Era
lì. Lo ricordava bene.
Ne sentiva quasi
il profumo,
tanto da ricordargli qualcosa che aveva visto solo in immagini
sporadiche.
L’uomo
si era immerso nei
bassifondi perché era lì che l’aveva
visto durante il suo turno di vigilanza,
promettendosi alla fine che sarebbe ritornato. Erano passati ormai dei
mesi.
La notte rendeva
i bassifondi
di Gurakar ancora più lugubri. Nella città
vecchia era sempre così. Il fetore
della spazzatura e dell’aria insalubre, rendeva quel luogo
quasi invivibile ed
era per questo che lo sorprendeva ancora di più aver visto
quella cosa proprio
lì.
Come poteva
vivere ciò che
aveva visto?
Si guardava
intorno con
circospezione. Si era mascherato, aveva cercato di somigliare alle
persone che
vivevano nelle topaie che chiamavano casa. A quelle persone che erano
costrette
ad andare a lavorare nelle varie fabbriche, così che i
potenti avrebbero potuto
tenerli sotto il loro giogo, promettendo loro una sola
possibilità di salire
dall’ascensore e farsi una vita più salubre e
più dignitosa.
Una sola
possibilità di
entrare nelle torri-gioiello.
Strutture che
risplendevano
azzurrine alle sue spalle e verso cui l’uomo si era voltato
per qualche istante.
Erano state costruite dopo la guerra che aveva devastato il mondo e
pian piano
erano cresciute, come dei piccoli frassini, erano diventate gigantesche
e dopo
tanti anni dominavano la superficie e i sogni di chi non poteva
permettersi di
viverci.
Con il passare
degli anni
tutto era diventato insostenibile e i grandi del mondo avevano fatto
ricostruire le città dentro queste torri, comunicanti tra
loro da ponti in
titanio praticamente indistruttibili.
L’aria
pulita veniva filtrata
dall’alto e, sui tetti delle costruzioni, vi erano dei grandi
canalizzatori
d’aria che portavano l’ossigeno nei vari piani
della torre.
Dal giorno della
loro
costruzione erano passati ormai cento anni e nessuno più
ricordava come fosse
la terra prima della guerra. Prima dell’Armageddon.
L’uomo
non sapeva e né aveva
intenzione di conoscere quella parte di storia
dell’umanità. Lui era nato nelle
torri dove avevano sviluppato una tecnologia tale da sostituirsi a Dio.
Il nome
dell’uomo era Sevin.
Ne
sentiva la presenza
costante e ciò che la spaventava era ciò che era
successo un po’ di tempo prima
con una sua amica. Il cuore le batteva all’impazzata e
inoltrarsi in quel luogo
non era assolutamente consigliabile per una come lei, un posto dove
neanche i
Vigilantes osavano entrare.
Kirda aveva
chiuso le mani sul
cuore e si era stretta le braccia al corpo, ma doveva arrivare a costo
di
mettere in pericolo la sua vita.
Si era convinta
dopo che aveva
capito che la notte non poteva dormire se non l’avesse
protetto da quel posto e
dal marciume. Ma ciò che la terrorizzata era essere
catturata per essere
venduta come schiava o essere smembrata per il commercio di organi.
Dopo
l’Armageddon il mondo era
peggiorato e i ricchi si erano rintanati nelle torri-gioiello che
mostrava loro
una protezione più che funzionale. L’unico modo
per entrare era un ascensore
super sorvegliato. Quella promessa che avevano fatto, però,
non l’avevano mai
mantenuta e a nulla era valso il tentativo di ribellione che era stato
perpetrato pochi anni prima. I Vigilantes, le guardie delle torri che
ogni
tanto scendevano per dimostrare loro a chi era affidato il comando,
avevano
l’ordine di sparare a vista se qualcosa poteva ledere la loro
persona o quella
dei potenti.
Kirda era
spaventata, come
tutti gli abitanti di Gurakar, abbassava la testa al passaggio dei
Vigilantes e
loro si approfittavano di questo stato d’animo, tanto da
irretire molte giovani
donne e promettergli cose che non erano in loro potere. Lei era figlia
di una
di queste donne e viveva nella zona più scura della
città. La zona denominata
la Keep-Out.
Gli occhi di
Kirda si erano
fissati su un punto non preciso della strada, dove fiumi di vecchi
pezzi di
metallo arrugginito se ne stavano lì, come guardiani silenti
di quel posto.
Nella testa della donna viaggiavano parecchi pensieri e ormai, dalla
morte
della madre, non le era rimasto nulle che non cercarsi un pericolo.
