Hector
Hector
non sapeva esattamente quando aveva cominciato a provare affetto per
Geoffrey
Martewall. Non era un sentimento costruito su anni di esperienze.
Hector era al
suo servizio da un tempo relativamente breve.
Ne
era rimasto colpito appena lo aveva visto. Non si era fatto molte idee
su come
sarebbe stato il figlio del barone di Dunchester. Geoffrey Martewall
era un
giovane uomo, poco più che un ragazzo. Avrebbe potuto essere suo
figlio,
probabilmente. Hector dovette ammetterlo controvoglia: in principio,
come molti
prima di lui, aveva commesso l’errore di sottovalutare il Leone di
Dunchester.
Conoscendolo
meglio, poi, aveva imparato a non farsi ingannare dal suo aspetto
giovanile. Aveva
un esperienza da veterano e lo spirito di una buona guida, oltre ad una
abilità
personale nella scrima che Hector non aveva mai visto prima. Le sue
strategie
erano vincenti, funzionali, e il suo pensiero correva sempre
all’obbiettivo di
tenere in vita i suoi uomini.
Così
si era guadagnato il suo rispetto.
L’affetto,
in realtà, non sembrava interessargli molto. Se lo guadagnava insieme
alla
fiducia, ma quasi inconsapevolmente. Le sue azioni non erano dettate
dall’opportunismo, e forse questa era la cosa che più aveva stupito
l’uomo
disilluso per molti aspetti che era
Hector.
Martewall
gli aveva riportato la speranza. Quel sentimento che si contrapponeva
al
sottile e persistente dubbio che Hector aveva sempre provato nei
confronti di
ogni feudatario o signore che aveva avuto modo di conoscere. Con
Geoffrey era
stato sicuro fin da subito, in chissà che modo, della sua integrità
morale.
Il
suo sguardo non era limpido, ma perennemente freddo e tormentato e
ricordava il
mare in tempesta. Eppure la presenza del suo forte onore risiedeva
sempre sul
suo viso, nell’espressione, nei gesti e sormontava ogni ombra sfuggente
dei
suoi occhi.
Ed
Hector capì presto, tra uno scontro armato e l’altro, che avrebbe dato
la vita
per lui e non solo per lealtà. Si sorprese a cercarlo sempre più spesso
in guerra
con lo sguardo e, dato che la fiducia che riponeva nel suo signore
sembrava
ricambiata, cominciò a seguirlo con sempre più frequenza. Diventò, di
fatto, il
braccio destro che molti signori avevano e desideravano e che Geoffrey
forse
non aveva mai avuto, né voluto.
Lo
era diventato in modo naturale, e Geoffrey glielo aveva lasciato fare.
Hector
lo capiva. Comprendeva il suo bisogno di prendere le distanze e non
forzava il
suo carattere per natura solitario con troppe e fastidiose offerte
d’aiuto.
Faceva sentire la sua presenza senza pensare che Geoffrey avesse
effettivamente
molto bisogno di lui, mettendo i suoi servigi a disposizione per
qualsiasi
ordine avesse ricevuto.
Il
giovane barone lo ricompensava con la sua totale fiducia, e la sua
accondiscendenza quando Hector dimostrava di preoccuparsi per lui. Il
fiammingo
non avrebbe potuto chiedere di più. Il suo signore odiava il pensiero
che
qualcuno prendesse tanto a cuore la sua sorte da rischiare la vita per
lui e ne
rimaneva tuttavia lusingato.
Non
era una persona semplice da servire, da capire.
Ne era consapevole lui stesso, eppure vedeva che alcune persone, Hector
per
primo, non si stancavano mai di provarci.
E
preoccuparsi per lui era spesso un compito faticoso.
Se
Geoffrey fosse stato libero da ogni legame avrebbe fatto ciò che
riteneva
giusto senza pensare alla sua vita, ma solo ai suoi obiettivi. Di
legami
vincolanti ne aveva, ma continuava a curarsi molto poco di se stesso, e
quindi
questo rimaneva un compito che gravava sui suoi uomini più fedeli.
Hector
si era accorto di non conoscere del tutto il suo signore quando lo
aveva rivisto
dopo cinque mesi, appena uscito dalle prigioni francesi dei Soissons.
Osservando
il suo comportamento nei giorni seguenti aveva capito che c’erano
ancora troppe
ferite che il suo animo indomito tentava di sanare ogni giorno, troppa
voglia
di liberarsi da qualcosa. Prima erano i francesi, poi la morte di una
persona
cara, poi il disonore, della sua persona e di quella del suo amico
morto
raggirando i principi della cavalleria.
Questo
addolorava Hector, il fatto che il suo signore non riuscisse a darsi
pace.
