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Warnings: Hurt/Comfort, Angst, Spoiler
Crew&Ship: Makoto Tachibana, Haruka Nanase |
MakoHaru
Note: consideratela un lenitivo al dolore
doloroso che è stata l'ultima puntata. La KyoAni mi riempie di angst? Bon,
io rispondo così (battaglia persa e svolgimento improbabile, ma facciamo
finta che vada bene comunque).
___
Tornare a casa è
logorante.
Logorante, con le lacrime che inciampano tra le
scarpe; con i passi che non conoscono più
la strada; con i capelli che sobbalzano sulla fronte, assecondando un ritmo
più viscerale e impalpabile; con le
mani che tremano, accompagnate dalla monotona colonna sonora delle chiavi
che tintinnano.
Logorante, con la testa bassa e gli occhi ciechi;
con il piede che inciampa nello scalino e l'equilibrio che vacilla mentre la
sua mano si tende alla cieca e strofina contro il muro, portandosi via una
patina del suo colore.
Logorante, con la memoria rotta, fratturata,
scomposta in migliaia di fotogrammi senza casa. Immagini vagabonde, orfane
di un filo rosso, vedove di una coerenza. E suoni disarticolati, che
fischiano nelle orecchie, che somigliano all'agonia dell'apnea - è l'agonia dell'apnea, questa
stanza senza aria.
Questo momento senza Haru.
Che poi, a ben pensarci, non sono forse stati sempre
la stessa cosa?
Tornare a casa è
insensato.
Insensato, come il suo corpo rattrappito sotto una
coperta azzurra; come i suoi vestiti sul pavimento, che si
è strappato di dosso quando avrebbe
voluto strappare ogni altra cosa, anche e soprattutto quel nodo che gli
schiaccia la gola, le cui code serpeggiano in petto, avvoltolandosi per
acquisire una consistenza sgradita e sgradevole, come il sapore amaro di un
cibo disgustoso.
Insensato, come quello che gli ha detto chi, più
di chiunque altro avrebbe dovuto capire, offrendogli parole usate, di
seconda mano.
Offrendogli parole nuove di zecca, che gli sono
rimaste appiccicate addosso e ancora lo punzecchiano, picchiandogli da
qualche parte vicino allo stomaco - nauseanti.
Chi era quella persona? Chi era quel ragazzo la cui
mano, per un attimo, ha sfiorato appena la sua, trattenendolo per sempre,
lasciandolo per sempre? E dov'è finito
quel bambino che ogni mattina lo aspettava seduto all'angolo della scala,
discreto e piccolissimo, come se non volesse recare disturbo al mondo?
Che cosa sono diventati, lui e Makoto?
Tornare a casa è insopportabile.
Insopportabile è il campanello che trilla e gli
perfora i timpani, stringendo il cerchio d’acciaio alla testa e quel nodo
che, dopo una notte lunga e travagliata, è ancora allacciato intorno alla
gola, come un boccone storto che lì si è piantato e non ha intenzione di
scendere.
Insopportabile è scansare la coperta azzurra e
vacillare sulle ginocchia molli, sulle articolazioni anchilosate
dall’immobilità prolungata, imposta, salvifica quando ogni cosa tremava e
sentiva di non avere appigli, quando la nausea rotolava su e giù, dallo
stomaco vuoto alla gola, e non c’era niente di cui liberarsi – c’era
tutto di cui liberarsi.
Insopportabili sono il pugno di passi stanchi
necessari a raggiungere la porta, spalancarla e lasciarsi sorprendere per un
attimo dall’espressione vagamente annoiata di Rin.
Insopportabile è la curva del suo sorriso che per un
secondo è riuscita a stendere un velo bianco sugli accadimenti della sera
prima e che immediatamente si stralcia, si sfalda e distrugge l’illusione.
Insopportabile è la sfrontatezza nella sua voce che,
senza chiedere, gli dice di sbrigarsi, che devono andare, adesso.
“Andare dove?”
Insopportabile è l’irritante ovvietà che emana da
lui.
“Ma in Australia, naturalmente.”
Insopportabile è la corsa all’aeroporto, l’aereo che
si stacca dal suolo per scaraventarsi nello spazio sterminato del cielo,
delimitato da frontiere labili e invisibili, che basta varcarle per
ritrovarsi all’ultimo confine del mondo.