Vagava in
quel luogo e molte volte si era trovata in situazioni che avrebbe
voluto e
dovuto evitare, ma neanche dopo quelle esperienze aveva avuto il
coraggio di
uccidersi.
Si era poggiata
ad un muro
lercio e cadente. Respirava quasi a fatica quando ripensava al passato,
ma
erano i pochi momenti che la tenevano ancorata alla vita. Ma quel
respiro
diventava sempre più pressante ogni giorno
che passava e il corpo pesante e spossato ogni colpo di tosse che
faceva.
Non sapeva se
fosse malata o
cosa, ma quel poco che le restava da vivere voleva passarlo a quel
modo. A
cercare ciò che restava del suo mondo.
Sevin
si era soffermato davanti
a un palazzo fatiscente. Non ricordava bene ma lì aveva
effettuato un arresto.
Sì, gli sembrava proprio quello.
L’uomo
era stato giustiziato
lì, proprio in quel momento. Loro non erano solo i servitori
della legge, ma
anche i fautori delle sentenze.
Gurakar aveva
questa
particolarità.
In quel giorno
non era venuto
né per arresti e né per sentenze, era solo venuto
per vederlo di nuovo; per
imprimere nella sua mente la sua immagine, prima che la vita
l’abbandonasse.
Aveva solo
girato l’angolo e sentì
un sibilo dietro la schiena, tanto da costringerlo ad acquattarsi
contro il
muro interno di una casa semi distrutta. Sentì una stretta
allo stomaco e ciò
che successe fu talmente improvviso che, andando avanti nel tempo, non
riuscì
nemmeno a ricordare.
Dal nascondiglio
riuscì a
scorgere un gruppo di persone che, senza
ombra di dubbio, apparteneva a qualche banda in cerca di organi bionici
e umani
da rivendere al mercato nero. Purtroppo, nella Keep-Out, non c’era il tempo
chiedere perdono o semplicemente uno “Scusatemi,
non tornerò mai più”. In quel posto
bisognava solo reagire e Sevin sapeva che
sarebbe stata la sola cosa che avrebbe potuto fare.
Kirda
rimase acquattata contro
il muro. Nel momento di muoversi sentì delle voci
e notò poco dopo quel gruppo di uomini. Lei
era fuori dall’ordine del coprifuoco e non c’era
giustizia in quella parte di
città. Dunque rimase lì, stretta con le braccia
al petto e con il cuore in gola.
Li aveva sentiti passare e infine soffermarsi poco lontani da lei.
-Allora, Fos,
vogliamo muoverci
o no?
L’omone
pieno di tatuaggi, dal
viso pieno di cicatrici e dall’occhio guercio si era voltato
verso l’uomo che
aveva parlato e alla fine gli era bastata un’occhiata con
l’occhio buono per
far tacere il suo interlocutore. Fos era il classico tipo con il quale
era meglio
non scherzare. Era il completo figlio di puttana che era meglio non
incontrare
per strada e in quell’ambiente era conosciuto con il
Massacratore. Dopo aver derubato
le vittime di ciò che non gli sarebbe servito più
dopo la morte si divertiva
con i corpi come se fossero bambole di pezza.
La mano di
metallo si muoveva
come una morsa e quando se l’era fatta fare era stata
ritenuta una delle
migliori della tecnologia delle torri-gioiello. Le varie terminazioni
nervose,
le vene e i muscoli erano collegati a quel metallo come se fosse il
semplice
prolungamento dell’arto. La mano in carne se l’era
fatta staccare per
assaggiare quella tecnologia rubata da un carico destinato alle
torri-gioiello.
L’omaccione
aveva digrignato i
denti e aveva sorriso appena.
-Aspettate!
Non era stato
Fos a parlare,
ma qualcuno vicino a loro. Un uomo alto e smunto che aveva la
facoltà di
sentire l’odore degli esseri umani. A tutti poteva sembrare
che non servisse a
niente nella compagnia, ma solitamente era lui che trovava le vittime
dei loro
traffici.
-Sento un odore
diverso dal
nostro.
Lo aveva detto
annusando
appena l’aria. Questa facoltà era dovuta al naso
costruito con una
nanotecnologia di qualche anno prima. Se l’aveva fatta
impiantare per cause di
forza maggiore. Con la sua debolezza di un corpo un po’
deforme (a causa degli
arti troppo lunghi) aveva trovato il modo per non essere ucciso da
quelli più
forti e giù grossi di lui.
Fos gli aveva
riconosciuto un
potenziale.
Hirz,
così si chiamava, aveva
individuato la preda e dunque indicò semplicemente con il
dito tremante un
luogo verso alcune macerie, mentre sopra le loro teste, a molti metri
di
distanza, viaggiavano le macchine volanti dei Vigilantes.
