Come la notte nera - prologo
Fare
thee well - little broken heart
downcast
eyes - lifetime loneliness
whatever walks in my heart
will walk alone...
(Nightwish, Forever yours)
Oggi pomeriggio si laurea Su.
Finalmente,
mi viene da pensare, mentre scelgo la cravatta giusta da abbinare alla
camicia che ho scelto di indossare.
Non mancherei alla discussione della sua tesi per niente al mondo.
Su è l'ultima dei miei vecchi amici - quasi mia coetanea - a
concludere gli studi.
La sua laurea è la fine di un'epoca, in un certo senso.
Un'epoca che, per me, dovrebbe essere chiusa da anni.
So che i miei pensieri si stanno spingendo in una direzione che non
dovrebbero imboccare, eppure non intervengo. Il controllo ferreo che su di essi
esercito da anni mi snerva. Provo a lasciarli andare. A lasciarli
correre lungo il più nero dei tunnel. Tanto, so che cosa
troverò là in fondo.
Ci saremo tutti, credo.
Tutti quelli dei vecchi tempi.
Daniela. Genny e Paolo. Silvio e sua moglie Mary. Tiziano.
Alex - c'è sempre un Alex, no? E anche noi avevamo il
nostro.
Paoletta, che mi guarderà negli occhi e scoppieremo a ridere
come bambini, come sempre, com'è sempre stato.
E poi Chris e Vince, inseparabili come sempre, con le relative
fidanzate.
E Clara, la donna in carriera, chissà con quale principe
consorte al fianco, stavolta.
Forse non ne avrà, invece: gli uomini per lei vanno e
vengono, come le onde del mare.
Algida e sola, meravigliosa Clara, prigioniera di un fascino che non sa
di possedere e di un'insicurezza di cui, invece, è fin
troppo cosciente.
Tutti gli altri, insomma.
E Sara.
Forse.
Figuriamoci se Su non l'ha avvertita.
Magari, però, le ha detto anche che ci sarò io, e
lei preferirà non farsi vedere. Una donna farebbe
così.
Sara.
Com'è banale, vero? Ce ne saranno milioni, in Italia.
Nel mondo.
Quando una donna si impossessa della tua anima, la cosa peggiore che
può capitarti è che abbia un nome così
comune.
Un nome così comune che ad ogni passo ti imbatti in
altre donne che lo portano, cosicché, ad ogni passo, ti sembra di incontrarla di
nuovo.
E ogni volta è come se il cuore ti si fermasse nel petto.
Ogni volta vorresti urlare, perché non ammetti che altri
possiedano qualcosa che appartiene a lei.
Il suo nome, per fare un esempio.
O la tua anima, per farne un altro.
"Sara" non ha vezzeggiativi di sorta, affettuose varianti con cui
distorcerne il suono, diminutivi che ne addolciscano l'impatto sui
nervi.
Sara è così, pulito, nudo, tagliente.
Sempre.
Il cognome di Sara, di questa
Sara, dell'unica
Sara, è Pigna.
Come le cartiere.
C'era qualcuno che, per prenderla in giro, la chiamava Quablock, ai tempi.
Una battuta idiota, ma un po' idioti eravamo tutti.
Sono da sempre un frequentatore accanito di cartolerie, sempre alla
ricerca dei roller dalla punta più fine, delle carte
più belle.
E' ridicolo, disperatamente ridicolo, ma quando acquisto un quaderno di
quella marca non riesco ad usarlo.
Gli appunti delle lezioni si aggrovigliano.
Comincio ad annotare ai margini pensieri cupi, maledizioni scagliate,
inni al suicidio.
La mente mi si riempie di nuovo di lei, e non posso, non posso
permetterglielo.
Su si laurea oggi pomeriggio,
dicevo.
Ci saranno scherzi, ci saranno applausi. Ci saranno risate.
Su ha dedicato la tesi al padre, scomparso.
E poi c'è una seconda dedica. A me e a Sara, "i due punti
fermi" della sua vita.
Spero che nessuno tiri fuori le fotografie.
Quelle vecchie, intendo.
Ad ogni occasione, qualcuno lo fa.
Credo sia Dani, che vive nei ricordi dell'epoca più felice
della sua vita. Delle nostre
vite, di tutti noi intendo.