Ma
allo stesso tempo, non importava, perché non avrebbe mai disobbedito a
nessuno
dei suoi ordini, mai, così come non
avrebbe mai incolpato il suo signore per le sue azioni, sapendo che non
avrebbe
sopportato tutta questa indulgenza, ma anche che, presto o tardi,
avrebbe
rimediato ad ogni errore commesso.
Aveva
fiducia in lui, semplicemente, così come l’aveva sempre avuta.
Sapeva
che avrebbe riavuto indietro il Geoffrey Martewall che non era schiavo
della
sua rabbia, e che sapeva distinguere la voglia di vendetta dalla sete
di
giustizia.
*
Lo
trovò sulla cinta muraria, i gomiti
poggiati al parapetto e lo sguardo rivolto verso il bosco, con le sue
chiome
che sfioravano il cielo grigio striato d’arancio di un tramonto che
prometteva
pioggia. Aveva il solito portamento fiero e ombroso di quei giorni, di
un leone
ferito ma imbattuto e più forte nella sua sofferenza.
Hector
indugiò per un istante, prima di avvicinarsi e decidere di distoglierlo
dai
suoi pensieri. Lo vide voltare appena il capo al suono dei suoi passi e
lo
interpretò come un muto invito a parlare.
«
Signore, perdonatemi, la vostra presenza è richiesta nella Sala Grande
da sir
Fitz Walter e sir Cornhill, oltre che da lord Salisbury. » pronunciò
l’ultimo
nome con un filo d’incertezza. Sapeva che il suo signore non riusciva
ancora a
non ritenerlo almeno in parte responsabile per la morte di suo padre.
Tutto
quell’astio derivava dal fatto che Geoffrey pensava ancora al giorno
della
presa di Dunchester. Non aveva rifiutato con tutte le sue forze di
andare in
Francia come ostaggio, pensando di fare la cosa giusta. Ed Hector
sapeva che
era stata la cosa giusta da fare, ma sapeva anche che il suo signore si
sarebbe
rimproverato sempre di non essere stato presente per combattere per la
vita del
padre.
Geoffrey
poggiò i palmi sul muretto di pietra, raddrizzando la schiena.
«
Grazie, Hector. » si voltò verso di lui e lo trapassò con il suo
chiarissimo
sguardo di ghiaccio, freddo e penetrante.
Hector
poteva avere un’idea vaga di ciò che gli passava per la testa, questa
volta.
Non si era ancora del tutto ripreso dalle ferite che i mercenari di re
Giovanni
gli avevano lasciato come punizione per aver aiutato il suo signore a
fuggire.
A pensarci bene, era stato fortunato. Se il castello fosse stato solo
in mano
loro, probabilmente lo avrebbero ucciso.
Geoffrey
si accertava della sua buona salute ogni volta che lo guardava, e nei
suoi
occhi passava una rabbia a stento sopita, che aspettava solo
l’occasione giusta
per essere scatenata contro i suoi nemici. Hector non avrebbe mai
voluto essere
nei loro panni, pensava con un ghigno amaro.
Re
Giovanni probabilmente non aveva idea di ciò che aveva liberato.
Il
giovane barone non era ancora riuscito a districarsi dai suoi pensieri,
forse
perché in fondo non voleva farlo. Hector lo vide incrociare le braccia
al petto
e poggiare la schiena al muretto, e pensò di ricordargli che lo stavano
davvero
attendendo, nonostante non sapesse esattamente quanto questo potesse
importargli.
«
Signore… »
«
Mi dispiace, Hector… » disse Geoffrey, guardandolo negli occhi con
decisione e
una punta di sincera preoccupazione « Mi dispiace per ciò che hai
dovuto
subire.» e accennò alle fasciature che spuntavano da sotto la tunica di
Hector,
tetro.
«È
stato un onore farlo per voi, mio signore. » rispose il luogotenente,
con
orgoglio, dopo un breve istante di piacevole sorpresa.
Lo
sguardo di Geoffrey si incupì.
«
Da domani, saremo in guerra. » disse, osservando il borgo sotto di lui.
«Personalmente,
non aspetto altro. » aggiunse, con occhi fiammeggianti di sfida. « Ma
gli
uomini che ho portato qui dalla Fiandra hanno già sofferto molto per
una terra
che non è la loro. Se voleste tornare a casa vostra, non vi biasimerei,
né ve
lo impedirei. »
Hector
rimase immobile dallo stupore. Non che fosse strano, per Geoffrey
Martewall,
fare un discorso del genere, il fatto era che al suo luogotenente non
era mai
passata per la mente quell’idea.
Tornare
in Fiandra…
«
Significherebbe smettere di servirvi, signore. Nessuno di noi desidera
questo.