Due uomini si
diressero verso il
luogo indicato da Hirz e tirarono da dietro il muro una donna tremante.
Era
Kirda che non era riuscita a scappare dal suo nascondiglio
perché aveva paura
di fare troppo rumore e la sua ultima speranza era non la sentissero se
fosse
rimasta nascosta.
-Ma guarda chi
abbiamo qua.
Fos
l’aveva guardata, mentre
Kirda cercava di liberarsi divincolandosi come poteva, ma la presa era
troppo
stretta e gli uomini troppo forti. Almeno per una come lei.
Di una cosa
Kirda era certa.
Questa volta non l’avrebbe scampata.
Sevin
era rimasto a guardare la
scena e per quanto cercava di non voler essere l’eroe di
turno, non ne riuscì a
fare a meno, anche perché quella ragazza la conosceva ed era
l’unica che sapeva
il punto esatto per poter recuperare ciò che stava cercando.
Sevin prese un
profondo
respiro e restò per qualche altro attimo nascosto, anche
perché l’uomo dal naso
bionico aveva cominciato ad annusare nuovamente l’aria. Avere
quel potere
doveva essere molto appagante, ma anche quello che avevano impiantato a
lui in
quanto Vigilante, serviva a qualcosa.
Sevin si
alzò in piedi e
iniziò a dirigersi verso il gruppo di uomini che avevano
preso la ragazza e il
braccio destro, dove tutta la sua forza era concentrata,
iniziò ad illuminarsi
di una tenue luce azzurrina, lasciando che tutte le nervature
meccaniche
venissero messe in risalto dal liquido che refluiva
all’interno di queste. Le
dita del mano scricchiolarono per qualche istante. Quando lo usava si
sentiva
come se una parte della sua umanità gli scivolasse fuori e
lo rendeva più
simile ai robot che lavoravano nelle torri-gioiello.
-Quel braccio
farebbe proprio
al caso mio.
Il flusso dei
pensieri fu
interrotto dalla voce gutturale di Fos che aveva immediatamente
adocchiato
quell’arto meraviglioso.
-Ma non
è quello che usano i
Vigilantes?
La voce di un
altro uomo
interruppe il discorso e tutti si voltarono verso Sevin che non
poté fare a
meno di sorridere appena a quella presa di coscienza improvvisa.
Quell’arto
veniva impiantato durante l’addestramento a Vigilante senza
però eliminare
l’arto originale. Era una delle poche tecnologie che quelli
di superficie non
erano riusciti a scoprire.
Sevin rimase
coperto dal
mantello lercio che si era portato dietro, non scoprendo mai il capo e
non
facendosi guardare in volto.
Non aveva
parlato e non aveva
detto nulla, ma nei suoi occhi si leggeva la rabbia che aveva represso
fino a
quel momento. Il suo corpo e il suo stesso spirito esigevano carne e
sangue,
esigevano sentenze.
In quel momento
non ci fu più
nulla da dire perché tutto fu buio.
Kirda,
dopo l’attacco, era
rimasta chinata a terra e gli occhi castani avevano cominciato a
lacrimare
dalla troppa polvere sollevata dall’uomo durante il
combattimento. Non era
riuscita a vederlo e questo la spaventava molto di più. Non
aveva il coraggio
di vedere ciò che aveva fatto agli uomini che aveva
attaccato. Sapeva come
operavano i Vigilantes e sapeva anche come si doveva fare in questi
casi.
Fuggire.
Si
alzò e cercò di premere sul
piede che faceva da leva per darle uno scatto maggiore. Non ce ne fu il
tempo,
perché si sentì strattonare da un braccio e,
dall’annebbiamento della polvere
sollevata, si avvicinarono due occhi azzurri tutt’altro che
malvagi.
-Stai bene?
Lei non aveva
parlato ed era
rimasta con gli occhi sgranati e le mani aperte come a proteggersi. Ne
aveva
paura, come li temevano tutti gli abitanti dei bassifondi. Erano bestie
senza
un briciolo di umanità.
-Non dirmi che
stai dietro
alle credenze sui Vigilantes?
Kirda continuava
a non
rispondere ma comprendeva che non farlo lo avrebbe fatto arrabbiare
ancora di
più e dunque gli fece un breve cenno di assenso con la testa.
Sevin sorrise
appena, beffardo
e le lascio andare il braccio. Era pieno di sangue e olio e questo
poteva
significare solo una cosa. Di quegli uomini non se ne era salvato
neanche uno.
