“Quando
si cucina bisogna usare gli ingredienti in ogni loro parte.
È come
amare tutto in una donna.”
(Sanji riferendosi ai cuochi di Navarone)
La
tristezza del Ramen
Il
2009 fu l'anno del Ramen.
Cucinavo
ramen per vivere e vivevo per cucinare ramen.
Il
vapore che, lesto, si alzava dalla pentola di alluminio era il mio
orgoglio, la zuppa di carne e alghe che gorgogliava nella padella la
mia speranza.
In
un vecchio negozietto mi ero procurato una casseruola talmente grande
da farci il bagno ad un koala e un timer da cucina, poi avevo fatto
un giro dei supermercati specializzati in spezie e condimenti dai
nomi più strani, riempiendo le mie dispense.
Avevo
sperperato buona parte dei miei risparmi in qualsiasi tipo di ramen,
e preparato ogni possibile tipo di salsa.
Particelle
finissime di cipolla, miso, curry e altro ancora turbinavano
nell'aria, e combinandosi in un tutto armonioso si insinuavano in
ogni angolo e in ogni fessura del monolocale dove abitavo.
Permeavano
il soffitto, il pavimento, le pareti, le care cravatte, i pacchetti
mezzi vuoti di sigarette, i libri e le vecchie foto.
L'odore
era quello di un antico villaggio rurale.
Questa
è la storia della tristezza del Ramen, anno 2009 d.C.
Fondamentalmente,
li cucinavo da solo, e da solo li mangiavo. Poteva capitare che
qualcuno mi facesse compagnia, magari un collega di lavoro, ma io
preferivo di gran lunga di no.
All'epoca
pensavo che il ramen fosse un piatto nato per essere mangiato da
soli. Non riesco tutt'ora a comprendere cosa c'era dietro questa mia
idea.
Con
il ramen bevevo del tè. Mi preparavo anche un'insalata, generalmente
si trattava di una semplice ma abbondante insalata di cetrioli e
radicchio. Dopodiché apparecchiavo con maestria e cura la tavola e
mangiavo senza fretta, leggendo il giornale posato accanto a me o
guardando le immagini mute sul mio piccolo televisore.
I
giorni del ramen si susseguivano dalla domenica al sabato, e quando
la settimana era finita, dalla domenica successiva iniziava un'altra
interminabile e sospirata serie di giorni del ramen.
Ed
ogni volta, davanti a quella ciotola fumante, avevo l'impressione che
da un momento all'altro qualcuno avrebbe bussato alla porta e sarebbe
entrato.
Forse
questa sensazione nostalgica era inscindibile dal fatto che il ramen
era uno dei piatti che lei adorava...
E
che, beffardo il destino, anche lui amava!
Le
persone che immaginavo stessero per arrivare erano ogni volta
diverse. A volte si trattava di perfetti sconosciuti, altre volte di
gente amica. Poteva essere quella ragazza dai capelli rossi, alta e
snella, che avevo conosciuto al liceo, o quel buzzurro dormiglione
che non dispensava mai complimenti ma che divorava i miei piatti con
la stessa cupidigia di quell'ingordo del mio amico Rufy.
In
realtà non si presentò mai nessuno.
Tutte
quelle persone si limitavano ad aggirarsi al di là della soglia,
puri e semplici frammenti della mia memoria, ma in conclusione non
bussavano alla porta e finivano per andare via, chissà dove.
Estate,
autunno, inverno, primavera.
Continuavo a cucinare ramen. Quasi come se la mia fosse
una qualche forma di rivincita. Giorno dopo giorno, avvolto nel
silenzio, lo facevo bollire come una donna abbandonata dal fidanzato
che getta nella spazzatura l'anello di fidanzamento, simbolo di una
promessa infranta.
Fumavo,
lavoravo come cuoco nel rinomato ristorante All Blue di Tokyo,
fumavo, cucinavo il ramen.
