IT WAS A DARK
AND RAINY NIGHT
La pioggia
scendeva a scrosci in quella sera d’autunno inoltrato. Le
gocce rimbalzavano sull’asfalto del marciapiede, nelle
pozzanghere, sui miei vestiti fradici.
Camminavo
verso casa, dopo una giornata inutile, una delle tante giornate inutili
infilate nel refe della mia vita inutile.
Un passo dopo
l’altro vagavo tentando di ritardare il momento del rientro a
casa, la nuova casa in quella nuova città in cui tutti, o
quasi, mi erano estranei, in quelle stanze che in cui mi avevano
obbligato a vivere dopo che avevamo dovuto lasciare Mystic Falls.
Là avrei ritrovato un fratello ugualmente affranto e
un’amica troppo impegnata a rimettere insieme i pezzi di una
normalità che non esisteva più, se mai fosse
veramente esistita, e non ne avevo assolutamente voglia.
L’unica
cosa che desideravo davvero, con tutta me stessa, era che il mondo si
dimenticasse di me,che mi lasciasse andare in pace alla deriva.
Erano
passati mesi … avevo smesso di contarli … e
ancora il vuoto non si colmava, la ferita non smetteva di sanguinare,
il dolore non accennava a diminuire.
Camminavo
con la pioggia che colava dai miei capelli, li inzuppava, li incollava
al mio volto che fissava ostinatamente la punta di miei piedi. Non
avevo un trucco da sbavare: almeno la mia faccia sarebbe apparsa
pulita, pensai tra me e me, se mai … se lui …
Pensieri
idioti: a volta ci si aggrappa alle sciocchezze per riempire lo spazio
tra un pensiero affilato come una lama e un ricordo pesante come un
macigno.
Ci
sarebbe stato solo il mai, mai più lui.
Mi
appoggiai alla vetrina spenta di un negozio vuoto e tentai di accusare
il colpo che arrivava come un pugno sferrato da un pugile sul ring
dritto nello stomaco ogni volta che pensavo a Damon.
Attaccai la
fronte al vetro bagnato.
Se
era vero che il tempo mi avrebbe guarita, beh … avevo
un’eternità di convalescenza a disposizione
... ma se questa era una delle tante pietose bugie che si
raccontano, allora quella che mi si prospettava era un’agonia
eterna.
Ormai
anche la sua maglia aveva scambiato il suo odore col mio e non riuscivo
più a trovare la sua essenza nella foto accanto al letto.
Solo
nel sonno, a volte, la sua immagine veniva a darmi sollievo, con uno
dei suoi sorrisi da schiaffi, o con una carezza fugace o un bacio
appassionato.
Poi,
però, il risveglio era ancora più duro, la
realtà più inaccettabile, la sua assenza
più lacerante.
C’erano
mattine in cui gli occhi si rifiutavano di aprirsi e notti in cui non
riuscivano a chiudersi. Andavo a cercarlo in una memoria che si stava
offuscando, mentre la mia pelle ricordava benissimo l’ardore
delle sue mani, il calore delle sue labbra.
Mi
attorcigliavo nelle lenzuola troppo nuove, asettiche e senza traccia
del suo passaggio; mi aggrappavo al cuscino che non aveva conosciuto il
tocco del suo volto, nel letto che non aveva mai accolto il suo corpo,
nella camera che non aveva avuto l’onore della sua presenza,
e lo chiamavo in un suono che era un lamento straziante,
l’invocazione di un’anima che bruciava tra le
fiamme.
C’erano
notti in cui il dolore girava in furia, la frustrazione in improperi;
notti in cui lo odiavo quanto lo avevo amato, ore in cui gli insulti si
mischiavano al desiderio incontrollabile di distruggere tutto, di
eliminare quel mondo in cui nulla aveva più ragione di
esistere.
C’era
stata anche una volta in cui, con il sangue colmo di alcool e la mente
annebbiata dei fumi delle erbe magiche, lo avevo maledetto e sfidato:
“Torna bugiardo … torna
adesso o mi consolerò con il primo che capita …
vieni da me ora o mi rifugerò nelle braccia del primo uomo
che mi guarderà questa sera … e
giocherò con lui come facevamo noi … lo
bacerò nel modo in cui ti piaceva tanto … lo
accarezzerò là, dove ti faceva impazzire
… e gli dirò quelle parole che solo tu ha sentito
uscire dalle mie labbra … lo accoglierò dentro di
me e gli cederò quel rifugio che era solo tuo, quel luogo
dentro di me che apparteneva solo a te …”
Damon
non arrivò.
