MOSTRO
Ricordo
quell’estate, dovevano essere sette anni fa, durante la quale
circolava una strana leggenda, inquietante ed affascinante al tempo
stesso; sembrava che nel nostro piccolo paesino fosse venuto a vivere
un Mostro.
Non
un assassino o un maniaco sessuale, intendiamoci, ma semplicemente un
uomo talmente brutto da essere inguardabile; inizialmente era
solo una voce, una cosa di cui parlare per spaventare le ragazze e
magari per fare colpo. Poi, quando iniziarono a parlarne anche gli
adulti, nessuno di noi di terza media aveva più dubbi sul
fatto che fosse tutto vero.
Per
quanto mi riguarda... beh, all’epoca la mia fervida
immaginazione più che dai mostri era presa da conturbanti
fantasie proibite riguardo le mie compagne di classe, fantasie
inconfessabili e tuttora inconfessate.
La
storia del Mostro non mi riguardò fino a che Elisabetta, la
ragazza di cui ero innamorato (meglio, una delle tante ragazze
di cui ero innamorato) non mi avvicinò all’uscita della
scuola, per parlarmi a tu per tu.
Non
ho una gran memoria, ma ricordo ancora quel momento come se lo avessi
vissuto pochi giorni fa: a quell’epoca non ero particolarmente
in gamba con le femmine, eufemismo per dire che ero un vero
imbranato. I miei compagni già narravano delle loro
entusiasmanti avventure, dei loro viaggi dentro le mutandine delle
studentesse delle superiori, o addirittura in quelle delle madri
altrui; e io ero abbastanza ingenuo da crederci davvero e da sentirmi
uno sfigato.
Elisabetta
mi si avvicinò tormentandosi nervosamente le mani e pensai che
non l’avevo mai vista così bella come in quel momento,
con i suoi capelli neri e la carnagione scura che risaltavano contro
il cielo rosso del tramonto; nessuno di noi lo diceva apertamente, ma
sono convinto che sotto sotto tutti quanti la trovassimo
bellissima... solo che quando sei in terza media, non puoi
permetterti di fare apprezzamenti alla ragazza più
intelligente della classe, quella senza un filo di tette né la
fama di una che la da. E' una secchiona,
e non si fanno apprezzamenti alle secchione.
«Ciao,
Betty» la salutai. Sicuramente sorridevo come uno scemo; la
cosa mi farebbe ridere, se non fosse che da allora non sono affatto
cambiato!
«Si,
ciao. Posso chiederti un favore?» mi disse lei, in tono
contrariato; se lei non era una ragazza particolarmente popolare tra
noi maschi, io ero letteralmente lo zimbello delle femmine. Doveva
essere proprio disperata per doversi rivolgere proprio a me per un
favore, ma io ero talmente cotto che anziché godermi quella
piccola rivincita nel vederla costretta ad una simile umiliazione, mi
sentii scioccamente in colpa.
«Ma
certo, se posso molto volentieri!»
«E'
per mia madre. E' una donna molto apprensiva e non vuole che faccia
la strada di casa da sola dopo il tramonto. Sai, lei crede a
quella storia.»
Il
periodo era fine aprile, le giornate si stavano allungando ma la
nostra professoressa di lettere era un'insegnante piuttosto severa e
in vista degli esami aveva preteso ed ottenuto che una volta a
settimana si tenessero delle lezioni pomeridiane di quattro ore,
dalle due fino alle sei di sera, quando il sole cominciava a
tramontare.
La
professoressa era una donna piuttosto intellettuale, non il tipo da
credere alle sciocche credenze provincialotte su mostri e stronzate
simili.
Ma
Elisabetta abitava a un chilometro di distanza dalla scuola, e
proprio a metà strada sorgeva il grigio e cadente condominio
in cui abitava il famigerato Mostro; non esistevano strade
alternative, bisognava passarci per forza davanti. E da un po' di
tempo, nessuno più si azzardava a passare a piedi sotto quel
palazzo dopo una certa ora, nemmeno quelli che a parole dicevano di
non credere alla leggenda del Mostro.
«Tua
madre crede al Mostro?» chiesi, perplesso.
Lei
fece una risatina sarcastica: «Si. Che stupidaggine, no?»
Io
alzai le spalle: «Non lo so. Tu ci credi?»