Davo
all'ombra calpestata del tempo la forma di un grosso koala, la
buttavo nell'acqua che bolliva nella pentola e ci aggiungevo il sale.
Poi, in piedi davanti ai fornelli con lunghi bastoncini in mano,
aspettavo senza allontanarmi di un passo che il timer facesse sentire
il suo triste tintinnio.
Il
ramen era estremamente furbo. Non mi potevo permettere di perderlo di
vista un solo istante. Da un momento all'altro era capace di
scivolare oltre il brodo della pentola e sparire nel buio della
notte. Come la giungla tropicale aspetta in silenzio di inghiottire
nell'eternità del tempo le farfalle colorate, così le notte
attendeva col fiato sospeso l'arrivo del ramen.
Shoyu
Ramen
Miso
Ramen
Shio
Ramen
Tonkotsu
Ramen
Chashumen
Wonton
Ramen
E
poi c'era il triste ramen avanzato, senza nome. Tagliatelle infilate
come capita nel frigorifero.
Nato
in mezzo al vapore, il ramen scendeva come la corrente di un fiume
lungo il pendio del 2009, finché non scomparve.
Ne
piango la perdita.
Il
ramen del 2009.
Quando
squillò il telefono, alle sedici e quarantaquattro ero sdraiato sul
tatami e guardavo il soffitto. I raggi del sole invernale formavano
una pozza luminosa esattamente nel punto dove mi trovavo io.
Ero
fermo in quella posizione da chissà quanto tempo, disteso come una
falena morta, la mente vuota, nella luce di quel gennaio del 2009.
Inizialmente
non capii che era il telefono. Sembrava piuttosto il frammento di un
ricordo rimosso che si fosse intrufolato esitante tra le pieghe del
tempo. Dopo molti squilli finalmente cominciai a riconoscerlo, finché
non assunse le sembianze del suono del telefono al cento per cento.
Il
suono del telefono al cento per cento in una dimensione reale al
cento per cento.
Sempre
sdraiato, protesi la mano e sollevai la cornetta.
Dall'altra
parte del filo c'era una ragazza, una ragazza che mi faceva
un'impressione talmente vivida ma effimera, così strana e surreale
da poter evaporare da un momento all'altro, anche in piena giornata.
Era
proprio lei...
La
ragazza che avevo sempre amato.
I
ricordi bussarono prepotentemente. Erano caldi come il vapore
sprigionato dalle salse che ogni giorno preparavo per il mio ramen.
Il
mio era stato amore, un amore profondo e viscerale da far male...
Lei
era la mia vicina di casa, una piccola e graziosa bambina con le
codine, talmente timida e indifesa da far sorridere.
Ed
io, geneticamente programmato “Don Giovanni”, mi ero subito
cucito addosso i panni di principe coraggioso e impavido, salvatore e
difensore della mia principessa.
La
mia “favola” non ebbe vita lunga, suo padre venne trasferito e
lei dovette cambiare casa, cambiare città.
La
rividi dopo tredici anni.
All'epoca
mi ero iscritto all'università e fu proprio lì che il mio cuore
ricominciò a battere come non mai.
In
realtà, sono sempre stato un super donnaiolo, e all'epoca perdevo la
testa circa tre volte al giorno.
Andavano
bene tutte: bionde, more, alte, grasse, magre, brufolose o meno.
La
donna andava celebrata, sempre e nonostante tutto!
Ma...
Lei era semplicemente lei, il mio primo vero amore.
Passavamo
gran tempo insieme, come una coppia fissa inconsapevole del legame
profondo che l'unisce.
Non
ha mai compreso appieno i miei sentimenti, ho pagato amaramente il
mio atteggiamento tutto cuori e moine che generalizzava qualsiasi mio
rapporto con l'altro sesso.
Ed
io...Beh, non mi ero ancora dichiarato.
Quei
due si erano incontrati grazie a me -benché non l'avessi fatto
intenzionalmente.
