24/07/2014,
Roma
Ore 18.40 – The start of it
That’s the end, and that’s the start
of it
Lei
Sono passati un sacco di mesi, riflette,
mentre aspetta che si aprano i cancelli, e sta fumando l’ennesima sigaretta del
pomeriggio, e fissa distrattamente un punto a terra, oltre la transenna. Si sta
già divertendo, parla e ride con delle ragazze con cui aveva solo scambiato
qualche messaggio, e che invece le sembra siano vecchie amiche. Avevano un
braccialetto rosso, come segno distintivo; ma pensa che si sarebbero comunque
riconosciute.
Brian è sempre più dentro di lei, e
sa che questo si vede. Ma non in superficie – certo, il caschetto nero e gli
smoky eyes e il tatuaggio potrebbero farlo credere, ma quella è solo una
maschera. Per trovarlo davvero, deve avventurarsi nel profondo, talmente che
fino a pochi mesi prima non ci si era mai avvicinata, a quei confini. Confini che
Brian ha violato, dapprima solo con la voce, e poi con il resto, una bellezza
dolce, senza essere stucchevole, e amara, come una cosa che desideri più di
ogni altra, ma che non potrai mai permetterti. Gli occhi, il sorriso, sono armi scontate,
anche se notevoli; c’è qualcosa di molto meno evidente in lui, che fa
infliggere loro delle ferite pesanti, che non vuole che guariscano, e che guarda
orgogliosa come trofei di guerra. Dio, grazie che mi hai mandato l’amore e la
morte attraverso Brian. Grazie per la musica, per le parole, e grazie perché
con loro mi sento più forte, perché cerco di cantare, parlare, e guardare il
mondo come farebbe lui, e so di aver sempre voluto essere così, anche se non
sapevo perché.
Qualcuno si affaccia al cancello e
fa le raccomandazioni di rito, spiega che dovranno camminare in fila per due
per avvicinarsi al palco, si, come no, vuoi che nel frattempo cantiamo una canzoncina?
Ora corri, Forrest, corri. Ha le
sue comode sneakers ai piedi, e ce la può fare. Il concerto di due giorni
prima, a Milano, ha decretato la morte delle decisioni sagge, che l’hanno
sempre portata a comprare il biglietto in tribuna. Con un po’ di fortuna può
raggiungere la transenna, prima o seconda fila, perché sono passati un sacco di
mesi, e può reggere Brian a una decina di metri da lei.
Peccato, un coscienzioso operaio ha
posato sul terreno una canalina, a proteggere cavi elettrici, probabilmente. E
la giudiziosa, protettiva canalina crea un piccolissimo rialzo, solo pochi
centimetri, esattamente quelli che servono a piegarle la caviglia. Addio prima
fila, pensa prima ancora che il dolore arrivi al cervello. Addio concerto,
pensa subito dopo. Alza una mano, dubita che qualcuno si avvicinerà prima di 5
minuti, che sono quelli necessari a occupare le posizioni chiave davanti al
palco, microfono destro, microfono sinistro, e il resto a seguire, per tutti
quelli che “soprattutto per la musica”.
Lei ama la loro musica. Lei adora
la loro musica. Ma avrebbe voluto rivederlo da vicino, ora che sono passati
tutti quei mesi.
Lui
Sono passati un sacco di mesi,
riflette, mentre aspetta che arrivi l’ora di salire sul palco, e sta fumando
l’ennesima sigaretta del pomeriggio, e fissa distrattamente un punto a terra,
nella sua dressing room.
Brian da qualche tempo ha ritrovato
Stefan, ed è felice. Almeno, non così infelice da doversi ammazzare di alcool
tutte le notti. Le medicine, di quelle ha ancora bisogno, ogni tanto. Ora, ad
esempio, si sente mortalmente stanco, così stanco da non avere la forza di
alzarsi da quel piccolo divano, in quella piccola stanza, in cui dovrà
diventare ancora una volta il bellissimo frontman dei Placebo, una maschera
così perfetta da far dimenticare la sua statura, e i pochi capelli, e i chili
che ha messo su.
Non ha la forza di alzarsi sulle
gambe, figurarsi quella di uscire da lì, cantare e muoversi per quasi due ore.
