Era l’ennesima giornata di lavoro, una delle classiche,
in cui Bones non poteva esonerarsi dal rimanere rinchiusa in ufficio
sino a tardi
Era l’ennesima giornata di lavoro, una delle
classiche, in cui Bones non poteva esonerarsi dal rimanere rinchiusa in
ufficio sino a tardi. Sapeva che le piaceva, e solo per quello non le
diceva nulla, ma notava quanto poi fosse stanca nel momento in cui
finalmente decideva di alzarsi dalla scrivania.
Booth non sapeva cosa fare: vietarle di rimanere seduta in ufficio un minuto di più, o andarsene e lasciarla tranquilla?
Alla fine optò per la seconda opzione. Sapeva
che in caso contrario lei comunque non lo avrebbe ascoltato, quindi era
meglio stare zitto per amore del quieto vivere.
Se ne andò silenziosamente cercando di non
farsi notare e di non disturbarla. Spense tutte le luci e chiuse tutte
le porte, tranne quella di ingresso. Ma sapeva che era inutile: era
certo che il mattino dopo, a qualsiasi ora avesse deciso di venire in
ufficio, l’avrebbe trovata nella stessa posizione in cui ora la
stava lasciando. Era suo solito dormire in ufficio, quando faceva
tardi. E gli sembrava abbastanza stanca da non avere la voglia di
mettersi al volante.
Sospirando rassegnato lasciò la sua collega nel silenzio notturno del laboratorio.
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D’improvviso Bones sentì le palpebre farsi pesanti. Le sembrava di non riuscire a tenere gli occhi aperti.
Solo un minuto, pensò allora.
Avrebbe posato la testa su quella scrivania solo per un minuto, giusto
per farsi passare quell’improvviso senso di stanchezza,
pesantezza e malessere.
Fu un incubo a svegliarla.
Si destò tremante, con rivoli di lacrime che le scorrevano, leggere e impalpabili, lungo le guance, gli occhi spalancati.
Aveva appena fatto un sogno orribile.
Come le era sembrato reale tutto quel sangue! Tutto quel sangue di
Booth, colpito al petto. E lei, incapace di aiutarlo.
Si alzò dalla sedia e
girovagò per la stanza con frenesia, cercando di calmarsi e di
cancellare dalla mente quelle orrende immagini. Si sfregò gli
occhi stanchi e si massaggiò le tempie, ma dietro le palpebre
chiuse continuava a vedere lui, e solo lui, disteso in una pozza di
sangue. Andò in bagno a risciacquarsi la faccia, e decise che
probabilmente dormire a casa sua, nel suo letto, avrebbe potuto essere
di aiuto.
Senza controllare in che stato fosse
il suo viso, e senza che gliene fregasse veramente qualcosa, spense il
computer, prese chiavi e cappotto e si diresse vero la porta.
Voltandosi solo un istante indietro pensò a quanto le piacesse
il suo lavoro. Amava quell’ufficio, amava passare le ore seduta a
quella scrivania. Ma visto che anche il troppo stroppia, in quel
momento non si sentiva affatto in colpa a tornarsene a casa, nonostante
tutto il lavoro che ancora le restava da fare.
Chiuse le porte principali di vetro ermeticamente e si diresse verso l’ascensore.
Dalle finestre vedeva la notte che
l’aspettava, di fuori. Limpida, pulita, senza nuvole, fievolmente
illuminata dalle luci della città, non troppo vicine da
costituire un fastidio per la vista di chiunque avesse guardato la
città dalle finestre del Jeffersonian Institute.
L’ascensore arrivò gentilmente al piano senza produrre il benché minimo rumore.
Salì e premette il pulsante di
discesa al piano seminterrato. La cabina si mise in moto altrettanto
silenziosamente, e lei chiuse gli occhi per godere di
quell’istante di assoluta pace.
Arrivata a destinazione, si diresse
verso il parcheggio sotterraneo frugando, nel mentre, nella sua borsa.
Prima di raggiungere la macchina si accorse però di non avere
con sé il cellulare, né tanto meno le chiavi del veicolo.
Era costretta a tornare indietro.
Per un semplice impulso agonistico
non tornò in ascensore, ma se la fece a piedi. Si accorse troppo
tardi di essere troppo stanca, e di avere i riflessi inutilizzabili per
permettersi una corsa su per le scale per così tanti gradini.
