la mail di quel ragazzo mi incuriosiva troppo da poter frenare il mio istinto giornalistico. E così mi ritrovai a raccogliere le mie cose, la mia fidata attrezzatura: un blocco per appunti con fogli esclusivamente bianchi (non sopporto di essere costretto a seguire degli schemi ben precisi), la mia, e sottolineo mia, penna, regalatami da mio padre poco prima di morire, la videocamera insieme a un paio di batterie (non avrei mai immaginato quanto mi sarebbero tornate utili successivamente); nulla di più, nulla di meno. Ero pronto, forse non abbastanza. Dicevo … la macchina ballava a destra e a sinistra per la poca ammortizzazione, facendomi danzare sul sedile; solo la cintura mi impediva di sbattere la testa contro il tetto dell’automobile. Avanzai per circa 500 metri in quella strada di campagna, quando all’improvviso, oltre la cima degli alberi che costeggiavano quello che voleva sembrare un vialetto un tempo ben curato, riuscii a scorgere l’imponente edificio che si stagliava di fronte. Sulla sinistra si ergeva un blocco di marmo con affissa una targa, nascosta in parte dall’edera, che era cresciuta nel corso degli anni, ma comunque leggibile; scolpita a caratteri scuri nel bronzo, la scritta recitava “Clinica Psichiatrica Murkoff di Mount Massive”. Una sbarra, forse un tempo azionata da un inserviente che passava le sue ore della giornata seduto all’interno di quella lugubre depandace sul ciglio della strada, impediva al mio mezzo di proseguire. Decisi dunque di scendere, ma prima diedi una veloce riletta all’unico documento che avevo in mio possesso, la mail di quel povero ragazzo. Dal tono pareva che fosse estremamente urgente un intervento di qualche forza dell’ordine, che però non poteva agire sulla base di un unico e misero documento, dalle poche righe e per di più vago; nonostante questo, quel ragazzo mi ispirava fiducia e il mio innato sesto senso da giornalista non poteva farsi sfuggire un pesce così grosso. Mi riservai un altro minuto per raccogliere le idee e riguardare le poche note che mi ero fatto – o meglio che avevo trovato – a bordo della stampa sulla presunta multinazionale che aveva dato tanto filo da torcere al governo degli Stati Uniti d’America.
...
Decisi di scendere.




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