«Certo
che no!» rispose lei con il suo tono categorico, quasi
scandalizzato, che la faceva sembrare così matura, così
donna. Era quello che mi aveva fatto innamorare di lei. «E' mia
madre, te l'ho detto. Se mi vedesse rientrare da sola mi farebbe una
testa così. Vuole che mi accompagni un ragazzo.»
Quindi
era proprio questo che voleva chiedermi. Accompagnarla a casa. Il
sogno romantico di ogni ragazzo delle medie innamorato.
«Davvero
vuoi che ti accompagni io?»
«Ehi,
se non vuoi farlo posso chiedere a qualcun altro»
Mi
guardai intorno. Il resto della classe si era già avviato
oltre il cancello, in gruppetti di tre o quattro, in direzione del
tutto opposta a quella dove abitava Elisabetta; i più
fortunati avevano i genitori ad aspettarli con l'auto.
Se
non l'avessi accompagnata io, non l'avrebbe fatto nessun altro, e lei
doveva saperlo bene.
«Beh,
ti accompagnerei anche, ma io abito nell'altra direzione, e i miei
genitori lavorano fino a tardi e non possono venire a prendermi in
macchina.»
Rimase
a guardarmi con la bocca socchiusa e gli occhi sbarrati; Betty non
sapeva cosa dire e io meno ancora. Sentivo qualcosa come mille voci
nella testa dirmi che ero un coglione e un idiota, che non avrei mai
più avuto un'occasione simile, che se l'avessi accompagnata
forse lei mi avrebbe chiesto di fermarmi per cena. Ma tra quelle
mille voci ce n'erano anche alcune che mi dicevano di lasciarla lì
e andarmene, che se l'avessi ridotta alla disperazione mi avrebbe
chiesto di fermarmi non solo per la cena, ma anche per dormire
insieme.
Ma
prima che potessi scegliere a quali di quelle voci dare retta, lei
afferrò le mie mani tra le sue guardandomi con un'espressione
da gattina abbandonata.
«Per
favore» disse, e dal suo tono supplicante iniziai a dubitare
seriamente che fosse sua madre quella che aveva paura della leggenda
del Mostro.
«Ok»
balbettai. Mi sentivo le guance avvampare e un sorriso imbecille
stampato in faccia, ma fu un momento di felicità immensa, che
non scemò nemmeno quando lei, un secondo dopo, mi mollò
le mani.
«Grazie!
Ti ringrazio sul serio.» disse lei sollevata.
Varcammo
il cancello della scuola e ci incamminammo insieme lungo la strada
che portava verso casa sua.
Avevamo
fatto solo tre passi e già potevamo vedere stagliarsi contro
il cielo in tramonto l'inquietante palazzo dove si diceva vivesse il
Mostro.
Speranze
ed illusioni. Avevo sperato veramente che in quei dieci minuti scarsi
che avremmo passato insieme, tra noi sarebbe potuto nascere qualcosa.
Una semplice amicizia, o anche solo scalfire quel senso di
indifferenza mista a disgusto che Betty, come tutte le altre ragazze
della classe, provavano per me.
Non
nascondo che mi ero persino illuso che sarebbe successo qualcosa di
più, che lei mi avrebbe preso nuovamente per mano, che mi
avrebbe appoggiato la testa sulla spalla o che avrebbe tentato di
baciarmi.
Speranze
ed illusioni si spezzarono dopo neanche un minuto, quando una voce
dietro di noi ci chiamò.
Meglio,
chiamò Elisabetta.
Ci
voltammo all'unisono e vedemmo Carolina correre verso di noi, con il
fiatone e lo sguardo preoccupato.
Carolina
era una delle tante di cui ero stato innamorato; la mia
innamorata numero uno di tre mesi prima, se non ricordo male. Era una
ragazza alta, più di me che pure non ero poi così
basso, magra, con dei bei capelli biondi e un viso con un nonsoché
di adulto.
Lei
ed Elisabetta erano migliori amiche da una vita; io per lei ero un
semplice sfigato, e non perdeva occasione per dirmelo in faccia.
Ma
in quel momento, non sembrava fosse lì per insultarmi.
Elisabetta
non la salutò e nemmeno la guardò; come tutte le
migliori amiche tredicenni, stavano passando quella fase del rapporto
in cui non ci si parla e non ci si guarda.