Arrivata in cima al primo piano poggiò male la gamba, e non
riuscì ad impedirsi di cadere all’indietro. Ruzzolò
per diversi metri, fino al pianerottolo mediano, e lì giacque
dolorante per diversi minuti, incapace di muoversi. Gemette di dolore
quando si toccò il polso. Lo esaminò con tutta
l’attenzione che riuscì a racimolare, che non era poi
tanta, e ne diagnosticò momentaneamente la frattura. Frustrata,
usò il braccio sinistro, quello illeso, per fare leva sul
corrimano ed alzarsi, ma anche la caviglia destra era ridotta male.
Colta di sorpresa da dolore lancinante che le attraversò la
gamba intera, si lasciò cadere a corpo morto.
Era ridotta non bene. Eppure doveva
raggiungere assolutamente il suo ufficio, dove si trovavano sia il
telefono che il cellulare. E per raggiungerli non poteva, e non
riusciva, a fare altro che trascinarsi sulla gamba e sul braccio sani.
Fu un percorso interminabile,
doloroso e terribilmente spossante, ma alla fine riuscì ad
arrivare. Prese immediatamente il telefono e compose un numero. Era
notte inoltrata, ormai, ma sapeva, quanto e forse meglio di lui, che ci
sarebbe stato per lei sempre e dovunque, qualunque fosse l’ora
del giorno - o della notte.
"Booth" rispose lui con voce stanca, assonnata, ma non addormentata. Non stava ancora dormendo.
"Sono io."
"Bones!" lei sentì quella voce
calda e mascolina riempirsi di apprensione. "E’ l’una di
notte! Cosa c’è, è successo qualcosa?"
"In effetti sì. Sono caduta. Stavo..."
"Caduta?" la interruppe lui con
l’ansia nella voce. "Dove? Dove sei ora? Dimmi subito dove devo
venirti a prendere. Sei ferita? Stai bene? Riesci a camminare?"
"Booth, calmati" sorrise lei "sto
bene.... quasi. Ho solo qualche problema a camminare, altrimenti non ti
chiamerei. Avrei bisogno..."
"Non dire nient’altro, Bones. Sto arrivando. Dove sei? Ancora al Jeffersonian?"
"Sì, io..." ma
s’interruppe. Booth aveva già chiuso la comunicazione. Lei
sbuffò, temendo di non aver gestito bene quella telefonata, ma
ormai non importava più. Si accasciò sul pavimento,
gemendo dal dolore, e lasciò cadere il cellulare. Si sarebbe
volentieri addormentata di nuovo, esattamente dov’era. A parte il
dolore, c’era una quiete che raramente si respirava in quel posto.
Eppure non poteva.
Doveva raggiungere in qualche modo l'ascensore e tornare al piano terra. Doveva raggiungere Booth, che stava venendo da lei.
Il suo Booth. Sempre lì, sempre lui.
Scacciò quei pensieri scomodi
dal cervello, cercando di concentrarsi sul corridoio che doveva
percorrere. Le veniva il magone a pensare alla strada da fare: il polso
e la caviglia insieme la facevano gemere dal dolore, regalandole fitte
intense e spietate che le procuravano silenziose e solitarie lacrime.
Si era messa a piangere dal dolore senza neanche rendersene conto.
Quando se ne accorse le asciugò con un gesto rabbioso del
braccio sano. Non voleva che Booth la vedesse così. Era
già abbastanza fragile, per la malaugurata situazione in cui era
andata a cacciarsi.
Arrivata davanti all'ascensore,
aprì le porte e vi si trascinò dentro. Schiacciò a
fatica il pulsante del piano terra e, sfinita dallo sforzo, si
accasciò sul pavimento. Non riusciva più a muovere un
solo muscolo. Chiuse gli occhi, rimpiangendo in quel momento di non
essere nel suo letto, sotto le coperte calde e confortevoli, a leggere
quel libro che agognava da settimane di riuscire a finire.
E poi successe.
Perché le cose non accadono
mai per caso. Perché se quello è la tua giornata storta,
puoi star pur sicura che nulla ti lascerà in pace. Perché
se sei stanca, sfinita e sfibrata da una giornata pesante, devi essere
certa che dietro l'angolo c'è qualcosa pronto ad aspettarti.
