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Il vuoto della nostra
distanza.
Vuoto.
Ad Haru non è mai
dispiaciuta la sensazione provata quando si tuffa in piscina, quando non vede o
sente nulla, solo il suo corpo che, bracciata dopo bracciata, si crea un suo
spazio e si lascia avvolgere dall'acqua fino a diventare quasi parte di essa.
È questa la sensazione che
assimila al vuoto, Haru, una sensazione alla quale aspirare, perché per lui
nuotare vuol dire quello, dissolversi nell'acqua e svuotarsi di ogni altro
pensiero inutile.
Non ha mai conosciuto
nessun altro tipo di vuoto, fino a quel momento.
Ha rivissuto quella
scena centinaia di volte: centinaia di volte ha visto le labbra di Makoto
formare il nome di una città che li allontanerà per anni, se tutto va bene.
Altrettante centinaia di volte si è rivisto gettargli addosso colpe che il suo
amico di sempre non ha – sei un ficcanaso, pensa al tuo futuro!
– perché sa benissimo che Makoto si preoccupa per lui perché è nella sua natura,
non perché voglia imporgli qualcosa o farlo sentire in ansia.
Il vuoto adesso sono i suoi muscoli doloranti,
la fitta allo stomaco, sul petto, ovunque, quella sensazione di strappo che gli
trapassa la carne come centinaia di pezzetti di vetro.
Il vuoto è Tokyo, è Makoto che alza la voce,
Makoto che non sorride, Makoto e il suo sguardo ferito, Makoto e l'espressione
incredula di quando gli ha detto di fare ciò che voleva.
Il vuoto sono le parole che non gli ha detto
subito dopo, sono i passi che li separavano, il vuoto è il silenzio più pesante
persino dei rumori dei fuochi di artificio, gli stessi che hanno sempre guardato
insieme, da che lui ne ha memoria.
Arrivato a casa si è gettato a letto, senza
trovare alcun ristoro, girandosi e rigirandosi fra le coperte, alla ricerca di
aria che potesse riempire il vuoto che gli era rimasto dentro.
Non ha dormito quasi per nulla e il suo sonno è
stato agitato da frazioni di sogni sempre diversi, incastrati negli occhi come
schegge di vetro, uno più angosciante dell'altro, uno più doloroso dell'altro.
L'ultimo – quello che
riesce a ricordare quando il suono del campanello di casa lo riporta bruscamente
alla realtà – è forse il più vuoto di tutti.
C'era la piscina, quella
del vecchio club di nuoto, dove lui e Makoto avevano iniziato a nuotare insieme
– Non ha senso se non ci sei tu,
Haru-chan – e
c'era lui, che nuotava e nuotava, senza mai sentirsi stanco, ma senza nemmeno
mai vedere il traguardo. Però la gara, quella che nemmeno sapeva di stare
disputando, alla fine l'aveva vinta lui, stabilendo persino un nuovo record,
annunciato a gran voce da una voce anonima e metallica.
Il sapore della vittoria
– che di solito gli era sempre stata indifferente – per una volta l'aveva quasi
tranquillizzato, ma si era dissolto tutto alla scoperta che, stavolta,
non c'era Makoto a porgergli una mano per uscire dall'acqua.
Il sogno era ritornato di
nuovo buio e vuoto e non c'era alcuna luce che potesse illuminarlo di nuovo.
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La fine dell'undicesimo
episodio di Free! mi ha uccisa in millemila modi diversi, e questa fanfiction è
il risultato del mio cuore setacciato dai feels.
Quando ho finito di vederla
- seconda o terza volta, boh? - mi sono resa conto di voler scrivere qualcosa,
ma tutto quello che avevo dentro era vuoto. E da quel vuoto è nata questa
flashfiction, che non ha molto senso, solo parole angst messe un po' a caso e un
po' no, confuse come lo sono i sentimenti di Mako ed Haru.
E nulla, io avevo iniziato
Free! credendo di aver a che fare con un hentai (!) #einvece
Se sopravvivete, lasciatemi
una recensione, mi fareste un sacco felice, visto che è la prima cosina che
metto giù dopo mesi e mesi di blocco.
Un bacione,
Aika (cliccando sul link arriverete alla mia paginetta dove ciancio e
fangirlo).
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