«Che
vuoi?» le chiesi, bruscamente.
«Credo
che mia madre si sia di nuovo dimenticata
di venirmi a prendere. Faccio la strada con voi.»
«Davvero?»
chiesi, poi mi rivolsi ad Elisabetta: «Allora non c'è
più bisogno che ti accompagni io, se torni a casa con Carolina
tua madre non avrà nulla da ridire.»
«No!»
dissero loro all'unisono, afferrandomi una per un braccio e una per
l'altro; poi si guardarono in cagnesco e mollarono la presa
all'istante, ma era stato un momento grandioso. In un istante ero
passato dall'essere il ragazzino sfigato e insignificante il cui
massimo effetto sulle ragazze era quello di provocare risatine, ad
una sorta di cavaliere senza paura incaricato di proteggere le due
belle fanciulle dal terribile Mostro di via XXIV Maggio.
«Mia
madre ha detto che deve accompagnarmi un ragazzo» disse
nuovamente Elisabetta, poco convinta, e Carolina annuì
energicamente.
«Giusto,
che razza di uomo lascerebbe da sole due ragazze della nostra età
a quest'ora di sera, senza nessuno in circolazione? Non lo sai che la
maggior parte dei rapimenti avviene a quest'ora della sera? Non di
notte col buio, ma al tramonto, e proprio nelle vie più..»
«Ok,
ok. D'accordo, vi accompagno.»
«Grazie»
disse Carolina sorridendo, e fece quello che mi ero aspettato avrebbe
fatto Elisabetta: mi prese a braccetto e mi stampò un bacio
sulla guancia.
Ne
rimasi elettrizzato.
Elisabetta
le lanciò un'occhiata che non seppi decifrare. Speravo fosse
gelosia, probabilmente era qualcosa che solo una donna poteva capire.
«Andiamo
ragazze» dissi, incamminandomi. «Se non ci sbrighiamo, io
la strada per il ritorno dovrò farmela col buio.»
Via
XXIV Maggio si estendeva per quasi due chilometri; su un lato le case
popolari, i condomini, le grigie botteghe con le saracinesche
perennemente abbassate e le insegne che cadevano a pezzi; sull'altro,
una distesa sconfinata di campi di granoturco, in mezzo a cui di
tanto in tanto si vedeva spuntare un fantoccio a mo' di
spaventapasseri.
In
quel momento, mentre camminavo con la mia peggior nemica a braccetto
da una parte e la mia innamorata dall'altra, non ci feci molto caso,
ma una volta che avessi dovuto ritornare indietro da solo, col sole
ormai completamente scomparso dietro le montagne, quello scenario
sarebbe stato veramente angosciante, Mostro o non Mostro.
Che
poi, io al Mostro non avevo ancora deciso se crederci o meno.
Man
mano che ci avvicinavamo al condominio che ospitava il famigerato
Mostro, le ragazze mi si facevano più vicine; giunti
esattamente di fronte al sentiero che portava all'interno del palazzo
che era la sua tana, Carolina mi si appiccicò
letteralmente addosso ed Elisabetta mi strinse la mano.
Fossi
stato un pelino più scaltro, ne avrei approfittato per
allungare le mani; dubito avrebbero avuto da ridire, e forse nemmeno
se ne sarebbero accorte.
Gettai
anch'io un'occhiata all'appartamento: in effetti, c'era qualcosa che
metteva i brividi in quel posto... si aveva quasi la sensazione che
le finestre fossero in realtà occhi fissi su di te, e
soprattutto sulle ragazze che ti portavi appresso. E la porta
sembrava una bocca famelica, desiderosa di fagocitare le bellezze
locali, meglio ancora se giovani adolescenti nel fiore degli anni. La
carne fresca è più buona, e la paura la rende più
tenera.
Pensandoci
in quel momento, nessuno aveva mai saputo dare una descrizione del
Mostro: un gigante tutto muscoli? Un nanetto deforme? Una creatura
androgina o un qualche scherzo della natura travestito da clown?
Chissà.
Di
lui si sapeva solo che era brutto, bruttissimo. Capirai, gran bella
descrizione.
Forse
ognuno lo vedeva in modo diverso, una creatura in grado di prendere
le sembianze di ciò che più terrorizzava chi gli stava
di fronte.