L'ascensore si bloccò. Le luci al suo interno si spensero, e il ronzio del motore cessò di farsi sentire.
Bones aprì gli occhi. Era
completamente immersa nel buio. Lo spiraglio rimasto aperto fra le due
porte le regalava un minimo di luce, ma solo in un punto troppo alto da
raggiungere, per il suo polso mal ridotto. Era ferma fra due piani, e
ridotta com’era tentare di aprire manualmente quelle porte non
sarebbe stato altro che uno sforzo inutile.
Fu a quel punto che l'angoscia che le
premeva il petto da diversi minuti proruppe, rompendo gli argini
già fragili della sua ormai solo apparente rigidità e
portandola sull'orlo di una crisi di portata non poco rilevante.
Singhiozzava e gemeva, sentendosi incredibilmente ridicola e, al
contempo, desolatamente sola.
Quanto tempo ci metteva? Perché non era ancora arrivato?
Dannazione a lui.
"Booth..." sussurrò al buio, al vuoto, al nulla. "Dove diavolo sei?"
Singhiozzò di nuovo, e le vennero in mente ricordi poco piacevoli della sua infanzia.
Non aiutava, non l'aiutava per nulla.
Chiudendo nuovamente gli occhi si
rassegnò all’attesa, conscia di quanto le pesasse sul
cuore quella forzata immobilità, quel dipendere
dall’altrui aiuto, doversi fidare di una persona che solo
fortunatamente era affidabile e presente. Che solo fortunatamente era
Booth. Ma le pesava comunque, animale selvatico quant’era lei. E
non apprezzava quel suo improvviso bisogno, quella sua improvvisa
necessità del suo appoggio. La faceva sembrare debole e indifesa.
Un suono improvviso le fece aprire gli occhi di scatto.
Un rumore lontano, ma che si faceva sempre più vicino. Un suono continuo e veloce.
Suono di passi.
Qualcuno stava arrivando.
Era lui, e non aveva bisogno di
aprire gli occhi per vederlo. Ogni suo lineamento e tratto del viso era
già impresso a fuoco ed indelebilmente nella sua memoria.
Lo sentì arrivare precipitosamente nel punto in cui le porte elettroniche dell’ascensore erano rimaste semichiuse.
Percepì il suo sguardo su di sé. La stava fissando, lo percepiva nell’aria.
E allora ogni suo muscolo si rilassò improvvisamente.
Non era più sola. Era venuto, venuto da lei. Non aveva bisogno d’altro.
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Uno spiraglio fra le porte. Era tutto ciò che aveva, tutto ciò che poteva vedere di lei.
Il capo chino, il corpo mollemente appoggiato alla
parete antistante, Bones sembrava apparentemente privata della vita in
ogni fibra del suo essere.
Doveva andare da lei. Subito.
Provò ad aprire le porte manualmente, ma
dovette desistere in fretta. Lo sforzo era troppo, per le sue braccia
ed i suoi muscoli. Andò allora in cerca di qualcosa, un
qualsiasi oggetto, con cui provare a far leva. Tornò sui suoi
passi, negli uffici e sulla piattaforma. Alla fine trovò un
bastone d’acciaio, la cui natura, lo scopo e il metodo
d’impiego gli erano completamente sconosciuti, e con esso si
diresse di nuovo all’ascensore.
Stavolta Bones aveva gli occhi aperti e lo guardava.
Dritto negli occhi, lo sguardo di lei puntato diretto e preciso verso di lui.
Perché ora sentiva quella strana sensazione alla bocca dello stomaco?
"Bones, riesci a sentirmi?" le urlò.
Lei, mesta, fece un semplice cenno del capo in senso affermativo per fargli capire che lo aveva sentito.
"Non muoverti, non fare il minimo movimento. Ora ti tiro fuori di lì."
Nessuna risposta. Lei chiuse gli occhi e
appoggiò il capo alla parete. Il colorito del viso era pallido e
smunto, tendente al grigio. Sembrava come morta, cristallizzata in
quell’immobilità… o ad un passo dalla tomba.
Avrebbe voluto abbracciarla in quel preciso momento,
ma non poteva. Non ancora. Prima doveva raggiungerla. Facendo leva con
il nuovo strumento appena procurato, Booth diede sfogo ad ogni briciolo
di energia rimastagli in corpo per tentare di aprire quelle dannate
porte. Alla fine fu lui ad avere la meglio e, con lentezza disarmante,
aprì finalmente l’uscita. Facendo attenzione a non caderle
addosso, si calò piano nell’abitacolo, le si chinò
accanto e ne valutò attentamente le condizioni fisiche.