Insopportabile è sapere che sarà tutto inutile, che
un sogno non si può trovare come un oggetto smarrito o un vestito perfetto
per un’occasione importante. Che Makoto---
Insopportabile è l’oceano che si schiude davanti a
loro, insopportabile è il suo azzurro terso che lo abbaglia e, per la prima
volta dopo molto tempo, smuove qualcosa, smuove quel boccone incastrato che
cambia angolazione e sembra sul punto di precipitare, liberare la gola.
Insopportabile è Rin che gli getta addosso un
asciugamano e gli dice, “Nuota”.
Posso farlo?
Tornare a casa è penoso.
Non riuscire a svoltare l’angolo; limitarsi a
scrutare la punta del tetto da lontano, come se fosse molto più distante di
così; stringere i denti fino a sentirli compressi, fino a sentire la
mascella far male, fino a sentire la pressione strisciare fin nel cervello e
diventare un piccolissimo motivo di distrazione – ci sono così tante cose.
Sapere che la porta sarà chiusa a chiave; che la
vasca è asciutta e il porta panni vuoto; che Haru è da qualche parte a est,
che ha messo ulteriore distanza tra loro, riempiendola di tutte quelle
stronzate che si sono urlati addosso e che sono rimaste irrisolte, orfane di
una spiegazione, di una scusa d’obbligo.
Sentire il cellulare contro la gamba e ritrovarsi a
concentrare tutta l’attenzione tattile su quell’unica porzione di pelle,
aspettando la vibrazione di una chiamata, o di un messaggio; rileggere nella
testa l’ultimo sms di Rin, che ha risposto alla sua richiesta d’aiuto, che
gli ha solo detto, “Lasciami fare”; ricordare di aver chiuso gli occhi,
indirizzando una muta preghiera a chiunque potesse ascoltarla – non c’è
mai egoismo, nelle sue suppliche, perché Makoto non prega mai per se stesso.
È penoso questo e tutto quello che resta. E tornare
a casa è come girare alla cieca, perché la sua bussola deve essersi rotta e
punta solo ad est.
Tornare a casa richiede sforzi fino ad ora
impensabili.
Quelli dei suoi muscoli, che si scrollano la ruggine
di dosso e, bracciata a bracciata, ritrovano il loro passo, le loro perfette
contrazioni, i loro tempi.
Quelli delle sue braccia e delle sue gambe, che
scavano, graffiano, fendono – è una guerra che non vuole perdere, è un
proiettile che deve trovare il coraggio di esplodere.
Quelli della sua mente, costretta a vuotarsi, a
liberarsi di chi ha lasciato indietro – ma solo per poterlo ritrovare.
Tornare a casa richiede sforzi fino ad ora
impensabili, ma Haru pensa che, per la prima volta nella vita, ne valga la
pena.
Tornare a casa è un processo lungo e lento, ma
costante.
Makoto sa che c’è una scadenza, sa che manca poco al
ritorno di Haru.
Vive in funzione di quell’attimo e, per la prima
volta, di se stesso. Delle scelte che ha preso, di quelle che sente giuste e
di quelle che, invece, sente deboli, cedevoli al peso del dubbio. Rimugina,
cammina molto. Si siede sulla spiaggia e si lascia vezzeggiare dallo
scialacquio dell’oceano, che è balsamo sui suoi nervi stanchi e tirati.
Progetta discorsi di scuse; cerca di ignorare quella parte di sé, piccola e
oscura, che lo punzecchia, che gli domanda candidamente di cosa debba
scusarsi, che gli ricorda sfacciatamente che non è stato lui a spintonare
Haru, che non è stato lui a urlargli in faccia quelle parole che ancora
bruciano, da qualche parte, braci di un focolare mai sopito.
Scuote la testa, perché le colpe stanno sempre nel
mezzo.
Con la sabbia che gli sporca i pantaloni, Makoto
aspetta di poter tornare a casa.
Tornare a casa è catartico.
Riconoscere e accettare; farsi riconoscere e farsi
accettare. Stabilire un reciproco contatto.
Ritrovare l’armonia che si è perduta, infilandosi
negli spiragli stretti tra una paura e l’altra.