E ne ha voglia, davvero, ma non ne ha la forza. Decide che la cosa migliore è
provarci comunque, ed andare in infermeria. Meglio che a dargli qualcosa che lo
tiri su sia un dottore, piuttosto che chiederlo ai ragazzi. Oh, glielo
darebbero, nessuno di quelli che ha intorno, per amore, paura o interesse, ha
mai la forza di negare qualcosa a Brian. E Brian, invece, avrebbe tanto bisogno
di avere intorno qualcuno, che sapesse cosa è meglio per lui, più di quanto non
lo sappia lui stesso.
Ore 19.05 – Come undone
You don’t know what you’re coming
across
You don’t know who you’re coming
across
You don’t know how you’re coming
across
So you
come undone
Lei
Quando a gennaio era uscita la data
di Roma, gli era sembrata una coincidenza incredibilmente affascinante. Lei era
stata a Parigi, il 10 dicembre; e quel concerto a Roma, il giorno del suo
compleanno, sembrava un sogno. Ora, l’hanno portata in infermeria, ed è
sdraiata su uno dei lettini, il piede gonfio e oramai inservibile.
Bel regalo del cazzo. Il concerto avrebbe
continuato ad essere un sogno, a giudicare dal dolore. Che male, il piede. Non
lo vedrà ancora, quell’uomo di cui si è innamorata, quando ha sentito che
l’aveva cambiata, l’aveva resa quella che era veramente, spogliandola di modi
di fare e di essere assurdamente convenzionali e conformisti. E a cui sente di
assomigliare in tantissime cose, per quello che si dice di lui. Il sarcasmo,
cattivo, con il sorriso sulle labbra. Il linguaggio forbito, mescolato spesso e
volentieri ai vaffanculo, alle persone e ai comportamenti che non le piacciono.
Non prendere sul serio niente, ridere delle regole, a parte quelle che mette
lei. I cambi improvvisi di umore, e il vestirsi di nero per sentirsi veramente
a posto. L’età che passa e dentro, sentirsi sempre degli adolescenti. Il fisico
minuto e androgino, e il trucco perfetto, provocante senza essere volgare. Un
sorriso, leggero, insieme ad uno sguardo che sa di sesso. Ecco perché lo guarda
continuamente; come in uno specchio magico, in cui vede se stessa, come avrebbe
sempre voluto essere.
Lui
Brian ha trovato l’infermeria, ma
dentro non c’è nessun dottore. C’è una ragazza sdraiata sul lettino, una mano
sul viso atteggiato ad una smorfia di dolore. Brian le si avvicina, mentre la
mano le scivola via dal viso e cerca di alzarsi, e si trova davanti un clone, una
ingenua, anche se piacevole, imitazione di se stesso; e lui stesso si sente
improvvisamente una imitazione di sé, 20 anni prima.
Lei
Apre gli occhi, spalancandoli
appena. “Noi ci siamo già visti.”, le dice Brian. Visti, si. E sentiti. A Parigi, una mattina di
dicembre. “Era il giorno del mio compleanno.” Che memoria, mr. Brian Molko dei
Placebo.
Brian le sorride, senza aggiungere
altro, e lei abbassa la testa. Sarebbe il momento di flirtare, attività in cui
è bravissima, ma in quel momento non è pronta a farlo, non è pronta nemmeno
dopo tutto quel tempo.
Brian abbassa gli occhi un momento,
senza smettere il sorriso complice, ma non la guarda più, e lei ricomincia a
respirare normalmente. Poi torna a parlarle, indicando il piede: “Fa male?
Posso fare qualcosa?” Si, grazie. Portami a casa, e facciamo l’amore. “No, ma
grazie per averlo chiesto.”
“Vuoi bere? Acqua?” Indica il
distributore di bibite, sul corridoio. Lei annuisce, brevemente, e volge la
testa dalla parte opposta, verso una parete. Vuota, grigia, molto più
rassicurante degli occhi di Brian. “Magari una Coca. Oggi sono io a compiere
gli anni.” E fa segno con le mani, 4,2. Brian alza le sopracciglia, e sorride
divertito. “Accidenti. A 24 anni, puoi avere il mondo in mano.” E lei ride, con
lui, e questo lasciarsi andare rompe gli argini che credeva d’aver costruito, mentre
capisce che è di nuovo perduta.