"Bones…" le sussurrò "come ti senti?"
"Acciaccata" fu la mesta risposta.
Con estrema delicatezza, più di quanta avesse
mai pensato di possederne, le prese il polso malmesso, lo
studiò, lo soppesò e ne valuto il danno. Fece lo stesso
con la caviglia, ma stavolta una ruga di preoccupazione gli
corrugò la fronte. Avrebbe dovuto essere medicata al più
presto, se voleva non avere problemi più seri.
"Bones, adesso dobbiamo uscire di qui. Dovrò prenderti di peso e issarti lì sopra. Pensi di farcela?"
"Non chiedermelo. Devo farlo. Mi basterà saperlo."
"Sapere cosa?"
"Che se voglio uscire di qui devo farcela. Se non ne fossi convinta è probabile non ci riuscirei."
"Va bene. Non preoccuparti, Bones. Ce la faremo, ne
usciremo. Insieme." Sottolineò l’ultima parola,
caricandola di significato. Ma era così. O insieme, o non ne
sarebbero usciti.
Si girò, dandole le spalle, e si chinò ancor di più.
"Avanti" le disse.
"Cosa?" chiese lei con lo sconcerto nella voce.
"Avanti, sali."
Non sentì movimenti, né la sentì avvicinarsi in alcun modo.
Si voltò e la scoprì intenta a fissarlo.
"Allora? Vuoi far le ragnatele? Ti piace tanto startene qui, dolorante e mezza pesta?"
Lei fece cenno di no con la testa.
"E allora perché diamine non sali?"
"Sulla tua schiena?"
Lui rispose con un’occhiata esasperata.
"Ma sono pesante…"
"Bones, non farmi ridere! Sono stato nell’esercito, che diamine! Ho sollevato cose ben più pesanti di te."
Lei si lasciò convincere e, ancora titubante,
gli mise le braccia al collo. Lo strinse forte, fino a sentire il suo
profumo mascolino arrivargli alle narici, penetrarle sin nel cervello.
Lui le sollevò le gambe e se le
posizionò intorno al bacino. Poi scalò il basamento di
cemento. In pochi minuti erano sul pavimento del primo piano, liberi e,
almeno in un caso, doloranti.
Booth la sentì gemere. Erano ora entrambi
sdraiati sul pavimento, boccheggianti, lei di schiena, lui prono. Si
voltò a guardarla e vide che il volto cinereo si era fatto
più grave, mentre tentava palesemente di reprimere le smorfie di
dolore che riuscivano comunque ad attraversarle lo sguardo.
"Bones, avanti, tirati su. Ti porto in ospedale."
"Booth, non ce la faccio. Mi fa male la gamba."
"E va bene" sospirò lui. Le si
avvicinò e, di nuovo, armandosi di tutta la delicatezza di cui
era capace, la prese per spalle e ginocchia e la sollevò,
stringendosela al petto. Le sembrava un pulcino bagnato bisognoso di
cure.
Immediatamente sentì il contatto delle sue
braccia cingergli delicatamente il collo. Provò in quel medesimo
istante un’emozione difficile da spiegare, ma
l’accantonò per fare spazio all’urgenza che in quel
momento aveva.
Ci mise pochi minuti a fare le scale con lei in
braccio e raggiungere la macchina, che aveva lasciato davanti
all’entrata, parcheggiata in malo modo.
Poggiò il suo prezioso carico sul sedile del
passeggero, delicatamente. Le allacciò la cintura di sicurezza,
eseguendo le stesse mosse che avrebbe fatto se al posto di Bones ci
fosse stato suo figlio Parker. Poi si mise al volante e, con una guida
veloce e pulita, in pochi minuti fu davanti al pronto soccorso.
Tornò alla portiera di lei e la prese nuovamente in braccio.
Gli piaceva quella sensazione, quella che provava nel toccare il suo corpo in modo così innocente, naturale.
La portò sino all’ingresso, dove
adocchiò una sedia a rotelle libera, a cui si avvicinò
con l’intenzione di accomodarci Bones. Ma quando fece per
scostarsela dal petto trovò la resistenza di lei stessa, che
lottò per non staccarsi da lui.