» affermò, quasi di slancio. Se Geoffrey, nello stato d’animo in cui si
trovava, gli avesse ordinato di
tornare in Fiandra, lui cosa avrebbe fatto?
Il
giovane lo osservò in tralice per un momento.
«
La vostra guerra è anche la nostra. Non importa il nostro paese
d’origine. »
aggiunse Hector, deciso a fargli entrare il concetto in testa una volta
per
tutte.
Il
barone parve riflettere sulle sue parole e una miriade di pensieri
indefinibili
attraversarono le iridi grigio acciaio.
«
Credo di aver conosciuto un’altra persona come te, Hector. Lui ha
riposto la
sua fiducia e la sua fedeltà in una causa e in un signore, ed è
diventato ciò
che serviva a quel signore, abbandonando il suo paese natale e facendo
sua la
guerra della persona a cui era rimasto fedele. »
Hector
ascoltava in silenzio, colpito. Il viso di Geoffrey non tradiva ombre
di
rimpianto. Il fiammingo cercò qualcosa da dire, ma si ricordò che col
suo
signore molto spesso le parole non servivano.
«
Capite, quindi, i motivi che mi spingono a rimanere in Inghilterra. »
disse,
comunque, tastando il terreno.
Non
era certo che il suo signore capisse veramente cosa i suoi uomini
vedevano in
lui. Una guida, un faro sempre acceso, mentre lui credeva di portare
solo ombra
sul suo cammino.
Infatti,
dopo qualche secondo Geoffrey scosse appena la testa.
«
Ma capisco di essere fortunato. »
Hector
ghignò, rassegnato. Non era questione di fortuna. Ma ciò che voleva
dire
Geoffrey gli si rivelò comunque, anche se il modo in cui il concetto
era stato
espresso era grossolano e molto vago.
Goffrey
emise un mezzo sospiro e si diresse con passo deciso verso le scale,
facendo
segno col mento ad Hector di seguirlo.
Hector
non si fece attendere e si incamminò dietro di lui alla vista di quel
gesto
impercettibile, come aveva fatto molte volte in passato e come avrebbe
fatto
ancora in futuro.
*
Hector
non aveva mai visto Reginald Cornhill e Robert Fitz Walter. A Bouvines
non
c’erano, si erano recati al Sud per fronteggiare Luigi il Delfino,
principe di
Francia.
Erano
seduti sugli sgabelli che i famigli usavano nel refettorio, disposti
intorno al
tavolo lungo di legno scuro. Avrebbero potuto scegliere una
sistemazione più comoda,
ma evidentemente non era il loro principale interesse, al momento, e
poi
dovevano essere stati costretti ad attendere il padrone di casa, che
avrebbe
dovuto invitarli a sedere sugli scranni più comodi riservati ai
cavalieri del
castello e al barone di Dunchester.
Ma
quando arrivò Geoffrey Martewall non fece nulla di tutto ciò. Si limitò
ad
osservarli, in un primo momento, riservando uno sguardo appena più
lungo a
Salisbury, che come gli altri si era alzato per stringergli la mano.
Reginald
Cornhill era un uomo navigato, così come Fitz Walter. Al contrario suo,
però,
aveva i capelli grigio topo molto corti e gli occhi scuri caldi e
rassicuranti.
Fitz
Walter invece portava i capelli neri più lunghi, anche se anche a lui
li
avevano tagliati quando lo avevano fatto prigioniero in Francia, dopo
la
disfatta. I suoi occhi erano di un verde chiaro e inflessibile.
Sembrava conoscere personalmente Geoffrey, perché lo
chiamò per nome e sembrò sinceramente felice di vederlo, anche se i
suoi occhi,
come quelli di Cornhill, tradivano una punta di imbarazzo e
preoccupazione.
Hector non ne fu stupito. Non si sapeva mai cosa dire quando ci si
trovava
davanti ad una persona in lutto.
Nella
stanza aleggiava un’atmosfera tesa, come se nessuno volesse davvero
trovarsi in
quel posto, al cospetto del signore di Dunchester che ancora faticava a
ritenersi tale, e con la consapevolezza che si sarebbe potuto evitare
il peggio
se avessero agito prima.
Nessuno
dei due baroni voleva davvero guardare in faccia Geoffrey. Eppure lo
fecero
ugualmente.
Non
fu Fitz Walter a prendere per primo la parola, né Salisbury. Il primo
osservava
Geoffrey e poi lo scranno che era stato di sir Harald, in tralice e con
una
silente e malcelata sofferenza.
«
Sir Geoffrey, ci fate aspettare come al solito, ma è sempre un grande
piacere
incontrarvi. » scherzò Reginald Cornhill, con l’intento di mettere a
suo agio
Geoffrey e sciogliere la tensione, come sembrava abituato a fare ormai
da
tempo.
