IN
MANCANZA DI TE
Dicono che con il caldo di questa stagione i miei reumatismi
si faranno sentire un po’ meno. Ma tutto questo non mi fa
star meglio.
Guardo da basso, fuori dalla finestra: due bambini che si fanno la
guerra. Uno ha in mano dei sassi, l’altro un piccolo bastone.
Si rincorrono a vicenda minacciandosi del male, ma poi finiranno come
ogni giorno a dividersi la merenda.
Dio, se si potesse tornare indietro e riaverti qui, fra le braccia! Ma
so che non è possibile. E neanche i ricordi possono
restituire la verità del passato, gli istanti che ieri
chiamavamo domani.
Domani… già, domani… Domani
sarà un giorno non dissimile da oggi, anzi: uguale. Io mi
sveglierò sudato dopo aver passato una notte tremenda ad
invocare il tuo nome nel sonno. Mi guarderò allo specchio da
appena alzato e sputerò contro quel volto così
vigliacco. Maledirò ogni giorno vissuto senza di te, e poi
ogni ora, e poi ogni minuto, e infine ogni istante. Cercherò
come al solito di farmi forza, guardando fuori da questa dannata
finestra chiusa. Vedrò quei due palazzi grigio scuro innanzi
al mio che sembrano due incudini, e quando fa il temporale Vulcano
sembra modellarci sopra le saette di Giove. Scorgerò quel
porco del mio vicino avvicinare ogni giovane ragazza che attraversa il
parchetto qui sotto. Poi i soliti bambini; i vecchi che escono alle sei
e mezza del pomeriggio, con il caldo che scema progressivamente, e
vanno a fare la spesa. E poi guarderò il cielo: senza una
nuvola, senza un’increspatura nel suo azzurro, falso e vuoto,
come tutte le cose che mi circondano.
Con te passavo ore bellissime: discorsi che non finivano mai e che
costeggiavano tutti i lembi della vita. Si parlava anche per giorni
interi di politica, arte, religione, sport e spettacolo. Ci
raccontavamo di noi. Delle stupidaggini commesse anni addietro,
complici la gioventù e l’inesperienza. Facevamo
progetti per il futuro, su noi due. Oggi non ho da parlare che con
Pietro. O meglio, è lui che parla per tutti e due. Mi fa
domande, cerca di interpretare i miei silenzi, e –
immancabilmente, quasi con rassegnazione – si dà
delle risposte. Sta qui, seduto su una vecchia sedia marrone a fissarmi
mentre guardo fuori dalla finestra. Lui guarda me, io guardo fuori. E
nessuno dei due vede dentro l’altro.
Ecco: adesso è uscita la signora Bennoni,
l’inquilina del terzo piano. È vedova, senza
figli, senza nessuno tranne quei tre o quattro gatti senza casa che
abitano il parchetto. E trascorre così le sue giornate.
Penso proprio che se passasse la proposta del dottor Ferri di cacciare
quei “gattacci”, probabilmente manderemmo via, in
esilio, anche l’anima della povera signora Bennoni.
Incosciente è la gente, e chi l’asseconda.
Ma tu, tu che eri sempre così comprensiva, disponibile ed
autentica, che cosa fai adesso? Conoscendoti bene, acuta osservatrice
quale sei, trascorrerai il tuo tempo a cercare di incrinare lo smalto
del cielo con la tua fantasia, a mettere un po’ di disordine
dove l’ordine regna sovrano. È questo che mi manca
di te: me stesso, com’ero prima. So benissimo che non
tornerai mai più, che un discorso si chiude solo quando se
ne inizia un altro.
Vedi come ragiono bene? Come so essere ancora maledettamente poetico? E
invece dicono che sono pazzo. Ma sai benissimo anche tu che non
è vero. È solo che ho avuto un bravo avvocato. Ma
tutto ciò non mi restituisce te. Tutto il giorno prigioniero
nella mia casa, con Pietro a farmi da assistente sociale e da angelo
custode. E tutto questo perché? Perché a volte,
quando si vuole troppo una cosa, non si distingue un abbraccio carico
di passione da un soffocamento carico d’amore. Questo
è il brutto della vita. Della mia vita. E di quella che era
la tua.
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