Scuola di anoressia
Scuola di anoressia
Era vecchio, rugoso e stanco, con due borse
violacee sotto gli occhi e le vene in evidenza sulla pelle bianca.
Ma non potei fare a meno di notare che era incredibilmente
magro, quasi trasparente sotto il mio sguardo puntiglioso.
Gli andai vicino, vergognandomi di me stessa, dei miei
chili in evidenza che sporgevano dalla felpa grigia e pregai intensamente che mi
lasciasse passare.
Alzò lo sguardo dalle sue pratiche, mi osservò e in un
attimo capì. Con calma tirò fuori dal mucchio di carte un modulo e prese una
penna dal taschino interno della sua giacca color mogano.
«Scriva qui il suo nome e il suo cognome, prego» mormorò
con voce roca e si passò una mano sui capelli bianchi ben pettinati
all’indietro.
Ubbidii, sentendo la fame afferrarmi lo stomaco senza che
potessi fare nulla. Ebbi un fremito e lottai con tutte le mie forze per non
piangere, e mi sentii improvvisamente sollevata quando i miei occhi si
asciugarono e il bisogno si placò. Tentai di sbirciare le altre domande ma lui
si riprese il foglio con movimenti studiatamente calmi, e, inforcati degli
occhialini, chiese:
«Il suo peso corporeo, signorina?»
«65» risposi in un soffio, e lo vidi chiaramente storcere
il naso.
«La sua altezza?»
«Un metro e settanta» bisbigliai in risposta.
Adesso scuoteva la testa ostentatamente, un’espressione di
disgusto dipinta in volto.
«Da quante ore non mangia?»
«Diciannove» risposi, e, quasi a ricordarmelo, vacillai
sotto il peso della fame che premeva. Mi appoggiai alla scrivania e respirai
profondamente, aspettando che la sensazione si placasse.
«Lei sa cosa deve fare per mantenere questo equilibrio?»
chiese sempre con quell’odioso tono impersonale.
«Non lo so» replicai, troppo stanca per sembrare gelida e
distaccata «me lo dica lei.»
«Deve bere molta acqua» spiegò con un lieve sorriso sulle
labbra «e usare molte gomme da masticare.»
«Fanno passare la fame?» risposi stupidamente.
«Più di ogni altra cosa, così come l’acqua» mi disse,
scrutandomi con aria di compatimento «un bicchiere alla volta, o se desidera
anche più di uno, placano lo stimolo in maniera incredibile.»
«Cosa potrò mangiare?» domandai, anche se dentro di me
avvertivo già la risposta.
«Assolutamente nulla» sorrise, e all’improvviso quel suo
modo di scoprire gli incisivi e contrarre tutti i muscoli facciali mi sembrò
vagamente inquietante, quasi spaventoso. Sentii nuovamente le lacrime pungermi
gli occhi, ma le ricacciai indietro prontamente.
Non sapevo perché ero lì, ma dentro di me c’era l’intima
certezza che avrei dovuto restarci per un bel po’. Sapevo a cosa andavo incontro
fin da quando avevo varcato la soglia e incrociato lo sguardo di quell’anziano
uomo seduto alla sua scrivania, con le sue piccole certezze, che accoglieva con
la stessa identica freddezza tutte le ragazze e i ragazzi che entravano lì.
Sapevo di essere arrivata a un traguardo, dopo quasi venti
ore di digiuno, ma non sapevo se ero davvero pronta ad affrontarlo, se ero
davvero disposta a entrare nel baratro e restarci fino all’epilogo,
assolutamente ignoto.
Io non diventerò anoressica, pensai in quel momento
esatto, mangerò solo un po’ di meno qui. Ecco, solo questo.
Una falsa certezza, naturalmente, ma che fu capace di
scaldarmi il cuore e farmi sollevare la testa.
«Quanto devo pagare?»
«Non ce n’è bisogno» rispose «per i casi come il suo
garantiamo noi. Io, in particolare» sorrise sempre in quel modo spaventoso.
Non ricambiai né risposi. Mi limitai semplicemente a dire:
«Può darmi l’orario delle lezioni?»
Mi porse immediatamente un foglio apparso dal nulla, ma non
lo guardai. Mi limitai a piegarlo in quattro e poi a riporlo nella tasca dei
jeans, sentendomi osservata dagli occhi intelligenti di quell’uomo, temendo di
accasciarmi da un momento all’altro.
«Un’ultima cosa…» esitai. La mia voce tremava.
Risollevò lo sguardo e incrociò il mio, che sentivo essere
indifeso e insicuro, e l’occhiata compassionevole che mi rivolse fu la goccia
che fece traboccare il vaso. Non richiesta, una lacrima scivolò giù per la mia
guancia calda, e me la asciugai tentando di ostentare dignità, naturalmente
fallendo su tutti i fronti.
«Se uno vuole» incespicai, cercando le parole giuste,
temendo che non avrebbe capito «voglio dire, se uno vuole andarsene, può farlo?»
Non rispose, sorrise, e vidi come un velo andare a coprire
i suoi occhi chiarissimi.
«No» rispose «mi dispiace, signorina.»
«Ah» feci, sentendo già le lacrime premere per scendere
«allora ok, d’accordo. Non si preoccupi, grazie.»
Annuì e poi indicò alla sua destra. «Per di là, signorina»
mormorò.
«Sì, certo» balbettai, e, facendomi forza, mi avviai verso
la porta che mi aveva additato, a testa bassa.
Varcai la soglia senza staccare gli occhi da terra, e,
prima di chiudere la porta, quel pensiero tornò ad affacciarsi, tornò a
solidificare le false certezze che mi turbinavano da tempo nella testa.
Non diventerò anoressica, mangerò solo un po’ di meno,
qui.
E’ una cosa che mi sta succedendo,
niente di più. È la prima nonsense che scrivo e non so quanto sia insensata, è
solo che avevo bisogno di sfogarmi.
Quello è il
pensiero che mi circola nella testa da parecchio tempo, solo questo. |