O
forse era davvero solo una presa in giro.
Impossibile,
ci credevano anche gli adulti.
Quando
ci fummo lasciati alle spalle quell'inquietante palazzo, iniziò
un procedimento inverso a quello di poco prima: Elisabetta mi lasciò
andare la mano e Carolina si distaccò poco a poco, fino a
mollare del tutto la presa sul mio braccio.
Quindi
era già tutto finito?
Dopo
un paio di minuti, Elisabetta si lasciò sfuggire una risatina
nervosa, quasi di sfogo per il passato pericolo, che però mi
fece sobbalzare.
«Ehi,
ma l'avete vista oggi la professoressa di inglese? Che razza di
vestito...» disse, ma troncò la frase con uno strillo
acuto di terrore, quando sentì le urla gutturali dietro di
noi, a non troppa distanza; Carolina non strillò nemmeno,
scoppiò direttamente a piangere e mi si gettò addosso a
peso morto, avvinghiandosi, quasi si stesse arrampicando su un
albero. In un'altra occasione avrei trovato gradevole quel contatto,
ma Carol mi impediva di vedere cosa fossero quelle urla e in quel
momento la mia priorità era solo quella.
Non
poteva essere il Mostro, perché il Mostro non esisteva, gli
adulti si sbagliavano, dovevo solo scrollarmi Carolina di dosso e
avrei visto da me che si trattava di uno scherzo idiota di qualche
compagno di classe.
Elisabetta
era in ginocchio, con gli occhi colmi di panico e il respiro
ansimante, da attacco d'asma, e quando riuscii a togliermi di dosso
Carolina capii il perché fosse ridotta a quello stato.
Dietro
di noi, il Mostro aveva appena percorso il vialetto del suo palazzo e
ci veniva incontro zoppicando, completamente nudo, brandendo un
manico di scopa che nella sua grossa mano sembrava un semplice
stuzzicadenti.
Gridai
anche io, e pazienza se le ragazze avrebbero pensato che fossi una
femminuccia.
Lo
chiamavano Mostro non perché fosse semplicemente brutto. Era
terrificante, da non dormirci la notte.
La
testa aveva una forma cilindrica, probabile risultato di qualche
bizzarro incidente di lavoro o forse a causa di una malformazione, e
non potevi fare a meno di domandartelo; la pelle era spessa, aveva il
colore del cuoio e sembrava effettivamente cuoio, con grosse pieghe
in cui ci si poteva infilare l'intero dito e vederlo scomparire; i
capelli non erano capelli, ma una grigia moquette ricettacolo di
sporcizia e insetti di ogni tipo. La struttura fisica era imponente,
superava i due metri e aveva dei muscoli grossi e sformati, e
sicuramente l'andatura zoppicante era dovuto al fatto che le braccia
erano molto più grosse delle gambe.
Urlò
di nuovo come un selvaggio.
«Fai
qualcosa, ti prego fai qualcosa!» mi strillò
nell'orecchio Carolina, sull'orlo della pazzia; Elisabetta sembrava
in stato catatonico. Non sbatteva più le palpebre.
La
afferrai sotto le ascelle e la costrinsi ad alzarsi in piedi, ma
sembrava di sollevare un carico di massi anziché una ragazzina
tutta pelle e ossa, non so se per via del peso morto o per il fatto
che mi sentivo tutti i muscoli del corpo completamente molli.
Quando
iniziai a pensare che non saremmo mai riusciti a metterci in salvo
tutti e tre (ma io e Carolina si, e magari sull'onda di quella brutta
esperienza tra noi sarebbe potuto succedere qualcosa), il Mostro si
fermò ed emise una risata sguaiata, puntando il manico di
scopa contro di noi come una sorta di bacchetta magica.
«Conosco
i vostri nomi. So dove abitate. Dovete ripagarmi i vetri, bastardi!»
«I...
i vetri?» disse Carolina.
«Glieli
pagheremo. Ci lasci andare a casa, per favore.»
L'uomo,
il Mostro o qualsiasi altra cosa fosse, per un istante parve
ragionare; perlomeno, parlava la nostra lingua e sembrava capire
quello che gli avevo detto, e fui sicuro che ci avrebbe lasciato
andare. Ma poi il suo sguardo cadde su Elisabetta e si fece cattivo.