Le medaglie, i trofei, la gloria, l’euforia di chi
esalta un talento eccezionale: niente di tutto questo gli appartiene. Non è
questo il suo sogno.
L’acqua, ogni singola molecola che si intreccia alle
sue, la libertà: questo è il suo sogno. Nuotare per l’acqua, nuotare
per nuotare.
È sempre stato questo, è sempre stato tutto qui.
Makoto aveva ragione: il suo sogno aspettava solo di essere trovato.
Riesumato dalla tomba di aspettative in cui era stato sepolto. Farlo
risorgere, potente e glorioso e libero.
Tornare a casa è catartico, ma resta un ultimo
legaccio che Haru deve tagliare via.
Tornare a casa è definitivo.
L’aria di Iwatobi sulla pelle; la brezza pregna di
salsedine e umidità; il profumo di biscotti e lavanda che filtra da sotto la
porta di Makoto e lo accoglie come un cucciolo che gli inciampa tra le
gambe, scodinzolando, pieno di nostalgia.
Casa.
Ayumi Tachibana gli indirizza un sorriso pieno di
sollievo e sospira lentamente, come se adesso fosse finalmente in pace.
Senza dire niente, si scosta e gli libera il passaggio, gli apre la strada
fino alla sua casa.
La porta è aperta e Makoto è seduto sul letto, a
gambe incrociate, una brochure tra le mani e molte altre sparpagliate
intorno a lui. I suoi occhi la sondano con attenzione, concentrati e
alienati; le dita, di quando in quando, si contraggono e stringono il bordo
del libriccino, come in preda ad una forte paura, salvo poi rilassarsi,
accompagnate da un sospiro lievissimo.
“Makoto.”
Le sue spalle sobbalzano e i letto cigola; la
brochure cade a faccia in giù e si mescola alle altre. L’incredulità è
scolpita tra un lineamento e l’altro e pulsa negli occhi sgranati in un
eterno stupore.
Lo sguardo che corre tra loro è qualcosa di
totalmente, definitivamente nuovo; è pieno di cose che non hanno bisogno di
voce, è pieno di scoperte nuove, è pieno di scuse.
Haru, per la prima volta nella sua vita, gli sta
domandando perdono e le sue palpebre sfarfallano troppo spesso, tradendo il
ritmo frenetico di un cuore che pulsa di impazienza e desiderio.
Desiderio di essere perdonato, salvato. Liberato.
Ma Makoto non ha alcun sorriso per lui, stavolta. La
sua bocca, superato il muro di stupore, è tesa in una linea rigida,
accompagnata alle spalle contratte. Per la prima volta, Haru non riesce a
leggere cosa c’è sul suo viso; è un foglio bianco, vergato con inchiostro
simpatico e non c’è alcuna luce ad illuminare i caratteri nascosti.
Perdonami, Makoto.
Liberami, Makoto.
Ma Makoto non si muove. E non parla. E non lo guarda
più.
E Haru sente il nodo riavvolgersi intorno alle gola,
le lunghe coda avviluppate intorno allo stomaco, che serrano e strangolano e
il ogni battito del suo cuore ha solo un nome ripetuto all’infinito, come se
avesse un senso ben preciso.
“Makoto,” ripete e la sente, la sente la propria
voce che trema, che vacilla sull’ultima sillaba. Da qualche parte, la
tempesta sta rombando. I fulmini si stanno schiantando e si fanno sempre più
vicini.
“Haru,” lo chiama dopo quelle che gli sono sembrate
tre vite di immobilità e silenzio e sentire la sua voce dopo una settimana
intera è proprio come varcare la soglia di casa, sentire il profumo di casa,
essere a casa.
All’improvviso, le brochure stanno volteggiando
nell’aria, sferzate via dal gesto brusco di Makoto, che balza in piedi, che
quasi inciampa e cade. Che lo chiude nell’anello stretto delle sue braccia e
infossa una mano tra i suoi capelli, premendogli la faccia contro la sua
spalla – contro la maglietta che odora di Makoto e questa deve per forza
essere casa.
Si permette di sorridere contro la stoffa morbida,
di sollevare le braccia e chiuderle sulla sua schiena, mentre il silenzio
cola su ogni ferita e lava via il sangue e unisce i lembi di pelle infetta e
non resta che una cicatrice lunga e pallida che servirà loro per tornare a
casa.
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