Ricordo
ancora quelle mani sconosciute che mi spogliavano, quelle labbra rudi
che mi baciavano, quell’odore ripugnante che non era il suo,
quella pelle che mi rivoltava lo stomaco … e il suo sangue
nella mia gola.
Non avevo
potuto tradirlo.
Aveva
vinto Damon.
Damon aveva
vinto sempre … avrebbe sempre vinto.
Staccai
il volto dalla vetrina fredda, vi passai le mani per togliere le gocce
e guardarmi in quello specchio nero.
Un’ombra
nell’ombra.
Il mio profilo
era un riflesso vago dentro quella superficie scura e i contorni erano
indefiniti, resi confusi dalla pioggia che sfuocava la mia immagine.
Ero
l’ombra di me stessa, l’ombra di
quell’amore che mi aveva illuminata, la cenere del dolore
bruciante della sua assenza.
E
non volevo smettere di soffrire … non volevo smettere di
sentire quelle spine conficcate nel cuore che mi urlavano che lui
c’era stato, c’era e sempre sarebbe stato
lì.
Alzai
il volto per sentire la pioggia sul mio volto, lasciarla scivolare
sulle mie guance a sostituire quelle lacrime che non riuscivo
più a piangere.
Avevo smesso di
cercarlo, di cercare segni improbabili in ogni folata di vento che
smuoveva le tende della mia camera, la notte.
Avevo smesso di
cercarlo perché lui era dentro di me e nessuna immagine
fittizia, nessuna fotografia o preghiera me lo avrebbe riportato.
E avevo smesso
di porgli domande senza risposta …
“Dove sei, vita mia? Dimmi cosa
posso fare per venirti a riprendere! Chiamami … stai
litigando con Bonnie? Vi state tenendo compagnia o sei solo? Hai
freddo, amore mio? Lo senti ancora, il freddo? Io sì. La mia
anima è sferzata da venti di tramontana e la tua? Riposa in
pace tra i raggi di un sole che non ti è più
nemico o vaga alla ricerca di un modo per ritornare da me? Damon
… come sarebbe stata la nostra vita insieme? Come sarebbe
stato morire insieme? Io ho freddo, Damon … ho freddo
…”
Un
brivido: ero fradicia fin dentro le ossa e avevo freddo davvero, ma non
riuscivo a staccare gli occhi da quel vetro anonimo, non riuscivo a
staccare i pensieri dagli echi del tormento, i piedi
dall’asfalto, le mani dalle maniche del giubbotto che,
inutilmente mi stringevo addosso.
La
strada non era molto frequentata e il buio era appena attutito
dall’alone dei lampioni della strada principale che scorreva
perpendicolare alla via laterale che avevo imboccato per tornare a casa
o, forse, per perdermi nella sera che si stava facendo sempre
più cupa.
Improvviso
un lampo illuminò l’aria, immediatamente seguito
da un frastuono assordante … un temporale
d’autunno … impossibile, improbabile.
Nel
flash di quella luce improvvisa, i miei occhi misero a fuoco un volto
nella vetrina … quel volto … quegli occhi.
Non
avevo più usato quelle erbe: non mi bastava più
solo vederlo.
Non mi eri
più ubriacata: non era sufficiente per stordirmi, per
attutire il dolore.
Non avevo
più azzannato vittime innocenti: il sangue sapeva
d’amaro.
Allora,
perché lo vedevo lì, alle mie spalle?
Perché sentivo il calore del suo respiro sul mio collo?
Perche respiravo il suo odore di cuoio e di pioggia, di bourbon
… di lui?
Chiusi
gli occhi.
L’illusione
è dolce ma il risveglio è atroce: ogni volta
è nuova abrasione che toglie le croste dalle ferite, riapre
i tagli, rende sensibile la carne e fa male … male da morire.
Non
volevo rivederlo perché l’immagine sarebbe
scomparsa, non volevo … e lo desideravo con tutta me stessa,
perché ogni istante di quell’illusione valeva le
mille ferite della mia anima lacera.
Inspirai
a fondo quelle note di pelle sudata, di capelli bagnati, di maschio
… di Damon.
Mi
lascai cullare dalla sensazione di calore che percepivo alle mie
spalle, di fuoco liquido che stava percorrendo le mie vene, sciogliendo
il nodo nel mio stomaco e riempiendo di languore i miei sensi.
Dio
… cosa non avrei dato in cambio per una sua carezza, per
poter risentire il tocco delle sue mani, il sapore delle sue labbra, il
suono delle sue parole soffocate in mezzo ai miei seni.
Deglutii.
Avrei
dovuto solo ricominciare a camminare e tutto sarebbe passato come il
fulmine di poco prima, ma era così dolce affondare in quelle
sensazioni, così crudelmente bello.