Riprese ad avanzare verso di noi, brandendo il manico di scopa con
fare minaccioso.
«Sei
tu che mi lanci i sassi di notte. Ti ho vista! Adesso vedrai cosa ti
faccio!»
Carolina
fece un verso di paura indescrivibile; il lato davanti dei suoi
pantaloncini si macchiò di scuro e la pipì le colò
lungo le gambe. Elisabetta, lei ormai si era rifugiata con la mente
in un mondo tutto suo.
Trovai
le forze per tirarla su con uno strattone e me la caricai in braccio,
poi iniziai a correre; potevo solo sperare che un tizio così
grande e grosso, e così svitato, non avesse le capacità
atletiche per corrermi dietro.
Vidi
il manico di scopa rotearmi a qualche centimetro dall'orecchio; buon
segno, se l'aveva lanciato, significava che non aveva alcuna
intenzione di seguirci.
«Cosa...
cosa succede?» mormorò Elisabetta. Aveva la voce di chi
si risveglia all'improvviso da un sogno piuttosto movimentato.
«E'
tutto a posto» le dissi io col fiatone, senza rallentare.
«Carolina, ci sei?»
Nessuna
risposta da Carolina.
Mi
voltai con la testa, ma non smisi di correre.
Il
condominio del Mostro era a più di un centinaio di metri di
distanza ormai.
Di
lui non c'era più traccia.
Di
Carolina nemmeno.
Mi
fermai.
«Credi
di riuscire a reggerti da sola?» chiesi ad Elisabetta.
«Io...
si, penso di si. Cosa è successo? Dov'è Carolina?»
La
lasciai andare e nonostante la gambe traballanti riuscì a
stare in piedi senza troppi problemi.
«Io
non lo so. L'ho lasciata andare quando ho raccolto te. Ho paura che
l'abbia presa.»
«Il
Mostro?»
«Devo
tornare indietro. Non posso lasciarla.»
Lei
mi fermò prima che potessi fare un passo, mi strinse le mani
attorno alla vita e mi si gettò addosso.
«No!
Sta scendendo il buio. Ti prego, portami a casa. Puoi telefonare ai
tuoi genitori e chiedere se passano a prenderti. Oppure puoi fermarti
a dormire da me. Che ne dici, ti va?»
Tachicardia.
Non puoi sentirti chiedere una cosa del genere dopo che hai appena
corso i cento metri inseguito dal diavolo.
«Dai,
andiamo. Prima che torni!»
La
madre di Elisabetta era una donna molto grossa e molto anziana, con
una mentalità antica; si dimostrò fin da subito molto
cordiale e gentile, forse anche troppo, tanto da sembrare sospetta.
Forse pensava che io fossi il fidanzato di Betty, e la cosa mi faceva
piacere.
Fu
lei stessa a telefonare ai miei genitori, non chiedendogli, ma
dicendogli che mi sarei fermato per cena e anche per la notte
e che si, potevano stare tranquilli, non avrebbe permesso a me e ad
Elisabetta di dormire nella stessa stanza.
Riattaccò
senza neanche farmi parlare con loro.
Dopo
cena, la donna andò subito filata a letto, e io ed Elisabetta
restammo in salotto, seduti su due divani diversi, a guardare la tv
in silenzio.
«Che
ne dici se guardassimo un film horror?» le chiesi, con tono
scherzoso. La sua faccia inespressiva diceva più di mille
insulti.
«Scusa,
era una battuta cretina.»
«No,
scegli tu cosa guardare.»
Scorsi
un po' di canali a caso fino a trovare un varietà di quelli
che andavano di moda in quegli anni, una schifezza con barzellette
senza allusioni sessuali e stacchetti musicali con ballerine in
corpetto e giarrettiera.
Lo
guardammo senza seguirlo veramente.
Lei
a un certo punto si alzò, andò al telefono, sollevò
il ricevitore e poi tornò a sedersi nell'identica posizione di
prima.
Io
la guardai perplesso e lei mi spiegò: «I genitori di
Carolina chiameranno sicuramente, non vedendola tornare.»
Rimasi
in silenzio, non sapendo cosa dire.
«Cosa
credi che le succederà?» mi chiese.