Ma
Geoffrey era perfettamente a suo
agio. E non aveva voglia di scherzare. Lui non aveva mai
voglia di scherzare.
Trapassò
il cavaliere più anziano con uno sguardo di ghiaccio.
«
Scusatemi se vi ho fatto attendere, signori. Non mi biasimerete, ne
sono certo.
Mio padre vi ha atteso a lungo, e invano. »
La
sua affermazione cadde come acqua gelata sulla sala. Cornhill guardò in
basso
con un’espressione sinceramente mortificata. Era piuttosto strano
vedere un barone
più anziano chinare il capo davanti ad uno più giovane, ma Hector non
se ne
stupì più di tanto. Geoffrey incuteva sempre una certa soggezione.
Fitz
Walter chiuse gli occhi per un breve istante. Lunga Spada invece non
parve
stupito, né abbandonò l’espressione calma e decisa.
«
Conservate la vostra rabbia per Giovanni, sir Martewal. Vi servirà,
credetemi. »
Gli
occhi del giovane balenarono nella sua direzione con una luce
pericolosa nello
sguardo. Hector immaginava che non volesse sentirsi dare ordini da lui,
non
più, anche se non poteva evitarlo. Né tanto meno voleva accettare
consigli.
«Lo
farò. » disse, sedendosi e accavallando le gambe, con la voce vibrante
di
rabbia tenuta a freno. «E quando con lui avremo finito, con un po’ di
fortuna
me ne avanzerà abbastanza per voi.»
Hector
impallidì. Cosa gli passava per la testa, dannazione?! Rispondere così,
a
William Lunga Spada…
Il
fiammingo serrò i denti e si irrigidì mentre una sottile paura si
impossessava
di lui. Osservò il suo signore, per incrociarne lo sguardo e tentare di
ammonirlo, ma lui non lo stava affatto guardando e non c’era traccia di
indecisione o preoccupazione sul suo viso.
Lunga
Spada sospirò e per un attimo Hector vide il rammarico nei suoi occhi e
nella
piega delle labbra. Ringraziò il Cielo che fosse un uomo ragionevole.
«
Non è il momento giusto per le minacce, questo, sir Geoffrey Martewall»
disse,
dopo qualche lungo istante di silenzio, guardando deciso il volto del
giovane.
Forse l’istinto gli aveva fatto capire che arrivare subito al punto
della
questione, evitando di attraversare argomenti inerenti la morte di sir
Harald,
fosse la cosa migliore da fare.
«
Avete solo alleati fedeli, in questa sala. »
Geoffrey
parve irrigidirsi appena e Hector sapeva che si stava trattenendo dal
rispondere in un modo poco adatto. Il suo signore sapeva sopire i suoi
istinti,
soprattutto quando aveva un obiettivo ben preciso da raggiungere.
«
Spero solo che non siano solo parole, a questo punto. » si limitò a
dire, con
la consueta asciuttezza.
«
Non lo saranno. » affermò Fitz Walter, la voce profonda e lo sguardo
infuocato.
Hector non fece fatica a riconoscere in lui il carisma sicuro, fiero e altero di una guida esperta. Di un futuro
capo dei baroni ribelli, pronto a portare il peso di una condanna di
tradimento
per primo.
E
si rese conto in quel momento che anche Geoffey Martewall, ormai da
tempo, era
pronto a portare quel peso, ad essere chiamato traditore per una giusta
causa,
per salvare il suo popolo, e anche per vendetta, forse, perché non
riusciva del
tutto a sopire la rabbia, ma
soprattutto…per essere dalla parte giusta. Come avrebbe voluto sir
Harald.
Nella
mente del fiammingo riaffiorarono le ultime parole che sir Harald aveva
rivolto
al figlio.
Sei
un cavaliere e un uomo
d’onore, non metterlo mai più in dubbio.
Geoffrey
si stava sforzando di adempiere al suo volere fino in fondo e per
sempre.
«
Vi avremo completamente dalla nostra parte, senza alcun tipo di
rancore, Sir
Martewall?» chiese Lunga Spada, incrociando le dita in grembo con lo
sguardo
attento e sicuro di chi si aspetta già la risposta che desidera.
«
Morirei piuttosto che negare alla mia gente la prospettiva di un futuro
migliore, milord. E voglio vendetta per mio padre e
per ciò che il Senza Terra ha fatto a
Dunchester, non posso negarlo. Aiuterò con tutte le mie forze l’uomo
che mi
aiutato a riconquistare la mia casa. » affermò Geoffrey, con la ferrea
determinazione di un uomo che aveva un nuovo ideale, uno scopo, una
nuova
guerra da combattere in nome della giustizia e per un futuro migliore,
come non
accadeva da troppo tempo, ormai.
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