Ho
lasciato che il tempo e lo spazio prosciugassero avidamente tutti i
miei progetti, e proprio quando ero fermamente convinto di prendere
ciò che volevo, che in un certo senso mi “spettava”, mi
ritrovai, sconfitto, con una manciata di mosche nelle mani.
Aprile
2007, 9.30 p.m.
Dovevo
dichiararmi.
Dovevo
dichiararmi davanti ad un bel piatto fumante di ramen.
Il
ramen che lei adorava.
Perfetto,
unico, emozionante se solo non ci fosse stato quel maledetto
campanello e quella porta che, una volta aperta, aveva rivelato il
mio caro migliore amico.
Bello,
seducente, artista e genio ribelle con un unico vizio: il ramen
cucinato da me!
Colpo
di fulmine, colpa del ramen, non lo so...
L'unica
cosa certa in quella triste e malinconica cena erano loro due che,
mano nella mano, si allontanavano da me percorrendo una strada fatta
di vapore squisito e onde calde formato tagliatella.
Era
lì, vivida e concreta, proprio dentro la mia zuppa di gamberetti e
sedano l'immagino di loro due che camminavano, lasciandomi
irrimediabilmente indietro.
Cosa
provai?
Rabbia,
disperazione e una profonda invidia, destabilizzante direi.
Invidioso
di lui, che mi stava strappando, proprio davanti al ramen, il mio
unico amore.
Invidiosa
di lei, che con un solo sguardo era riuscita a catturare l'amico
fraterno portandomelo via.
Non
riesco tutt'ora a decifrare l'invidia incommisurata che mi entrava
dentro, scalfendo la mia anima, ad ogni nuovo boccone amaro di ramen.
-Scusa
se ti disturbo, -mi disse, -finalmente sono riuscita ad
entrare in contatto con te... Sono molto contenta, Sanji.
Seguii
con gli occhi il filo del telefono. Era collegato, non c'era dubbio.
Detti una risposta molto vaga, cercando di celare il senso di
sorpresa non gradita. Nella voce di lei sentivo una certa angoscia,
ma io volevo evitare qualsiasi contatto.
-
Sanji... Non so perché o come sia stato possibile allontanarsi così
tanto. Sai... Io e soprattutto Lui ti pensiamo ogni giorno. Non
riusciamo proprio a capire perché tu sia andato via così, senza
motivo, dalle nostre vite!
-Ma
dai, su... È successo, non saprei darti un motivo, davvero! Mi sono
semplicemente trasferito e nulla più! È passato semplicemente il
tempo. - Dissi, con una voce che non mi sembrava neppure la mia.
Era
vero che non li vedevo da anni, nonostante sapessi il loro indirizzo
e il numero di telefono.
Non
chiesi nemmeno come fossero riusciti loro ad avere il mio,
sicuramente era colpa di quel nasone di Usop, ma non mi importava poi
più di tanto. Volevo solo richiudere quella crepa che si era
nuovamente aperta dentro me con quella semplice chiamata.
Lei
stette zitta.
La
cornetta del telefono era diventata fredda come il ghiaccio.
Poi
ogni cosa intorno a me si trasformò in ghiaccio.
-Mi
spiace, ma...
-Ascolta
Sanji, lo so che è doloroso, che forse non mi puoi sopportare, -
disse la ragazza di punto in bianco.
Cosa
potevo risponderle?
-Mi
spiace, -ripetei, -ma adesso ho il ramen sul fuoco.
-Cosa?
-Ho
messo a bollire del ramen, - inventai. Chissà perché mi venne
in mente questo pretesto. Però era una bugia che si adattava
perfettamente al mio stato d'animo. In quel momento non mentivo del
tutto.
Riempii
d'acqua immaginaria le pentola, vi gettai dentro una manciata di
ramen immaginari e regolai il timer a dieci minuti.