«Forse
è riuscita a scappare» azzardai. «Anzi, sai che ti
dico? Sono quasi sicuro che lei sia corsa nella direzione opposta
alla nostra. E poi al Mostro non interessava Carol, lui sembrava
essersi fissato su di te.»
Elisabetta
sgranò gli occhi, e io capii di aver fatto un'immensa cazzata.
«Su
di me? E perché?» mi chiese, terrorizzata.
«Beh,
parlava di cose assurde, sembrava convinto che tu fossi andata a
lanciare sassi contro le sue finestre. Ma non è che lui voglia
te, probabilmente se dovesse rivederti nemmeno ti riconoscerebbe!»
Voltò
di scatto la testa verso la finestra.
«Ho
sentito un rumore in giardino!»
«Aspetta,
controllo io. Vedrai che non è niente.»
Mi
affacciai alla finestra e guardai in direzione del piccolo angolo di
giardino; un gatto stava camminando tra i cespugli, in cerca
probabilmente di una preda con cui divertirsi un po'.
«Hai
un gatto?»
«E'
quello dei vicini» disse lei, sollevata. «Viene sempre a
rompere da noi. Scusami, ma ho i nervi a fior di pelle.»
«Dovresti
dormirci sopra. Vedrai che domani andrà meglio.»
«E'
una buona idea. Ehi, tu non vorrai veramente dormire sul divano,
vero?»
«Beh...»
mormorai. Avevo un'idea migliore, ma mi vergognavo a dirla a me
stesso, figurarsi a lei.
«Puoi
stare in camera mia. Mia madre non si alza mai prima delle sette e
mezza, basterà puntare la sveglia un po' prima così non
si accorgerà di niente.»
«Accorgersi
di cosa?»
«Del
fatto che abbiamo dormito insieme, scemo!» disse lei,
arrossendo.
Rimasi
un attimo inebetito, ma lei mi prese per mano e sorridendo mi
trascinò di peso fino in camera sua, e poi chiuse la porta a
chiave.
«C'è
un solo letto.» le feci notare.
«Ma
io ti faccio così schifo?» mi chiese.
«Non
capisco» balbettai. Mi sentivo così in imbarazzo che mi
sembrava di sudare.
«Possiamo
dormire nello stesso letto. Se ti va, dico.»
«Certo
che mi va!» dissi. Probabilmente lo urlai.
Lei
ridacchiò. «Adesso però girati, devo mettermi il
pigiama. Promettimi che non guarderai.»
«Si,
lo prometto»
«Giuralo!»
«Lo
giuro»
Non
guardai, ma cosa cazzo stava succedendo? Ragazze che mi si
avvinghiavano addosso, mostri, rapimenti, e la mia innamorata che si
spogliava in mia presenza chiedendomi di dormire con lei. Che fosse
una candid camera?
«Io
non ce l'ho il pigiama» dissi.
«Mi
sa che dovrai dormire vestito, a meno che tu voglia mettere uno dei
miei»
Si
mise a ridere e anch'io ridacchiai. Lei si infilò sotto le
coperte, e io mi misi seduto ai piedi del letto.
«Che
fai, non vieni?»
«Rimango
a fare la guardia»
Lei
sorrise e si allungò a baciarmi la fronte.
Sogno
romantico, solo un coglione sfrutterebbe questo momento per farsi una
scopata.
Solo
una testa di cazzo non lo farebbe.
Restammo
in silenzio per qualche minuto, io assorto nei miei pensieri e lei,
presumo, nei suoi. Chissà se erano gli stessi pensieri? Forse
si era solo addormentata.
Invece
no, perché d'un tratto parlò.
«Cosa
racconteremo domani? Riguardo Carolina, intendo. Dovremmo dire la
verità? O fare finta di niente? Se parlassimo, quel Mostro
potrebbe venire a cercarci.»
«Non
pensiamoci adesso, d'accordo? Domani decideremo con calma, insieme.
Adesso però dormi.»
«Vieni
anche tu. Non stare lì tutta la notte a fare la guardia, ok?»
Io
annuii. Due minuti dopo stava già dormendo, e io, da vero
gentleman, andai a dormire sul divano in salotto, non prima di averle
dato il bacio della buonanotte.