Ore 19.25 – Protect me from what I want
Wedding bells ain't gonna chime
With both of us guilty of crime
And both of us sentenced to time
And now we're all alone
Lui
Brian ride insieme a lei, e d’un
tratto ricorda tutto, ricorda perché l’ha invitata nella sua camera. Per
divertirsi, certo. Per stare bene, anche se solo per qualche istante, certo.
Perché chi lo faceva stare bene tutti i giorni, tutte le notti, non c’è più
ora, e, panta rei, non ci sarebbe
comunque. Ma quel modo di fingere che lui non sia Brian Molko, e fingere di non
essere vittima del suo personaggio, e farlo sentire solo Brian, e farlo sentire
colpevole solo di quello di cui effettivamente ha colpa, come chiunque altro, è
qualcosa che gli ricorda, vagamente, quello che ormai è un altro fantasma nel
suo passato.
Vorrebbe farle un regalo, per
ricambiare in qualche modo quella sensazione effimera di normalità e di
benessere che gli ha regalato. Ma non ha nulla, non la conosce, non conosce i
suoi gusti e ora che ci pensa, non sa neppure il suo nome.
Lei
Una storia con Brian deve finire
male. Una fine amara è il tributo inevitabile alla legge per cui nell’Universo,
tutto deve bilanciarsi. Brian è il serpente che ti incanta con la voce, senza
che tu sia cosciente di quanto ti costerà. Brian ti inonda di filastrocche fino
ad un attimo prima di scomparire. E tu lo seguiresti ovunque, su qualunque
strada, anche se è chiaro che non vi porterà da nessuna parte, anche se
assomiglia ad un labirinto e non hai nessun filo in mano e non fate altro che
andare e venire, come un’onda lenta e irrequieta, mentre credi di vedere
l’uscita, e invece ci sei sempre più dentro.
Perciò ora, davanti a lui, sa
esattamente che si trova davanti ad un bivio, e che un cartello indica a grandi
lettere: inferno. Sa che se lui dirà ancora qualcosa, o si avvicinerà solo di
un altro centimetro, crederà di nuovo al paradiso, un attimo prima di bruciare.
Mentre pensa queste cose, Brian le
si avvicina, lento, e posa le labbra sulla sua guancia, abbastanza lontano
dalla sua bocca, da essere considerato un bacio perfetto, per augurare buon
compleanno ad un amico, e abbastanza vicino, da farle avere un fremito.
Poi si stacca, e la guarda negli
occhi. Aspetta. Non andrà oltre, se lei non farà niente. Ma, di fatto, non ha
scelta, quell’unico, innocente tocco la sta facendo già tremare. Ha chiuso gli
occhi, scostandosi un po’ indietro, verso il muro, in cerca una difesa da
quella scossa che l’ha attraversata, sapendo di essere la regina degli
ipocriti. Lei vuole morire, di quella scossa. E si avvicina di nuovo, gli occhi
nei suoi, e cerca le sue labbra e lo bacia piano, dicendogli in silenzio che va
bene, va tutto bene, non deve preoccuparsi di nulla perché il mondo ora è
perfetto e per tutto il resto ci sarà tempo.
Ore 23.50 – A million little pieces
It’s way too broke to fix
Lei
Ricorda d’aver preso un antidolorifico, forte, che le hanno dato in
infermeria. Deve essere stato quello che le ha creato quella nebbia in testa,
rotta solo da qualche lampo. Brian che la sostiene, mentre attraversano il
corridoio, verso il suo camerino. Brian che chiude la porta. Lei che si stende
su quel divano, piccolo, comunque nessuno dei due è un gigante e li ci si è
sentita bene; sta cercando di ricordare, se si è mai sentita più a casa di
quando è stata tra quelle braccia, su quel piccolo divano.
Sta cercando di ricordare. Ma l’antidolorifico è forte, il piede non fa
più quasi male, il cuore, invece, è a pezzi, in un modo che non sa se si potrà rimetterlo
insieme.
Non perché Brian abbia fatto qualcosa di sbagliato, si è steso piano
accanto a lei e ha cercato in tutti i modi di essere delicato, di non farle
male. Senza riuscirci, ma senza volerlo. E’ sempre stato quello, il problema.
Alla fine, era talmente ridicolo pensare di fargli credere che era tutto a
posto, che ha dovuto accettare la sua offerta, e il concerto lo ha visto,
seduta, a pochi metri da lui. Ora la voce, e i movimenti, e quelle mani sulla
chitarra rossa, non potrà toglierseli più dalla mente, nemmeno pregando di
poterlo fare.