"Bones? Cosa c’è?"
"Non lasciarmi…" sussurrò lei con voce
sommessa, tanto che lui stentò a capire il senso delle parole
appena pronunciate.
"Non ti abbandono, Bones, non esserne così terrorizzata. Però ora lasciami. Ti devo far vedere da un dottore."
Lei, il volto nascosto nella sua spalla, scosse la testa. Di nuovo in segno di diniego.
"Bones, che diavolo ti prende?"
Booth era sconcertato. Che cosa stava succedendo alla collega, alla donna forte e sicura di sé che conosceva?
Proseguì allora per il corridoio, fino a
trovare le poltroncine della sala d’aspetto, quasi vuota data
l’ora. Solo un anziano signore con un braccio al collo faceva
loro da spettatore.
Si sedette continuando a tenerla in braccio. Le
accarezzò con gesti gentili e timorosi la schiena,
delicatamente, cercando con quel solo, semplice contatto di infonderle
un po’ di coraggio. Le baciò i capelli, in un impulso che
non cercò neanche di contenere, o nascondere.
Lei scostò il viso e lo rivolse verso di lui.
"Ho avuto paura…" confessò. "Era tutto dannatamente buio,
ed ero completamente sola… Odio gli ascensori, te l’ho mai
detto?"
"No, non credo di ricordare una cosa simile."
"E’ stato l’anno in cui i miei genitori
scomparirono…" iniziò a raccontare lei. Booth notò
come i suoi occhi si fecero d’un tratto vacui, privi di vita,
intenti a fissare un punto oltre la sua spalla. "Uno di quei giorni in
cui tornavo a casa completamente sola. Quel giorno in particolare
rimasi chiusa dentro l’ascensore di casa, tra il secondo ed il
terzo piano."
Chiuse gli occhi ed appoggiò la fronte alla spalla di Booth.
"Ricordo ancora la puzza di chiuso, di cane bagnato
e di sporco che aleggiava nella cabina. E il buio, soprattutto. Quel
buio intenso che non permette ai tuoi occhi di vedere la minima cosa."
Booth sentì il respiro di lei bloccarsi per un secondo, prima che ricominciasse a parlare con voce tremante.
"Sono rimasta chiusa in quel buco per 23 ore, prima che qualcuno venisse a cercarmi."
Un singhiozzo solitario la interruppe. Booth non
resistette e prese di nuovo ad accarezzarle i capelli, soffici e
lunghi, con studiata lentezza. Voleva stringerla a sé, voleva
sentirla accanto a lui, respirare, amare, vivere.
"Stasera mi sono sentita esattamente allo stesso modo. Lo so che è illogico e irrazionale, ma…"
"Non che non lo è, Bones, lo sai anche tu.
Siamo esseri umani che faticano a crearsi una propria identità,
a cui rimangono attaccate addosso le proprie cicatrici, che noi lo
vogliamo o no. E anche se siamo forti abbastanza da dimenticarle o da
lasciarcele alle spalle, loro non dimenticheranno noi. Non essere
ingiusta con te stessa. Sei una donna forte, e l’hai già
dimostrato abbastanza."
Lei non disse più nulla. Si immersero
entrambi nel silenzio dei propri pensieri, muti al calare delle
intensità delle proprie emozioni.
"Non lasciarmi sola, stasera, Booth. Ti prego."
"Non hai bisogno di pregarmi. Lo sai che io sono
qui, e ci sarò sempre. Sempre, per te. Adesso andiamo dal
dottore a farti medicare, poi ti porto a casa mia. Quello che ti
occorre è una sana dormita di 12 ore, e non ho intenzione di
discutere su questo punto."
"Ma devo lavorare…" cercò di protestare lei.
"Non domani mattina. Lavorerai al pomeriggio. Vedrai che non accadrà nulla di male, se per un giorno ti riposi."
"Come sei dispotico" scherzò lei, con un broncio da bambina a dare espressione al suo volto.
Booth non resistette e posò un bacio delicato
sulla sua fronte. "Avanti, mia piccola bambina. Andiamo a metterci un
cerotto su quella bua."
Lei rise, e continuò a ridere mentre lui la
prendeva di nuovo in braccio e si dirigeva verso l’ufficio del
dottore di turno, che in quel momento stava facendo loro cenno di
entrare.
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