Forse
era l'effetto della dormita o forse il fatto che la luce del giorno
faceva vedere le cose sotto un diverso punto di vista, ma la mattina
seguente Elisabetta sembrava essere tornata la ragazza fredda e
distaccata di sempre.
«Alla
fine hai dormito sul divano. Bravo, meglio così. Se mia madre
si fosse accorta di qualcosa avrebbe fatto scoppiare un casino che
non ti dico.»
Facemmo
la strada per scuola insieme, senza scambiare una parola, e passammo
anche davanti alla casa del Mostro; a quell'ora, con il via vai di
macchine e pedoni, non sembrava poi così minacciosa.
Ma
quando ci fummo davanti, Elisabetta mi prese la mano e non la lasciò
più fino a quando non varcammo il cancello della scuola,
attirando le occhiate curiose e divertite di una decina di nostri
compagni di classe. Elisabetta arrossì e mollò
immediatamente la presa, avviandosi di gran carriera verso la nostra
classe e lasciandomi solo, mentre i miei compagni venivano a darmi
pacche sulle spalle e a chiedermi se me la fossi scopata.
Io
minimizzai, dissi che non era successo niente, che mi ero fermato da
lei per una ricerca e siccome si era fatto tardi avevo finito col
dormire a casa sua, eccetera eccetera, e mentre raccontavo tutte
queste balle a questi ragazzi che improvvisamente mi parlavano come
fossero stati i miei migliori amici, vidi Carolina da sola in un
angolo, che mi osservava con un'espressione severa e colma di
risentimento.
Ignorai
i ragazzi e andai da lei.
«Carolina!
Allora stai bene!»
«Io
sto benone. E la tua fidanzata, come sta?» mi chiese, con
sarcasmo.
Non
mi piaceva il modo con cui mi stava guardando né il tono della
sua voce, e men che meno poteva piacermi quella mancanza di rispetto
verso Elisabetta (insinuare che fosse la mia fidanzata, quale
offesa!); ciò nondimeno, non riuscivo a non sentirmi in colpa
per quello che avevo fatto il giorno prima. L'avevo abbandonata. Lei
aveva messo la sua vita nelle mie mani, e io non avevo saputo
proteggerla.
«Come
hai fatto a scappare al Mostro?»
«Sono
fuggita attraverso i campi. Lui non mi ha seguita, forse per paura di
tagliarsi, visto che era nudo.» Si chinò ad arrotolarsi
la gamba dei jeans, mettendo in mostra un taglio notevole sullo
stinco. «Ecco, questo me lo sono fatto scappando!»
«Comunque
sei riuscita a scappare. Io ed Elisabetta eravamo preoccupati per te.
Soprattutto Elisabetta, io me lo sentivo che eri riuscita a
scappare.»
«Non
certo grazie a te.»
«Insomma,
l'hai visto anche tu. Elisabetta non era in grado di scappare da
sola, e io non potevo prendere in braccio sia te che lei.
L'importante è che non sia successo niente di male a nessuno,
no?»
«Ma
vaffanculo! Hai preferito aiutare lei che me, ma pensi che lei te ne
sarà grata, povero scemo?»
Ripensai
alla sera precedente, alla voce languida di Elisabetta che mi
chiedeva di raggiungerla sotto le lenzuola. Carolina non sapeva un
cazzo di niente, ed era una sensazione estasiante.
«Chi
lo sa? Se avessi preso te, ora Elisabetta sarebbe morta e tu saresti
qui a darmi la colpa. Perciò ho preso la decisione giusta.»
«Abbiamo
solo voluto sfruttarti. Lo sapevamo che bastava farti gli occhi dolci
e tenerti un po' per mano per farti fare tutto quello che volevamo.
Sei così stupido che mi fai quasi pena.»
Io
feci un gran sorriso e la guardai dritto negli occhi, fino a
costringerla ad abbassare lo sguardo: «La sai una cosa,
Carolina? Quasi mi dispiace che il Mostro non ti abbia presa. Anzi,
se dovessimo incontrarlo di nuovo, gli darò il tuo nome e il
tuo indirizzo di casa. Gli dirò che sei tu quella che gli
rompe i vetri delle finestre a sassate. Così verrà a
prenderti a casa e ti farà sparire una volta per tutte.»
Mentre
parlavo, i suoi occhi si riempirono lentamente di lacrime; alla fine
aveva il mento tremante e trovò solo la forza di mostrarmi il
dito medio, prima di voltarsi e andarsene.