-Se fosse come
credi tu, al
momento non staresti qui a guardarmi come se fossi un mostro.
Kirda si rimise
in piedi e
mosse qualche passo indietro. Aveva paura e glielo si poteva leggere
sul volto
senza che parlasse. Lui, però, in quei passi che faceva a
ritroso la seguì; più lei arretrava,
più lui avanzava.
Era alto, molto
alto! Molto più
di lei, e si vedeva che il suo corpo era stato sottoposto ad una
miriade di
allenamenti a differenza del suo, smagrito e debole. Risultava evidente
che lui
non proveniva dal suo mondo.
-Bene,
ricominciamo daccapo.
E detto questo
Sevin andò a
massaggiarsi la testa, portando indietro i capelli neri. Nel contempo
porse la mano
libera verso di lei.
- Sono Sevin!
L’uomo
sapeva che era
sbagliato, sapeva che doveva evitare qualsiasi contatto con quella
gente; non
capiva perché interiormente sentisse il dovere di far in
modo che lei si
fidasse di lui. Non conosceva ancora molti degli aspetti che i
bassifondi di
Gurakar potevano nascondere, tra le smisurate insidie e le ben
più pericolose
bande dei cacciatori di corpi.
Kirda in un
primo momento
cercò di evitare il suo sguardo e i suoi modi di fare. I
suoi capelli castani
erano ormai usciti fuori dal fazzoletto che aveva avvolto intono alla
testa e
le ricadevano sulle spalle. A differenza di quanto si poteva pensare
dei
bassifondi, le persone non erano sporche e luride come le vie in cui
vivevano
ma semplicemente erano nati in un mondo sfortunato.
La ragazza aveva
sollevato lo
sguardo e lo aveva guardato negli occhi e quegli occhi erano di una
persona
assolutamente sincera, anche se le credenze l’avevano sempre
tenuta lontana dai
sentimenti del proprio cuore.
-Sono Kirda!
Gli strinse la
mano e decise
di seguirlo anche perché al momento sembrava
l’unica colonna a cui potesse
poggiarsi e l’unico in grado di proteggerla. Lei doveva
raggiungere quel luogo
o tutto sarebbe stato perduto. Come riuscire a convincerlo a lasciarla
andare?
-Vorrei mi
portassi nel tuo
posto segreto.
Sevin lo disse
con una tale
naturalezza che Kirda sentì il proprio cuore perdere un
battito e dunque si
chiese come fosse possibile che lui sapesse di quel posto, come sapesse
che lei
aveva un posto segreto.
Lui le sorrideva
e lei, con
riluttanza, si fidò delle sue parole. Non poteva scappare al
momento, le sue
gambe non glielo avrebbero permesso.
Raggiunsero
il posto segreto
dopo molto cammino. Non essendoci alcun mezzo di trasporto nei
bassifondi, molti
si dovevano arrangiare con le proprie gambe. Si trovava
all’estremo nord della
città e visto che era proprio la Keep-Out
a difenderlo, difficilmente sarebbe stato possibile trovarlo senza una
guida.
Kirda ci era arrivata per puro caso e Sevin l’aveva vista tra
le macerie
durante una pattuglia con altri Vigilantes.
Appena arrivati
il cuore
dell’uomo si riempi di nuove speranze. Gli occhi si
spalancarono alla vista e
rimase con la bocca aperta per qualche istante.
Un giardino.
Piccolo, molto
piccolo. Tanto da non prendere neanche
lo spazio di un’auto, ma lui ne rimase affascinato allo
stesso modo. Non c’erano
molti fiori ma quelli che c’erano li riconobbe
immediatamente. Tante
margherite, cresciute lì, nel lerciume e nella spazzatura.
In quella zona dall’aria
irrespirabile.
Si
voltò per qualche istante
verso Kirda.
-Cos’è
questo?
Lei rimase per
qualche istante
interdetta e poi, rilassando le spalle gli rispose.
-Questo
è ciò che rimane del
nostro mondo.
Angolo
dell'Autrice
Non
mi spenderò in troppe parole, anche perchè l'ho
scritta di botto e ho avuto anche poco tempo per correggerlo. Non ho
mai scritto nulla del genere, quindi accetterò tutte le
critiche che vorrete farmi. Sinceramente ci tenevo a questo contest e
quindi, anche con il problema del trasferimento e del trasloco, ho
voluto scriverlo. Spero che vi piaccia e che mi facciate sapere il
vostro parere. Sappiate che ogni parere mi aiuterebbe a migliorare.
Partecipante
al contest indetto dalla pagina facebook "Io
scrivo su EFP"---->
"Quello che non
faresti mai:Reverse-contest" .
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