En
Route
A/N:
Basata
sul corto “A Thousands Words” su YouTube
§§§
A
James piacciono i treni. Il brusio silenzioso, i campi che corrono,
la dose di infinito tra le stazioni.
La
sua canzone preferita suona negli auricolari che indossa, e il sedile
accanto a lui è vuoto. Non è difficile perdersi
nelle tele sfocate
aldilà del vetro. Di solito, quasi sempre, lui guarda fuori
dal
finestrino per l'intero viaggio, concede alla mente l'attimo di
respiro che esige.
Ma
oggi il suo sguardo vaga. Non ha il tempo di contestarlo; l'urgenza
arriva troppo facilmente. Troppo velocemente. Naturale quanto
respirare.
Oggi
alza gli occhi – serve solo un secondo, davvero; solo un
secondo a
per sempre – e vede lei; la ragazza dagli occhi verdi
dall'altro
lato del corridoio, gambe incrociate, ardenti capelli rossi, seduta
con una scatola di varie cose. Le sue dita sono attente intorno alla
macchina fotografica con cui è occupata, e il suo sorriso
è il Sole
a malapena sorto; calmo, gentile, radioso.
James
fissa. Non può evitarlo. La sua occhiata si ferma e si
allunga
indisturbata – svergognata, inconscia – quasi come
per compensare
alla confusione che il suo cuore ha deciso di creare. Un'altra
canzone inizia. Lui non lo nota.
Troppo
spesso pensa che la vita sia troppo stagnante per essere stata
programmata; è scendere alle stesse stazioni negli stessi
giorni e
scrivere gli stessi nomi sugli stessi finestrini appannati. Non l'ha
contemplato troppo – non ne ha ragione, davvero –
ma quando viene
chiesto se il fato sia vero o meno, non c'è molto da
pensarci: non è
reale. Non può esserlo. Ma ora... ora lei alza lo sguardo,
questa
ragazza, per qualche motivo, proprio in questo secondo – e
sembra
che non possa essere stato solo un inutile colpo ad uno dei loro
programmi. Il sorriso di lei non vacilla quando quegli occhi
incontrano i suoi – pineta e ruscello cristallino, niente
può
essere paragonabile – e il cuore di James gli va in gola.
Pensa
che dovrebbe dire qualcosa. Almeno sorriderle di rimando. Alzarsi,
non importa la mano che imminente strofina la nuca o il basso
“ciao”
confuso o la patetica risata nervosa al sorrisetto mezzo divertito di
lei, non importa comportarsi da idiota come è sicuro che
farà,
dovrebbe solo alzarsi e parlarle, chiederle il nome, farlo
accadere –
Il
treno si ferma ed entrambi sussultano. La porta si apre sibilando,
lei prende la scatola e si alza in piedi –
Alzati.
Ora, James, alzati –
Lui
pensa che ci sia una scintilla di rimpianto sul volto di lei mentre
gli passa accanto, le labbra rivolte all'insù ornate di un
sospiro e
un'occhiata passeggera nella sua direzione –
Sta
uscendo, James Potter, dannazione, sta andando via –
Le
porte si chiudono, e lei non c'è più.
James
impreca. Si sta ancora sgridando mentalmente quando nota la macchina
fotografica sul sedile che lei ha lasciato. Non esita; si alza e la
prende.
È
stato sempre conosciuto come quello che viola le regole. C'è
un
debole pizzico alla sua coscienza quando accende la macchina
fotografica quella sera, ma nient'altro.
Anche
quello
è dimenticato quando vede la prima foto. Stessi capelli
rossi,
stessi occhi verdi. Continua; più angoli, più
posti, più momenti
per chiedersi come suoni la sua voce. C'è la foto di un
gruppo di
ragazze che alzano una torta. Lettere rosse in corsivo sulla glassa,
in una grafia sgraziata, dicono 'Bon Voyage Lily!', e sotto
c'è un
disegno da asilo di una figura dai capelli rossi accanto alla Torre
Eiffel. James la fissa un po' più a lungo delle altre.
Lily.
Il
suo nome è Lily.
Sorride
a se stesso. Spinge next.
E
poi – all'inizio non viene processato, i suoi occhi si
sgranano
dietro gli occhiali, il respiro esce in uno sbuffo incredulo
– c'è
una foto di lui. Di lui.
Che guarda fuori dal finestrino del treno, la testa piegata da un
lato, immerso nei pensieri con i denti che mordono l'interno del
labbro inferiore.
Ce
ne sono altre dopo, tutte lui, angoli differenti nello stesso sedile
consunto, gli occhiali che ogni tanto lampeggiano e poi, silente,
assorbito.
Il
suo cuore corre.
Voleva
dirgli ciao? Gli avrebbe detto il suo nome lei stessa se solo lui
avesse chiesto? Si era chiesta come suonasse la sua voce?
Il
giorno seguente lui vaga per Cokeworth sulla motocicletta di Sirius,
mettendo assieme un puzzle con i vari pezzi della sua macchina
fotografica – la macchina di Lily
– mezzo sciocco, mezzo speranzoso.
La
trova di pomeriggio buono.
Beh,
non
la trova. Individua il giusto palazzo dopo un bel po' di ispezione
nella zona, impara che il suo cognome è Evans, impara che
abita
nella stanza 326 di Stardust Hall.
Tranne
che ormai non ci abita più.
“Hai
trovato la ragazza del treno?” Sirius chiede quando James,
che ha
appena parcheggiato, passa per riportargli la moto.
James
si toglie il casco, lo allunga a Sirius. Sorride al niente oltre la
spalla dell'amico e si passa una mano tra i capelli già
arruffati.
“Circa.”
Sirius
ghigna. “Non vedo l'ora di incontrarla,” dice,
lasciandogli una
pacca sulla schiena. “Sei fottutamente cotto.”
E'
seduto sul bordo del letto, girando e rigirandosi la macchina
fotografica in mano. Non riesce a dormire.
C'è
l'immagine di lei che si allontana, con quella scatola di cose e il
piccolo sorriso sulle labbra e quell'ultima occhiata rammaricata che
lo
uccide,
e ha superato le immagini che i sogni hanno rubato alla macchina.
Lily.
Con
un gemito, crolla nel letto, a braccia aperte, e fissa il soffitto.
La macchina fotografica rimbalza dalle sue dita sul materasso.
Lily
Evans.
La
notte filtra dalle finestre, e la sua mente sta decidendo. Piuttosto
all'improvviso, si alza, afferra gli occhiali e il cellulare dal
comodino, e compone il numero di Sirius.
Lui
ha a malapena urlato in un sussurro il proprio rimbrotto -meglio
che sia qualcosa di fottutamente buono, Potter-
quando James dice (mezzo sciocco, mezzo speranzoso):
“Partiamo per
Parigi.”
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