Finite
le lezioni, uscii dalla classe a piccoli passi, guardandomi attorno
con nonchalance. Era Betty che cercavo, per tutta la mattina l'avevo
guardata, sperando che anche lei guardasse me, o che i nostri sguardi
si incrociassero anche solo per caso. Invece niente. Del resto lei
era una ragazza che prestava attenzione a tutte le lezioni, persino a
quelle tenute dai supplenti, e la sua testa era sempre immersa nei
libri. Però non era venuta a cercarmi nemmeno durante
l'intervallo e pure ora non si vedeva.
Ci
eravamo tenuti per mano. Mi aveva dato un bacio, sia pure sulla
fronte. Mi aveva chiesto di dormire insieme a lei. Era già
tutto finito?
Se
l'avessi immaginato, sarei stato più gentile con Carolina.
Invece
Betty era sulla soglia del cancello, e mi stava aspettando con un
sorriso divertito.
«Eccoti,
dov'eri finito?»
«Io...
ti stavo cercando.»
«Davvero?
E perché?»
Alzai
le spalle. «E tu perché mi stavi aspettando.»
Si
guardò intorno. Un fiume di studenti stava uscendo dalla
scuola spargendosi in mille direzioni; molti si avviavano lungo via
XXIV Maggio, certi che la luce li avrebbe difesi da ogni pericolo.
Quando fummo rimasti solo io e lei, finalmente, mi parlò.
«Che
ne dici di accompagnarmi di nuovo a casa?»
«Non
è ancora il tramonto»
«Lo
so, ma... ieri è stato emozionante, non trovi?»
«A
me è sembrato un sogno.»
«Lo
stesso per me. Mi sembra impossibile che sia successo veramente.»
«Non
dirlo a Carolina.»
«Era
molto arrabbiata?»
Annuii,
indeciso se raccontarle della nostra piccola discussione di qualche
ora prima; alla fine optai per tenermela per me, almeno per il
momento. Il fatto che Carolina fosse una serpe profittatrice non
significava che lo fosse anche Betty.
«Beh,
sai che ti dico? Chi se ne frega! Andiamo, dai!» disse lei
raggiante, dandomi la mano. Io la presi, e stavolta facemmo tutto il
tragitto mano nella mano, e lei non smise un secondo di parlare, e io
non capii una sola parola di ciò che stava dicendo.
L'orologio
sulla parete di camera sua segna le otto e mezza. Sono sette anni che
segna le otto e mezza. Non è un problema di batteria, è
il meccanismo che è andato a puttane, ma Betty è
affezionata a quell'orologio, è un regalo che sua nonna le
fece quando compì dieci anni e non vuole staccarlo dalla
parete.
Nell'altra
stanza il cadavere di sua madre sta marcendo lentamente e
inesorabilmente, ma noi abbiamo scopato e io sarei pronto a rifarlo
anche subito.
Betty
piange. Odiava quella donna almeno quanto la odiavo io, ma in casi
come questi l'odio non serve ad addolcire le cose; aumenta solo i
rimpianti.
«Non
devi venire al funerale se non vuoi.»
Io
la bacio sulla fronte, come lei aveva baciato me sette anni prima, la
sera che insieme eravamo sfuggiti al diavolo. La sera che l'avevo
salvata dal Mostro. La sera che la nostra storia era iniziata.
Chissà
se anche lei è grata al Mostro come lo sono io.
«Non
voglio abbandonarti un secondo. Ti sarò vicino.» le
dico.
Come
promesso, non la abbandonai un secondo. Lei uscì dalla chiesa
a metà della cerimonia, e io le restai vicino. Camminammo mano
nella mano senza una meta in particolare, mi lasciai guidare da lei e
lei mi portò per le viette seminascoste che ai tempi delle
medie percorrevamo per andare a fumare o a limonare di nascosto.
Lì
è dove ci baciammo la prima volta.
Là
è dove lei diede a Carolina lo schiaffo che troncò
definitivamente la loro amicizia.
Più
in fondo è dove scrissi con una bomboletta spray le nostre
iniziali in un cuore rosso.
E
qui, è dove mi dice che aspetta un bambino.
Un
bell'epilogo per una storia dell'orrore.
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