-Allora
non posso lasciarli sul fuoco,se no scuociono.
La
ragazza non rispose.
-Scusami,
ma la cottura della pasta è una cosa delicata.
Ancora
silenzio dall'altra parte del filo. Nella mia mano la temperatura
della cornetta tornò sotto zero.
-Però
puoi richiamarmi più tardi, se vuoi, -mentì spudoratamente.
-Perché
hai il ramen sul fuoco? - chiese lei.
-Sì.
Appunto.
-E
li stai preparando per qualcuno, o hai intenzione di mangiarli da
solo?
-Li
mangio da solo.
La
ragazza trattenne il fiato per lunghi secondi, poi fece un profondo
respiro.
-Probabilmente
ti risulterò insistente ma... Io e lui ci sposiamo il mese prossimo.
Vorremmo tanto che tu venissi... Ci manchi molto.
Rimasi
zitto un momento a pensare al mio piatto di ramen e a loro due mano
nella mano, sempre più lontani.
-Sono
desolato, ma...
-C'è
anche un'altra cosa importantissima: la nostra bambina, Naoko,
vorrebbe tanto conoscere lo zio Sanji!
-Ah!
Una figlia... Congratulazioni ad entrami, per Naoko e per il
matrimonio – risposi senza pensarci.
D'altronde,
congratularsi vuol dire esprimere con garbo la propria invidia.
Ma
invidia di cosa? Di lui, che aveva avuto tutto ciò che poteva essere
mio, o di lei, che aveva rubato il mio amico?
-Scusami,
ma...
-Ma
devi occuparti del tuo ramen, vero?
-Già.
Lei
fece una debole risata.
-Arrivederci,
disse.- Spero di rivederti tra un mese. Salutami il tuo ottimo
ramen. E buon appetito.
-Arrivederci,
- risposi.
Quando
riattaccai, la pozza di luce sul pavimento si era spostata di qualche
centimetro. Di nuovo mi ci sdraiai sopra, e mi misi a guardare il
soffitto.
Pensare
al ramen che bolle in eterno, ma non è mai cotto, è molto triste.
Forse
quella volta avrei dovuto dirle tutta la verità, adesso me ne pento
un po'.
Ogni
tanto mi chiedo che fine abbia fatto quella ragazza, di solito questo
pensiero mi viene quando mangio del ramen.
Ma
ho capito una cosa.
All'epoca
non avevo voglia di riallacciare i vecchi rapporti.
Per
questo continuavo a prepararmi il ramen da solo. In quella pentola
che avrebbe potuto contenere un koala.
Tagliatelle
di frumento cresciuto in Cina, servito con brodo di carne e/o pesce,
spesso insaporito con salsa di soia o miso o con guarnizioni in cima
come maiale affettato, alghe marine secche, cipolla verde e, a volte,
mais
Chissà
come sarebbero stupiti i cinesi se sapessero che ciò che esportavano
nel 2009 era l'invidia e la solitudine...
Note dell
autrice: Oddio, non può essere
vero! Ho scritto una fanfiction su Sanji?!
Sembrerebbe
proprio di si! ^^
È
il mio primo esperimento, generalmente sono una Zo/Nami ma, grazie al
contest “Guerra, sesso, invidia e peccato” di 9dolina0 (al quale
partecipo proprio col suddetto lavoro) ho provato il brivido di
mettermi nella testa di monociglio!
Spero
sia uscita una storia carina, mi piace troppo il suo stato d'animo
espresso chiaramente nel suo modo di cucinare il Ramen!
Ho
volutamente evitato di dare nomi e sembianze alla sua Lei e al suo
caro amico, lascio tutto alla vostra fantasia!
Solo
un appunto: il Ramen è si un piatto tipico giapponese ma ha origini
prettamente cinesi, ecco il motivo della parte conclusiva.
Fatemi
sapere, eh!
Grazie
a chi leggerà :)
Baci
da sof_chan
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