Mi
passai le mani sul volto fradicio, sulle labbra gonfie e mi sforzai di
riaprire gli occhi.
La
sua immagine era ancora lì, sfuocata nel vetro, immobile
… tranne per la bocca: tremava.
Passai
di nuovo la mano sul vetro come si passa un cancellino sulla lavagna
piena di inutili scarabocchi, ma il suo volto non svaniva.
Feci
un passo indietro, cercai di mettere una certa distanza tra me e quel
fantasma, ma andai a sbattere contro qualcosa di forte come una roccia,
di caldo … di dolorosamente familiare.
Il
giubbotto di pelle sapeva ancora di fumo, di gas …
Non
dissi una parola.
Non emise un
suono.
Rimanemmo
così, l’uno contro l’altra, increduli,
per istanti lunghi come secoli, fuggevoli come un battito di ciglia.
Eppure non
potevo essere più sicura … o più folle.
Lui era dietro
di me, era incollato alla mia schiena.
Damon.
Tutte
le emozioni si spensero, tutto rimase immobile, tranne la pioggia che
continuava a scendere implacabile.
Poi
tutto esplose.
La rabbia, la
frustrazione, il dolore eruttarono.
Mi
voltai e cominciai a colpirlo come una furia, ad urlare come un animale
rabbioso.
Lui,
immobile, subiva il mio attacco senza fare un gesto, cercando solo di
fissarmi negli occhi, cercando solo il mio sguardo.
Pugni,
schiaffi, calci, graffi …
“Ti
odio … ti amo … ti odio …
perché mi hai lasciata sola? … perché
sei tornato? … perche ora? Vattene … rimani
… non toccarmi … abbracciami … ti odio
… ti amo …”
Vaneggiavo
… deliravo
.
Lasciatami
sfogare, Damon mi strinse tra le braccia e, tenendomi il
volto tra le mani come solo lui sapeva fare, incominciò a
ripetermi :
“Shh
… sono qui … sono qui …”
Finalmente
agganciai quegli occhi che mi sapevano farmi naufragare, annusai il suo
respiro, assaporai il suono della sua voce.
Era
lì … era lì con me.
Non
avevo bisogno di altre parole. Non avevo bisogno più di
nulla, se non di saziarmi di lui.
Con
un calcio ruppi la vetrina e, con tutta la forza che avevo in corpo, lo
trascinai all’interno.
Il
vecchio negozio abbandonato era sporco e spoglio, ma non
m’importava: ero affamata, digiuna da troppo tempo, svuotata.
Mi
avventai alla sua gola, mentre lui mi cercava la pelle sotto la maglia
zuppa di pioggia e di voglia.
Lo
addentai mentre lo spogliavo di quegli stessi vestiti che indossava la
notte dell’esplosione, la notte che l’avevo perduto.
Non
m’importava com’era tornato, dov’era
stato: lo volevo dentro di me in ogni modo possibile.
Cominciai
a sentire il suo sangue scorrere nella mia gola, le sue dita
frugarmi ovunque, il suo desiderio crescere.
Lo
volevo nel sangue e nel corpo, nella mente e nell’anima,
dentro, prigioniero nel mio corpo perche non potesse fuggire mai
più, perché mai più gli avrei permesso
di lasciarmi.
Improvvisavamo:
i movimenti delle mani, i denti affondati nelle vene, i nostri corpi
scossi da brividi di doloroso piacere; ci prendevamo famelici
… incapaci di fermarci, aggrappati ai capelli, aggrappati
alla vita che tornava, con l’ombra della morte rendere tutto
più oscuro, più forte, più intenso.
Sarebbe
rimasto?
Sarebbe
scomparso di nuovo?
Non mi
importava! Nulla importava, solo noi … e il suo corpo che mi
schiacciava contro il muro, contro il pavimento, contro le schegge di
vetro e i brandelli del mio cuore che si stavano ricomponendo, per
esplodere di nuovo, ogni volta, ad ogni suo bacio, ad ogni orgasmo
… ad ogni respiro.
Non
ci dicemmo nulla, perché nulla c’era da dire. Le
parole s’infrangevano come onde sugli scogli della nostra
passione e solo il linguaggio dei nostri corpi raccontava il dolore
della separazione, l’estasi del ritrovarsi.
Nulla
importava … nulla sarebbe mai più importato.
Lui
era tornato, da me, con me, in me
.
Saremmo rimasti
in questo mondo insieme o insieme lo avremmo lasciato.
La
pioggia continuava a scrosciare, fuori, altrove, nel buio di una notte
illuminata da un lampo.
Non ci avrebbe
bagnati.
Non ci avrebbe
divisi.
Nulla avrebbe
potuto separaci.
Mai
più.
|