Lui
Il concerto è stato perfetto. Ecco, questo è il suo problema. Ha portato tutte le sue esibizioni allo stesso,
altissimo, livello. Ogni imprevisto, ogni sbavatura, è stato eliminato o
nascosto sotto uno spesso strato di make-up. Troppo, Brian non c’è più, su quel
palco. It’s killing time, e a tagliarsi
la gola è rimasto solo un attore. E questo, anche chi è in prima fila, lo ha
capito benissimo.
Stupido, arrogante Brian.
Sarebbe stato facile rendere immortale il tuo mito. Hai voluto tornare
sulla Terra, vivere una vita normale, ma questa ti ha ucciso.
Piccolo, ingenuo Brian.
Nessuno ti vuole veramente ora, avrebbero preferito mille volte che
rimanessi per sempre Nancy Boy.
Lo sai perfettamente, mentre ti togli il trucco, la mano che si muove
lenta, l’odore forte di sigaretta dentro quella cazzo di minuscola stanza.
Si sdraia sul divano. Domani, riposo. E poi un altro concerto, ecco a
voi, signore e signori, mr. Brian Molko dei Placebo di Londra, che viene in
pace.
Si sta comodi, su quel divano. Sul cuscino un profumo, che non è il suo.
Non sa neppure il nome, e non ci saranno conseguenze, non ci saranno
complicazioni, c’è stato solo sesso, perciò è stato perfetto.
Come il suo prossimo concerto.
Ore 00.25 – Every you, every me
Because there’s nothing else to do
Every me, and every you
Lei
E’ stato egoista, a tratti rude,
Brian, ma è stato del buon sesso. E questo dovrebbe farla felice, è comunque
qualcosa che ha condiviso con lui. E’ qualcosa di minuscolo, d’accordo. Di
insignificante.
Qualcosa che non dovrebbe sentire
dentro, ora, come l’innesco di una bomba.
TIC, TAC. TIC, TAC.
Lui
TIC, TAC. TIC, TAC.
Da una mezz’ora, guarda fisso il
display del suo cellulare, che segna il tempo come un vecchio orologio
analogico, facendo lo stesso rumore cadenzato, rassicurante.
Ora però smetti di pensarci, si
impone, alzati e fatti una doccia.
Lei
Lei è sotto la doccia, e si guarda
il tatuaggio. “E’ la cosa più stupida che potessi fare”, le ha detto, lo
sguardo duro, la bocca tirata in una linea sottile, sprezzante. A parte
rivolgerti ancora la parola, e seguirti nel Paese delle Meraviglie per la
seconda volta, no? A parte quello, si, il tatuaggio è stata una cosa molto
stupida. Le chiederanno per tutta la vita che cosa significa. Equilibrio, significa
equilibrio, dirà.
Invece, è solo il ricordo di quando
una volta si è trovata davanti ad un bivio, e l’istinto le ha detto di seguire
una strada, ed ha camminato senza sapere dove stava andando, finché non è
andata in pezzi.
L’antidolorifico doveva essere
molto forte, perché non ricorda quasi altro di quello che si sono detti in
quella stanza. Ma ricorda bene quello che si sono detti dopo, perché non c’è
nulla da ricordare. E’ stato più facile della prima volta, perché in fondo non
si aspettava nulla, ed aveva già esaurito tutto l’odio che si può provare verso
chi si ama senza essere amati, e non c’è stata gelosia, non c’è stata rabbia, e
non c’è stato quel senso di ubriacatura degli amori che scoppiano violenti.
C’è stato solo sesso. Perché non
c’era nient’altro da fare.
Lui
Non c’era nient’altro da fare,
Brian lo sa. Lo sa, di non essere in grado di dare nient’altro, ora; chissà se
è stato mai diverso, si dice con amarezza, e in tutti i casi, è stato tanto
tempo fa.
Si domanda se anche lei, ora, è
sotto un getto d’acqua calda, per pensare ancora a quello che è successo, o per
togliersi di dosso la sensazione di essersi buttata via, per la seconda volta.
Poi esce dalla doccia, e mentre si
asciuga lentamente, guarda lo specchio appannato che ha davanti. E pensa che
no, non c’era nient’altro da fare.