Ha una raccolta enorme di immagini, poesie, disegni.
Biglietti del cinema, delle mostre, dei treni.
Programmi degli spettacoli del nostro coro, perché noi siamo
un coro. O meglio, lo eravamo. Ci siamo conosciuti così.
Noi e molti altri, ma noi siamo rimasti.
Ad ogni occasione, dicevo, compare quel dannato quaderno. Pigna,
suppongo.
Quel dannato quaderno pieno di lei.
Non ho bisogno delle fotografie di Dani - o forse sono di Chris, non
ricordo.
Ne ho una anch'io.
Una sola, le altre non ci sono più.
Come non c'è più il vecchio poster di De
André.
Come non ci sono più i libri.
Sono rimasti solo i gemelli d'argento che mi regalò il
giorno della discussione della mia
tesi di laurea.
Una sola, dicevo, e ogni tanto la riguardo. E' nell'ultimo cassetto della mia scrivania, dove Chiara non arriva mai.
L'abbiamo scattata in un bar del centro, è un compleanno di Su. Il ventiseiesimo, credo.
Siamo intorno a un tavolino carico di tartine, su cui è stesa una ricca tovaglia color crema che sfiora il pavimento.
Abbiamo levato alti i bicchieri per brindare.
Da sinistra: Su ride di gusto, florida e dorata, come se la gioia di
vivere si fosse fatta carne e fosse giunta ad abitare in mezzo a noi.
Poi c'è Sara, esile e composta, come la notte nera, l'unica dei
tre che indossi abiti eleganti - ci aveva raggiunto dopo il lavoro, se
non ricordo male, ma ricordo benissimo. Un tubino scuro, corto al
ginocchio, la cui giacca giace informe su una sedia accanto a Su.
Io sono dall'altro lato. Non sto guardando verso l'obbiettivo, ma verso di lei. Com'è giusto che sia.
Alzo il calice con la sinistra, la destra è perduta sotto il
tavolo. Come la sinistra di Sara, che alza, invece, il calice con la
destra.
Un particolare insignificante, nessuno l'ha notato.
Ricordo la mano di Sara che era venuta a cercare la mia, protetta dalla tovaglia troppo lunga.
Ricordo la stretta delle sue dita sotto il tavolo.
Ricordo anche il contatto serico con i suoi collant, perché si era portata la mia mano sulle cosce.
Un gioco antico, tra di noi.
Nasconderci per sfiorare il fuoco che ci avrebbe arsi vivi.
Camminare spensierati lungo il ciglio dell'abisso.
Bambini a maneggiare una lama più tagliente di quanto potessimo immaginare.
Negarci l'uno all'altra e offrirci, offrirci e poi negarci, finché non ci siamo fatti a pezzi.
Ecco perché non ho bisogno di vedere le mille altre fotografie.
Lei è in tutte.
In costume di carnevale, a casa di Chris.
In calzoncini e canottiera, in vacanza, con gli occhiali da sole firmati che le aveva regalato suo padre.
Sciarpa e piumino, in stazione un pomeriggio, non ne ricordo la ragione.
Con la gonna nera e la camicetta bianca della divisa del coro.
In varie scene di gruppo, difficili da identificare.
Nella maggior parte, è con me.
In una immergiamo un cucchiaio ciascuno in un enorme barattolo di
Nutella, con in faccia un'identica espressione da bambini estasiati
assunta senza ombra di posa o di accordo previo, in assoluta
spontaneità.
In un'altra, assonnata, mi posa la testa sulla spalla e ha gli occhi
chiusi, come se si fosse addormentata. Era una festa di compleanno.
In una terza facciamo fotocopie, siamo in università. E' stata
Su a scattarla. Sara, furiosa, prende a calci la fotocopiatrice
recalcitrante, che le ha inghiottito la tessera a scalare e non ha
alcuna intenzione di restituirgliela. Io la osservo perplesso.
Ammaliato. Folgorato. La comicità di quella scena è
impossibile da descrivere.
Non ho bisogno di vederle per sapere, insomma.
Che nessuno mi mostri quelle foto un'altra volta, oggi. Per favore.
Annodo la cravatta. Raccolgo le chiavi della macchina, il portafoglio, il cellulare. Esco.
Ho indossato una camicia con i gemelli.
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